Il fondatore dell’associazione “Common Sense”: «Così insegniamo a genitori e ragazzi l’uso consapevole degli strumenti digitali»
La chiave per un uso responsabile degli
strumenti tecnologici? Il buon senso. Sì, quel vecchio, intramontabile
insieme di regole e consuetudini, che non richiedono particolari
spiegazioni, ma che oggi, alle prese con algoritmi, intelligenze
artificiali e identità virtuali risulta indispensabile. È la ferma
convinzione degli americani dell’associazione Common Sense – che in
inglese significa proprio “buon senso” –, da tempo attiva nella
divulgazione e formazione rivolta a genitori e a educatori
sull’utilizzo dei media da parte dei più giovani. Certo, si tratta di
un «buon senso» che deve essere al passo con i tempi che viviamo e le
sfide che pongono a tutte le realtà e le figure con responsabilità
formative.
E per questo l’associazione statunitense realizza ricerche, fornisce consigli pratici, diffonde recensioni e tutte le notizie utili a genitori ed educatori che vogliano conoscere più da vicino le opportunità del mondo digitale. Attiva dal 2003, con sede a San Francisco, Common Sense è finanziata fra l’altro da Twitter e dalle fondazioni Gates, Zuckerberg e Bezos. Il suo fondatore e presidente, James Steyer, è stato a lungo docente di Stanford, è autore di libri sul rapporto tra ragazzi e media, tra cui una guida ai social network per genitori ( Talking back to Facebook, uscito nel 2012) e, negli Stati Uniti, è ormai un personaggio di spicco del dibattito sull’uso consapevole degli strumenti tecnologici.
Il lavoro di Common Sense ha l’obiettivo di aiutare le famiglie e gli educatori a individuare un uso positivo delle tecnologie. Dalla vo- stra esperienza diretta, quali vi sembrano oggi i problemi più importanti da risolvere?
C’è
parecchio da fare per adottare percorsi di cittadinanza digitale,
molto richiesti nelle scuole statunitensi. Il 91% degli educatori
americani trova questi programmi assai utili e si dichiara
particolarmente interessato a tematiche come il cyberbullismo, il
discorso d’odio e la privacy. Inoltre gli insegnanti guardano con
preoccupazione alle scarse abilità nel valutare criticamente le
informazioni online da parte degli studenti. Sono ancora in pochi a
insegnare questo tipo di competenze in classe. Nuove opportunità
arrivano poi dagli strumenti che uniscono apprendimento e tecnologia e
si presentano come giochi per i bambini più piccoli. Su questo però
manca ancora un’adeguata formazione da parte degli insegnanti. Negli
Stati Uniti assistiamo anche a un divario fra gli studenti di classi
abbienti e i loro compagni meno fortunati riguardo alle dotazioni
tecnologiche necessarie per lo svolgimento dei compiti. Per questo
abbiamo promosso un disegno di legge per l’ampliamento della diffusione
della banda larga.
C’è il rischio di sviluppare una dipendenza dagli strumenti digitali? E quale può essere il ruolo dei genitori nel prevenirla?
La
dipendenza e l’uso problematico delle tecnologie sono due cose diverse
anche se possono apparire simili. Molti ragazzi usano i propri
telefoni e computer di continuo, ma lo fanno in prevalenza per
connettersi con gli amici. I veri problemi nascono quando questo uso
va a discapito di altre attività, come la scuola o i rapporti
familiari. I genitori dovrebbero dare l’esempio riguardo all’uso dei
media, così se i figli hanno problemi nel mantenersi al pari con i
compiti, con i propri incarichi in casa e con le altre attività li
possono aiutare ponendo alcuni limiti. Se però ci sono grosse
difficoltà a riprendere il controllo da parte dei ragazzi – si
riappropriano di nascosto del telefono sentendosi poi in colpa, perdono
amicizie, interrompono molte attività, anche quelle legate alla scuola –
allora si apre la strada alla vera e propria dipendenza. In ogni caso,
per aiutare i propri figli ad avere un atteggiamento responsabile e
critico, sia online che offline, la chiave è lasciarsi coinvolgere in
prima persona. Provate a guardare qualcosa con i vostri figli, a fare
insieme un videogioco, incoraggiate un giusto bilanciamento tra l’uso
della tecnologia e le altre attività. E date voi stessi l’esempio.
Common
Sense si occupa anche di attività di “advocacy”, ovvero sostegno e
promozione di progetti legislativi. Quali sono oggi le sfide principali
che state affrontando?
Siamo molto impegnati nel favorire
leggi che chiedano alle società tecnologiche di realizzare prodotti
che tengano presenti le esigenze vere di noi utenti, e non mirino
soltanto ad attrarre e carpire la nostra attenzione. Quindi, ad
esempio, valorizziamo i prodotti e i servizi dove ci siano più
moderatori o algoritmi più intelligenti, e nei quali sia presente anche
una preoccupazione etica, in modo da garantire che i ragazzi abbiano
accesso a contenuti affidabili e di qualità e a una tecnologia che non
sia realizzata con il solo intento di tenerli incollati ai dispositivi.
Come
fare a promuovere questo senso di responsabilità da parte dei grandi
operatori, come Netflix, Amazon, Apple o Disney, per citare soltanto i
più noti?
Bisogna realizzare più ricerche sull’impatto dei media
e della tecnologia sui ragazzi: per questo noi appoggiamo iniziative
come il Camra (Children and Media Reasearch Advancement Act), che chiede
all’Istituto nazionale di sanità di finanziare studi sugli effetti dei
media, su neonati, bambini e adolescenti, sul loro sviluppo cognitivo,
fisico, sociale, emotivo.
Esempi di «buon senso» applicato
alla tecnologia sono anche le diverse campagne che Common Sense
promuove. Una delle più note è #Devicefreedinner, (letteralmente «cena
senza dispositivi »), che con video, post su Instagram e hashtag cerca
di convincere le famiglie a guardarsi in faccia durante i pasti. Un
altro fronte su cui siete molto impegnati è la lotta all’uso notturno
degli smartphone, cui avete dedicato di recente una ricerca ( The new normal. Parents, teens, screens and sleep in the US, La nuova normalità. Genitori, teenagers, schermi e sonno negli Stati Uniti). Perché tutto questo impegno?
Si
tratta di una vera e propria emergenza sanitaria. Secondo i nostri
studi il 74 per cento degli adulti e il 68 per cento dei ragazzi dorme
con uno smartphone accanto (dati recenti mostrano che in Italia i
numeri sono molto simili, ndr). Questo compromette la qualità
del sonno, perché la semplice presenza del telefono induce a un
controllo continuo, del quale nemmeno ci rendiamo conto. Io sono padre
di 4 figli e a casa nostra teniamo i telefoni fuori dalle stanze da
letto e la sveglia sul comodino.
Sempre più tempo davanti al display
L’attività
più praticata è guardare video, in modo sostanzialmente passivo. Le
grandi potenzialità di utilizzo creativo dello strumento sono riservate a
una minoranza di utenti.
È una delle conclusioni della
ricerca “The Common. Sense Census, media use in tweens and teens” (Il
censimento di Common Sense. L’uso dei media nei preadolescenti e nei
teenagers), studio quadriennale condotto da Common Sense su un campione
di oltre 1.600 ragazzi statunitensi tra gli 8 e i 18 anni.
La ricerca evidenzia un aumento rilevante del tempo passato davanti allo schermo, a smartphone o computer, che nei teenagers arriva in media a superare le 7 ore al giorno, mentre nella fascia dagli 8 ai 12 anni si attesta sulle quattro ore e mezza. Un uso sempre più individualizzato, dove la visione comune di programmi tv è ormai abbandonata in favore della visione on demand
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