Cosa lega l’Iliade e la Bibbia? La giustizia e la pietà

Giovanni Maria Benzoni (XIX secolo), "Priamo chiede ad Achille il corpo di Ettore". New York, Metropolitan Museum (Creative Commons)

da Avvenire

Quando pochi mesi fa il filologo Michel Zink ha preso il posto di René Girard tra gli accademici di Francia, tessendone l’elogio, oltre ad aver ricordato la sua fondamentale opera di antropologo che ha saputo cogliere nel meccanismo del capro espiatorio una dinamica ricorrente in tutte le culture, finalmente spezzata dal cristianesimo, ha segnalato un’altra caratteristica del suo pensiero: una filosofia della storia mai slegata dalla “visione dei vinti”. Sono le vittime a fare la storia, anche se molto spesso la loro voce non è stata registrata dagli storici. «Sì, il Dio di René Girard è il Dio del Magnificat, che “rovescia i potenti dai troni ed esalta gli umili”», ha detto Zink citando poi Simone Weil, per la quale la giustizia è eternamente in fuga dal campo dei vincitori.

Nel volume La Grecia e le intuizioni precristiane, uscito da Borla nel 1984 e qualche anno fa ripubblicato da Adelphi col titolo La rivelazione greca (2014), la Weil racconta come a suo parere l’Iliade, assai più dell’Odissea e dell’Eneide, rappresenti il poema della forza e della sventura. «Gli uomini non sono divisi in vinti, schiavi e supplici da un lato, in vincitori e capi dall’altro; non ce n’è uno che a un certo punto non sia costretto a piegarsi sotto la forza». Da Patroclo a Ettore fino ad Achille, tutti i personaggi di Omero sono vittime della violenza della sorte. «L’Iliade – scrive ancora – è unica proprio per questa amarezza che deriva dalla tenerezza e che si diffonde in tutti gli esseri umani. Nulla di prezioso, destinato o meno a perire, è disprezzato». Pietà e compassione sono l’unica risposta possibile alla sventura e, in questo senso, il poema di Omero non ha avuto imitazioni. Soltanto la tragedia attica può essere considerata una sua continuazione, e solo in parte, il pensiero di Platone. Ma soprattutto il Vangelo, «ultima e meravigliosa espressione del genio greco».

È curioso che in quegli stessi anni un’altra filosofa ebrea, Rachel Bespaloff, anch’essa rifugiata in America per sfuggire al nazismo, abbia scritto un libretto sul poema omerico. Aveva cominciato a lavorarci nel 1939, mentre era in Francia, per completarlo negli States, dove è uscito nel 1943 per le edizioni Brentano’s. Sull’Iliade è il titolo e viene pubblicato – dopo altre traduzioni italiane nei decenni scorsi – ora da Adelphi (pagine 116, euro 12,00) con la prefazione dello studioso e suo amico Jean Wahl.

Inviando a Gabriel Marcel, nell’aprile 1942, quelle che chiama «note ultimate quest’inverno, Dio solo sa come, per sfuggire all’insonnia e alle idee ossessive», la Bespaloff precisava: «Mi sono aggrappata a Omero: il più autentico, il tono, l’accento stesso della verità. Del resto considero la Bibbia e l’Iliade come libri davvero ispirati – nel senso letterale del termine. È stata una purificazione e una luce mai vacillante nel buio».

Rachel era nata nel 1895 a Nova Zagora, in Bulgaria, ma era cresciuta a Ginevra e poi a Parigi. Qui si sarebbe sposata nel 1922 con Shraga Nissim Bespaloff e da lui avrebbe avuto una figlia, Naomi, detta Miette. Nella capitale francese diviene discepola di Lev Sestov, il pensatore fuoriuscito dall’Unione Sovietica, e stringe amicizia con vari altri intellettuali provenienti dall’Est europeo. Scrive un articolo su Heidegger confrontandosi col suo pensiero, allo stesso modo di Lévinas. E poi un libro, Cheminements et carrefours, pubblicato nel 1938, serie di saggi su scrittori e filosofi che aveva frequentato: Julien Green, André Malraux, Gabriel Marcel e lo stesso Sestov.

Ma in quegli anni cresce in lei la preoccupazione per quanto sta avvenendo in Germania e per la sorte del popolo ebraico. Così, nel 1942, si imbarca alla volta di New York assieme alla figlia, al marito e alla madre. Ed è qui che scriverà il saggio sull’Iliade, di cui ogni sera legge qualche passo alla figlia. Finita la guerra, afflitta dal male di vivere, nel 1949 decide di togliersi la vita. Non è riuscita a reggere il peso dell’immane tragedia capitata agli ebrei.

Il libro della Bespaloff si apre con alcune pagine dedicate alla figura di Ettore, l’eroe che si oppone alla violenza. Come scrive Jean Wahll nella prefazione, «Ettore è la forza che preserva, la forza che sa di avere molto da perdere, e Achille la forza che distrugge e si distrugge, e si perde con voluttà in un malinconico furore». Ma è Priamo a ergersi come il portavoce del poeta, è lui che strappa ad Achille il gesto imprevisto della compassione. Il dialogo fra i due sulle spoglie di Ettore è ancora una volta il segno che «gli uomini vivono tutti nell’infelicità» e che questo «è l’unico fondamento della vera uguaglianza».

Contro l’interpretazione di Nietzsche, la Bespaloff come la Weil vede in Omero non il poeta dell’apoteosi, quanto il cantore che «celebra non il trionfo della forza vittoriosa, ma l’energia umana nella sciagura». Più che nel pensiero di Platone, per Bespaloff è nell’opera del legislatore Solone che si ritrovano gli stessi accenti. Egli realizza «l’intima unione tra esigenza estetica e impulso etico che è all’origine del bisogno di giustizia dei greci». Il culto della rettitudine e la nobiltà del cuore ispirano la sua dottrina sociale, singolarmente simile al grido di Isaia per la libertà degli oppressi.

Molte altre sono le analogie evidenziate fra Iliade e Bibbia: il disincanto dei salmi di Davide, l’amarezza dell’Ecclesiaste, le lamentazioni dei profeti, il dolore di Giobbe si rispecchiano nei versi omerici. Così come l’amicizia fra Davide e Gionata rievoca quella fra Achille e Patroclo. E qui emerge una differenza sostanziale di valutazione rispetto a Simone Weil, che vede una sintonia più profonda con le pagine del Vangelo. Mentre per Bespaloff, se è vero che il cristianesimo ha operato una prodigiosa sintesi fra ebraismo e cultura greca, «tra il forte pessimismo di Esiodo e la corroborante amarezza di Osea, tra la ribellione di Teognide e le invettive di Abacuc, tra i lamenti di Giobbe e le trenodie di Eschilo esistono affinità più reali di quante ve ne siano tra Aristotele e il Vangelo».

Weil invece, accomunando in un giudizio negativo la civiltà romana e quella ebraica perché si sono volute «sottrarre alla comune miseria umana», compie un’opera di sostituzione e alla «rivelazione ebraica» fa subentrare «la rivelazione greca», unica vera premessa al cristianesimo in cui si ritrova la pietà per le vittime.