Con il carattere apollineo ed eversivo del caos

 di Giona A. Nazzaro

"Se qualcuno dice: "Ho appena visto un film di Lubitsch dove c’era un’inquadratura inutile", costui mente. Il suo cinema è il contrario del vago, dell’impreciso, dell’inespresso, dell’incomunicabile, non ammette mai nessuna inquadratura decorativa, messa là per fare bella mostra: no, dall’inizio alla fine si è immersi nell’essenziale, fino al collo". François Truffaut non conosceva certo mezze misure. I suoi amori li difendeva a spada tratta. E il suo massimalismo estetico ha fatto scuola. Proprio come quello di Jean-Luc Godard che in La donna è donna chiamava il personaggio di Jean-Paul Belmondo, Alfred Lubitsch – la commedia e il giallo in un unico segno. Si sa. La nouvelle vague i suoi eroi li sceglieva con cura e ancora oggi, mettere in discussione alcuni di quei nomi, come qualche anno fa ha fatto Jacques Rivette, equivale alla messa in discussione di un intero universo etico ed estetico. In Lubitsch i fautori della nouvelle vedevano il principio stesso della mise en scene. Il cinema diventava linguaggio. Tutti i cineasti del pantheon della nouvelle vague fondano il loro magistero sul primato della messinscena. Alfred Hitchcock, Fritz Lang, Jean Renoir, Howard Hawks esprimono un cinema al tempo stesso radicalmente classico e moderno. In Lubitsch, Godard e Truffaut avevano trovato un cineasta che parlava e respirava cinema. E avevano ragione, perché il magistero lubitschiano, formatosi nella vecchia Europa, è diventato il fondamento stesso della commedia sofisticata americana. Un modello che, nonostante le incomprensioni iniziali, è stato ben presto riconosciuto come unico e irripetibile. Non è un caso che Billy Wilder, il primo dei discepoli lubitschiani, sia stato sovente accusato di volgarità perché ha osato elaborare il cinema del maestro. Ciò che conta nel cinema lubitschiano è la precisione e il nitore del gestocinema. Non la raffinatezza degli ambienti o il plot. Ciò che conta sono le traiettorie dello sguardo. E la medesima cosa vale per Billy Wilder. Sia Lubitsch che Wilder inscrivono il destino dei loro personaggi nello spazio dell’inquadratura e nel gioco delle maschere che privano i protagonisti del peso delle loro identità sociali. Sempre sottilmente eversivo, in Lubitsch il tema della maschera diventa epifanico della condizione d’esilio degli ebrei in Vogliamo vivere!, capolavoro rifatto con totale sprezzo del pericolo da Mel Brooks, senza però ascendere ai vertici lubitschiani. Tra la maschera e lo sguardo esiste dunque tutto il cinema di Lubitsch. Una macchina filosofica potente che mette in crisi gli equilibri del reale. Motivo per cui Lubitsch era amato sia dal cinefilo Truffaut, che dall’iconoclasta Godard. Il cinema ridisegna il mondo. È la lezione che Billy Wilder ha mutuato da Lubitsch (per certi versi, estremizzata da Jerry Lewis). Nessuno però dei discepoli lubitschiani è riuscito a ritrarre il carattere apollineo del caos come il maestro. Il carattere schiettamente eversivo di Lubitsch risiede nel gioco con cui le maschere dell’ordine e della razionalità sono rovesciate nel loro opposto. Le porte che si aprono e che si chiudono, stilema ripreso con sublime maestria da Blake Edwards, sono il segno di un oscillare del principio di realtà e del principio di individuazione. Come le palpebre che battono, le porte di Lubitsch segnalano interferenze nel tessuto del reale. Il mondo non è altro che un castello di carte. Basta una porta che si apre e tutto crolla. Ernst Lubitsch lo sapeva bene. Lui ci rideva sopra. Ma in fondo era mortalmente serio. Straordinario razionalista scettico, osservava il mondo agitarsi all’interno dei suoi perimetri perfetti. Non giudicava mai. Osservava e filmava. Con precisione ormai proverbiale. E mentre intorno a lui il mondo crollava, egli ne evocava un altro nel nitore del suo sguardo. Il fare cinema per Lubitsch era resistenza. (©L’Osservatore Romano – 19-20 luglio 2010)