Countdown liturgico

Tra lockdown sanitario e countdown litugico si sono mosse con trepidazione e qualche turbamento le diocesi italiane, nei giri di lancette (ormai vetuste) a precedere la ripresa delle celebrazioni in “in presenza”. Nella contemporaneità effettiva di ministri ordinati e di assemblee in carne e sangue lo spazio fisico delle chiese ha riaperto pubblicamente le proprie porte – mai chiuse, in genere, alla preghiera privata.

Per ottemperare al diritto di culto rivendicato dall’alto e corrispondere alle esigenze eucaristiche di spiriti devoti le parrocchie nel frattempo si sono organizzate, allestendo le proprie aule liturgiche in ossequio al protocollo sanitario disposto in base all’accordo tra CEI e Governo italiano. In questa atmosfera, non si è mai fatta attendere l’immancabile polarizzazione di opinioni e posizioni.

In questo momento, vorrei tenere fisso lo sguardo su ciò che si è messo graziosamente in esercizio per la crepa provocata da Covid-19 nelle nostre compattezze cultuali e in ogni strategia ecclesiastica di conservazione. Quel che rischia di essere rubricato come sciagurato inceppamento del macchinario liturgico-pastorale, in attesa di ripristino, custodisce in verità un kairòs benedetto per la qualità della nostra fede e delle sue pratiche più affezionate.

Ci fu un tempo di esilio

L’accostamento di temi come quelli di una sfortunata sciagura e di una inedita benedizione divina, liberato dalla piega di un senso meccanicistico (Dio castiga Israele), trova una sponda per la drammatica del tempo presente nella figura biblica dell’esilio. Il richiamo di questa figura non sembra essere distonico, nel momento in cui il popolo della promessa lamenta di non poter più esercitare il proprio culto al Dio dell’alleanza (cf. Dan 3,38; Os 3,4; Lam 2,9), senza neppure sapere “fino a quando” (cf. Sal 73,9).

Eppure, da questo abisso di desolante fallimento, in cui la stessa immagine di Dio avrebbe subìto l’ineluttabile frantumazione, Israele non venne annientato. Al contrario, fece esperienza della possibilità di una svolta radicale per riferimento al suo rapporto con YHWH e alle pratiche corrispondenti del proprio credere in Lui. L’abominio della distruzione del tempio in Gerusalemme non decretò la fine del legame cultuale col Dio di Israele, poiché la dimora del Santo sulla terra fu scoperto essere qualcosa di più dinamico: lo stesso suo popolo, perfino nella condizione ignominiosa dell’esilio. In quella estrema prostrazione non solo religiosa, ma al contempo politica, sociale ed economica emerse dalla frattura impostasi la profezia di un’inedita, paradossale abitabilità della storia in compagnia di YHWH.

E così, ieri come oggi, si tratta di saper opporre vulnerabilità di libertà esposte alle logiche automatizzate e an-estetiche di una bieca necessità. Essenzialmente è sempre stato questione di un fronteggiamento, tanto sulla sponda delle singole esistenze, quanto su quella del comune abitare il mondo; fuori e dentro i confini presuntivamente tracciati del popolo della promessa, ora come allora. È il rischio ineliminabile del sapere autentico, giocato nel corpo a corpo con l’ineluttabile tragico, che non smette di ottundere la storia e di impattare con violenza sulle innumerevoli biografie, mentre, testarde, esse vi iscrivono senso con instancabile speranza e inaudita fiducia.

Il vuoto di una tomba

Alla figura biblica dell’esilio sembra accostabile quella della tomba vuota del messia. La corrispondenza evangelica emerge con folgorante evidenza dall’attestazione giovannea (cf. Gv 20). Apprezzabili sono nello specifico quei punti che le mettono a contatto nel loro convergere intorno alla simbolica della interruzione/rottura. In entrambe le figure vale infatti il criterio secondo cui ogni apprendimento, all’altezza del proprio desiderio, sa da sempre di non potersi muovere fuori dallo spazio di un azzardo che si determina nello specifico come libero spossessamento di sé (cf. Gen 32,23ss).

Il disporsi così di una libertà affezionata rende sensibile la soggettività (singolare/individuo e plurale/popolo) alla grazia improducibile dell’apprendimento: da altro di sé, di altri da sé. Per poter dunque far posto al nuovo occorre mantenersi fedeli a uno stile di spossessamento: imparare ad abitare quel dinamismo intimo e costitutivo della soggettività in quanto tale.

ripresa messe

Allora come ora, tutto sta o cade in grazia di una smisuratezza: l’essere sempre di nuovo disposti ad abitare in modo salutare la rottura, accettando con speranza di “crepare” per così dire. La crepa simbolizza un punto d’insorgenza nella coscienza individuale e collettiva: l’impossibilità di dominare in modo assoluto ogni cesura; l’illusorietà conseguente del volersi pensare ab-soluti. La soggettività pertanto trova la sua autentica postura esistenziale solo nello/come stile di spossessamento, facendo conto di non trattenere nulla per sé. Lasciandosi “ab-solvere” (cf. Gv 20,22s), fosse anche da ciò che di può caro, sacro e santo ha sperimentato, non potrà più temere di essere trattenuta dall’imperversante potere della morte.

Tutto questo si (ri-)presenta sul bordo enigmatico di una tomba vuota. Presso il monumento che onora l’ineluttabilità della rottura mortale, quale ultima parola sulla vita, è attesa la libertà affezionata della figura discepolare. Il tocco non rapinoso di un senso eccedente si fa disponibile alla sensibilità di colui/colei che ama. Solo se questi, accostandovisi, accoglie l’appello a non trattenersi nel passato spossessandosi della brama di piegare il mistero alla propria misura (cf. Gv 20,1-10).

Si muore e/o si (ri)nasce a partire da qui, sul bordo estremo oltre il quale a nessuno sguardo è dato di sporgersi. Qui, infine, si genera ciò che fa la differenza tra stili irriducibili di abitare il mondo e di fronteggiare il mistero santo che lo permea. Si tratta di quel differenziale sensibile che convince la soggettività a non vivere per la morte: ossia, a non “esistere-per-trattenere”, ma a “esistere-per-(lasciarsi)-toccare”. La serie susseguente delle apparizioni possiede sufficiente sfrontatezza per mostrarne la dinamica in maniera inequivoca. Secondo l’efficacia simbolica che le appartiene, la narrazione coglie il tauma di scarti stilistici nel loro grazioso insorgere, mentre registra con traumatica schiettezza il ripetersi di rischiosi slittamenti, di ambigue contiguità e di rigidi automatismi interni alla posizione affezionata del credere.

Se è così, allora il vuoto di quella tomba non coincide mai con una mera interruzione priva di spessore tra un prima (tragico) e un dopo (glorioso). In effetti, sul piano teologico, la partita pare decidersi radicalmente entro quei precisi contorni spazio-temporali della disposizione delle sensibilità in campo: dell’Assente come degli astanti.

Ci si è fin troppo poco in-trattenuti presso questa figura e sulla sua intrinseca rivelatività. Si è ritenuto di poterne circoscrivere il significato alla sola funzionalità transeunte, in vista del raccordo/sutura tra morte e risurrezione. Eppure, sembra celarsi qualcosa di più denso e insaturabile di un vacuo vuoto. Balena in quell’assenza l’invito a una sosta, a concedersi tutto il tempo richiesto – non dalle nostre sacrosante impellenze, ma dalla graziosa (dis)misura di parole mai udite e di un senso inedito che fa nuove tutte le cose.

La convocazione dei due luoghi biblici (esilio e tomba vuota), sull’asse di una semantica istituita a partire dalla simbolica della rottura/crepa, può dunque offrire anche all’oggi ecclesiale tracce di un kairòs riconoscibile.

Saper fare senza copione

Dall’interruzione di tempi e gesti affezionati è insorta, ancora una volta, la forza mite dello scarto (cf. Sal 118,22; Mt 21,42; At 4,11; Rm 9,32s; 1Pt 2,4.7), non ultimo ben ribadita dal vescovo di Roma Francesco. In tale figura si rende disponibile un resto improducibile di senso escatologico mai più riassorbibile. Le difficoltà però sorgono al momento di impiegare questa riserva preziosa.

Esemplarmente, si osservino due slittamenti sintomatici riferibili alla qualità dell’interpretazione ecclesiastica del decreto stipulato da CEI e Governo italiano. Anzitutto si è inteso, pressoché unanimemente, di “dover” riprendere pubblicamente le celebrazioni lì dove veniva indicato con chiarezza l’eventualità di una ripartenza (“potere”). In secondo luogo questa possibilità liturgica si è tradotta nei termini univoci della celebrazione eucaristica. Parole come “liturgia”, “celebrazione” non ammettono ormai altre accezioni al di fuori del loro “naturale” rimando all’eucaristia; anzi, alla “santa messa”.

francesco

Ad ogni ordine e grado del popolo di Dio e in tutta semplicità (e tanta semplificazione) tali automatismi tradiscono quanto la coscienza cattolica fatichi e necessiti di tempo per stabilizzarsi su altri ordini di senso. La devozione sincera nei confronti dell’eucaristia, culmen et fons di ogni celebrare liturgico, continua a declinarsi secondo la semantica offerta dall’ubi maior minor cessat. L’involontarietà di un tale impoverimento non può valere però a legittimazione di poter esautorare una molteplicità di forme e modi possibili alla professione liturgica della fede.

Il nostro esilio e la Parola che ci ha seguito

Ripartire dalla convergenza di esodo e tomba vuota significa assumersi con coraggio una responsabilità ben precisa sul piano ecclesiale: anzitutto di permettere all’interruzione avvenuta di far saltare gli automatismi. Gli slittamenti di cui si è fatto cenno denunciano invariabilmente una coscienza livellata su consuetudini agenti a vario livello, che pretendono di valere per tradizioni inamovibili. Interruzione, in questo caso, non vale affatto come smentita di ciò che è più caro e della sua trasmissione.

Al contrario, vuole esattamente riaffermarne l’imprescindibilità, ma non al prezzo della propria sempre possibile rigenerazione. Per questo la crepa sopraggiunta su tempo e gesti così cari al credere insorge come un resto (in)disponibile a generare novità di senso che in nessun caso tuttavia va trattenuto. Quel che così si offre ha forza per smuovere montagne e aprire strade sulle acque. Eppure, tutto questo “potere” non si sporgerà mai un passo oltre la mitezza che lo costituisce. Dignità regale nell’estrema vulnerabilità del suo darsi: in tutto questo è detto da sempre il profilo teologico della figura messianica in quanto scarto.

In questo tempo di esilio dalle nostre consuete pratiche di fede e negli spazi liturgici sempre più somiglianti a tombe vuote, il kairòs messianico si è mostrato ancora una volta nella forma di uno scarto quasi insignificante. Eppure, per quanto discretamente possa entrare in scena (cf. 1Re 19,11-13), non nasconde la sua natura filiale nel suo racconto del volto paterno (cf. Gv 1,12-13.18). In merito sembra possibile indicare due guadagni promettenti.

Il primo va in direzione della persistente presenza di Dio nella sua parola. Il memoriale di Lui attestato nelle Scritture ha continuato ad animare tanto la nostra ricerca di un senso vivibile, quanto la nostra preghiera accorata in questi giorni di lockdown sociale e liturgico. Raggiungendoci nel segreto di ogni nostra singola lectio, come nel domestico ascolto condiviso, o grazie all’ambiente digitale.

Si è potuta apprezzare, come mai forse prima in ambito cattolico, la snellezza affascinante della parola di Dio, la sua inusuale praticabilità e l’estrema sua duttilità alle varie forme in cui si lascia fruire. È risuonata l’autorità della sua con-vocazione per l’edificazione di legami fraterni nel nome del Vivente, non violando di uno iota il desiderio ardente di una sperata condivisone eucaristica. Servire all’autenticità di un tale profilo significa godere dello Spirito e della sua libertà destrutturante/ristrutturante per poter riconoscere, anche nelle pratiche più devote della fede, sovrapposizioni indebite e compresenze spurie.

Popolo celebrante

Un altro elemento non trascurabile di questa prossimità “da remoto” è il focus sul soggetto della celebrazione. In effetti è l’acquisizione più tenera spuntata quasi spontaneamente dalle pratiche domestiche dei mesi trascorsi, ma che rischia il riassorbimento nelle consuetudini liturgiche per il countdown da poche ore terminato. Al netto dei doverosi adattamenti imposti dagli imprescindibili protocolli sanitari, la questione si concentra ora sul come si tornerà a celebrare l’eucaristia.

Ovvero, su chi sia propriamente il suo celebrante, non tanto da un punto di vista dogmatico, ma essenzialmente pratico. Poiché, se il peso specifico liturgico si (è) sposta(to) dal ministro ordinato al popolo radunato, ogni celebrazione che nel nome del Signore intenda mantenersi nello spazio della fraternità ecclesiale riceve una dignità salvifica di qualità incomparabile, anche in assenza di preti.

La festa condivisa a misura domestica non sminuisce la gioia elargita dall’incontro col Signore della storia, ma la coltiva e ne corrobora il desiderio, in vista della sua sovrabbondante pienezza come figura eucaristica: “affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). settimananews