D a una parte, il rischio di ridurre l’omelia a un riassunto delle letture appena proclamate. Dall’altra, la tendenza ad affrontare soltanto le questioni del presente. Le «fughe» a cui si assiste oggi quando si prepara (o si ascolta) una predica durante la Messa sono queste. «Ma i bei discorsi sull’attualità o un’analisi specialistica della Scrittura non è l’omelia», spiega padre Matias Augé, professore emerito di liturgia istituzionale alla Pontificia Università Laternanense e al Pontificio Istituto Liturgico.
Padre Augé, come strutturare un’omelia?
Direi che si potrebbe partire dalle letture o da un testo, come può essere la colletta. Però ciò che conta è portare alla vita di fede. Quanto è stato meditato trova nell’Eucaristia la grazia perché si traduca nel quotidiano. Perciò si parla in modo tecnico di omelia mistagogica, ossia che introduce al mistero. Ecco perché è importante, ad esempio, un po’ di silenzio che consente di approfondire la Parola.
Davvero si assiste a una crisi d’identità dell’omelia?
Dal libro del giornalista di Avvenire,
Roberto Beretta, Da che pulpito…, e anche da inchieste nelle diocesi europee, emerge come l’omelia possa essere caratterizzata da discorsi generici, da una mancanza di connessione con l’attualità e con l’assemblea, da concetti anacronistici, da una conoscenza non aggiornata della Bibbia, dalla superficialità nel modo di presentare il messaggio. Il tutto va di pari passo anche con la poca preparazione del ministro. Non è un caso che nella Settimana di Paestum qualcuno abbia suggerito di introdurre nei Seminari una nuova materia di studio: l’omiletica.
E poi c’è la questione della comunicazione.
L’omelia non è una sfida intellettuale, ma un momento per condividere con l’assemblea ciò che il messaggio biblico offre nel contesto celebrativo. Certo va corretto un certo protagonismo di alcuni presbiteri.
Se il ministro dell’omelia è il vescovo, il sacerdote o il diacono, quale ruolo per i laici?
Nella rivista internazionale Concilium, una teologa nordamericana dell’Ordine domenicano ha spiegato che, finché il sacerdozio comune dei battezzati e quello ministeriale degli ordinati saranno percepiti in competizione, non avremo l’energia per affrontare la crisi odierna della predicazione. Comunque, in alcuni documenti della Chiesa, come l’istruzione del 1997 Ecclesiae de mysterio, si permette la presa di parola per i laici. Comunque, questo non significa che il laico tenga l’omelia. Essa è presieduta dal ministro ordinato, ma in alcune tipologie di assemblee, come quelle ridotte o con gruppi preparati, il celebrante può introdurre l’omelia, i fedeli possono proporre una loro riflessione e il ministro ordinato conclude il momento.
E come amplificare la portata della predica?
Alcune esperienze nel Nord Italia sono interessanti. Ogni sabato il sacerdote si raduna con alcuni laici della parrocchia che formano il gruppo biblico e assieme a loro discute sui contenuti. Così nella predicazione non si trasmetteranno solo le idee del prete, ma ciò che è scaturito dal confronto. Certo, questo presuppone una formazione adeguata della comunità.
Padre Augé, come strutturare un’omelia?
Direi che si potrebbe partire dalle letture o da un testo, come può essere la colletta. Però ciò che conta è portare alla vita di fede. Quanto è stato meditato trova nell’Eucaristia la grazia perché si traduca nel quotidiano. Perciò si parla in modo tecnico di omelia mistagogica, ossia che introduce al mistero. Ecco perché è importante, ad esempio, un po’ di silenzio che consente di approfondire la Parola.
Davvero si assiste a una crisi d’identità dell’omelia?
Dal libro del giornalista di Avvenire,
Roberto Beretta, Da che pulpito…, e anche da inchieste nelle diocesi europee, emerge come l’omelia possa essere caratterizzata da discorsi generici, da una mancanza di connessione con l’attualità e con l’assemblea, da concetti anacronistici, da una conoscenza non aggiornata della Bibbia, dalla superficialità nel modo di presentare il messaggio. Il tutto va di pari passo anche con la poca preparazione del ministro. Non è un caso che nella Settimana di Paestum qualcuno abbia suggerito di introdurre nei Seminari una nuova materia di studio: l’omiletica.
E poi c’è la questione della comunicazione.
L’omelia non è una sfida intellettuale, ma un momento per condividere con l’assemblea ciò che il messaggio biblico offre nel contesto celebrativo. Certo va corretto un certo protagonismo di alcuni presbiteri.
Se il ministro dell’omelia è il vescovo, il sacerdote o il diacono, quale ruolo per i laici?
Nella rivista internazionale Concilium, una teologa nordamericana dell’Ordine domenicano ha spiegato che, finché il sacerdozio comune dei battezzati e quello ministeriale degli ordinati saranno percepiti in competizione, non avremo l’energia per affrontare la crisi odierna della predicazione. Comunque, in alcuni documenti della Chiesa, come l’istruzione del 1997 Ecclesiae de mysterio, si permette la presa di parola per i laici. Comunque, questo non significa che il laico tenga l’omelia. Essa è presieduta dal ministro ordinato, ma in alcune tipologie di assemblee, come quelle ridotte o con gruppi preparati, il celebrante può introdurre l’omelia, i fedeli possono proporre una loro riflessione e il ministro ordinato conclude il momento.
E come amplificare la portata della predica?
Alcune esperienze nel Nord Italia sono interessanti. Ogni sabato il sacerdote si raduna con alcuni laici della parrocchia che formano il gruppo biblico e assieme a loro discute sui contenuti. Così nella predicazione non si trasmetteranno solo le idee del prete, ma ciò che è scaturito dal confronto. Certo, questo presuppone una formazione adeguata della comunità.
avvenire.it