Comunione e comunità

di: Luca Garbinetto

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Alla vigilia dell’apertura della fase 2, ci siamo sentiti con un amico, e abbiamo goduto di una lunga chiacchierata. A un certo punto, egli mi ha posto una domanda cruciale, nata di fronte al dibattito (purtroppo aspro) circa l’apertura o meno alla celebrazione delle sante messe per il popolo di Dio: “ma che cos’è sacro, per noi cristiani?”.

Mi sembra un’ottima traduzione della domanda tanto cara al mio fondatore don Ottorino Zanon: “ma cosa vuole Dio da noi, adesso? Cosa ci sta dicendo con quello che sta accadendo?”.

Volontà di Dio e senso del sacro

Il sacro è ciò che è gradito a Dio, ciò che gli appartiene, ciò che Egli si è messo da parte per sé. È tutto ciò che gli dà gloria, che è secondo il suo cuore.

Nel passato le religioni si sono strutturate attorno all’idea che nel mondo ci siano cose, luoghi, tempi, oggetti, persino persone che sono sacri, appunto “graditi” a Dio, in qualche modo “più vicini” a Lui, e altri meno, o addirittura per niente. Da lì le separazioni nette, e le divisioni che scivolano in aperte contrapposizioni, che emergono per esempio nella distinzione tra appartenenti al popolo eletto e pagani, tra puri e impuri.

La distinzione tra sacro e profano è una questione cultuale, solo successivamente diventa un problema etico, per cui i pii e gli empi si distinguono a seconda del loro comportarsi secondo le leggi morali che vengono da Dio. Alla base di ciò, la visione di un Dio che separa, distingue, seleziona; e di un uomo che è fatto in qualche modo a compartimenti stagni, per cui ci sono delle realtà di sé che sono conformi al volere di Dio e altre invece che ci allontanano da Lui, addirittura ci pongono in antagonismo.

Ebbene, Gesù ha scardinato questa prospettiva. La novità sconvolgente di Gesù sta nel dichiarare “monde” tutte le creature, nel rompere i confini di separazione, nello squarciare il velo del tempio per non catalogare più le realtà in sacre e profane. Tutta la creazione è sacra, cioè appartiene a Dio ed è fondamentalmente buona. E nella creazione, la “più buona” delle creature, l’uomo e la donna, è cara a Dio, con tutta la sua vita.

Dunque, la risposta che viene dal vangelo alla domanda del mio amico è che per Dio tutta la vita è sacra, soprattutto tutta la vita dell’essere umano. Dunque, anche per noi cristiani, la vita è sacra, tutta la vita, la vita di ogni persona nella sua interezza, fisica, psichica e spirituale.

Per discernere, partiamo dall’unità

Siamo qui a un punto di partenza radicale. Di fatto, nel chiederci cosa Dio ci stia dicendo in questo tempo di pandemia, dobbiamo avere il coraggio di partire dall’origine. Si tratta di esercitare rigorosamente l’arte del discernimento, che presuppone esplicitamente di allenarsi ad assumere davvero “lo sguardo e il cuore di Dio”, e di non limitarsi a cedere a sollecitazioni puramente emotive. La visione della fede attinge anche a una ragionevolezza primordiale, che implica il rinnovare la consapevolezza della rivelazione. Ci è stato rivelato che la vita di ogni persona è sacra, e che il culto gradito a Dio è proprio l’offerta di questa vita, nel dinamismo delle vicissitudini quotidiane (cf. Rm 12,1-2).

Più in profondità ancora, riscopriamo la meraviglia dell’identità di Dio, che è Uno, e di questa unità ci fa partecipi e ci vuole protagonisti. Il Padre e il Figlio sono Uno, nella diversità delle persone, con lo Spirito Santo a noi donato, che è l’energia d’amore che ci coinvolge e immerge nell’intimità trinitaria per godere della vita di Dio. Questo processo è costantemente in atto.

L’amore di Dio si concretizza nella dinamica dell’unità. In loro e tra loro, le Persone della Trinità vivono un vortice di reciproco dono e accoglienza, e non hanno mai smesso di farlo: si amano e sono se stesse amandosi. Dio è amore, per questo è Uno. A noi, come discepoli, è offerta e consegnata la grazia e la responsabilità di entrare dentro questo inarrestabile fiume di amore: «se sarete uno, vi riconosceranno come miei discepoli», dice Gesù.

Eccoci quindi a fissare un paio di punti di riferimento essenziali: la vita intera di ogni persona è sacra agli occhi di Dio; e Dio è Uno, per cui l’unità è la manifestazione e la verifica dell’amore che viene da Dio.

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Siamo al livello dei presupposti di fede con cui vogliamo fare la fatica di provare a interpretare anche la crisi che stiamo vivendo. Con una consapevolezza: le crisi hanno la caratteristica (virtuosa!) di porre in evidenza ciò che normalmente rischia di passare in secondo piano; diventano così l’opportunità per ricentrarsi sull’essenziale, che però non è diverso da ciò che dovrebbe orientare le scelte e i comportamenti di ogni tempo in cui viviamo. La crisi ci sta aiutando a rimettere in ordine la gerarchia dei valori che diamo alle cose.

Umiltà: creature mortali desiderose di relazione

Manca ancora un presupposto. Dall’unità di Dio, discende la necessaria unità della vita delle sue creature, che sono belle e buone tanto quanto restano attaccate alla fonte, all’origine, al Creatore. Gesù è venuto a donarci questo “ponte” di collegamento indistruttibile: la sua persona. Il Crocifisso Risorto è l’àncora che ci aggrappa indissolubilmente a Dio, al Padre. Questo era necessario, perché noi da soli siamo ballerini, instabili, incostanti, sia per la nostra fragilità costitutiva di creature, sia per aver ceduto alle lusinghe del peccato. Abbiamo in noi l’ansia e il desiderio di pienezza, di una vita abbondante e bella, di una unificazione interiore e con gli altri che ci renda felici: ma non ne siamo capaci.

Probabilmente lo sconcerto della quarantena è nato dal fatto che questa verità ci è stata sbattuta in faccia, e continua ad esserlo, poiché la nostra fatica a stabilire e a custodire legami di fedeltà e di comunione ora si è incarnata anche nell’impedimento a stringere rapporti “corpo a corpo”. Il distanziamento fisico palesa la realtà dei nostri cuori e delle nostre menti: siamo desiderosi di relazioni piene, costruttive, gratificanti, ma ci sono limiti e impedimenti che ci rendono sempre mancanti, incapaci di realizzare quest’intimo obiettivo.

Ora sappiamo tutti, per esperienza personale e condivisa con l’intera umanità (o quasi), che siamo esseri abilitati alla relazione, senza la quale ci sentiamo perduti; eppure siamo condizionati e frenati da confini e limiti costitutivi (quelli della nostra struttura fisica e psichica) o contingenti (come una pandemia: pur sempre avvenimenti naturali). Ma in questo senso, dentro il lockdown probabilmente abbiamo avuto la possibilità di accorgerci della nostra verità, anche spirituale, nel sentirci frenati dalla paura di un contagio nella nostra brama di uscire da noi stessi.

Insomma, abbiamo la possibilità di diventare più umili, più consapevoli di noi stessi, più connessi non tramite il web, ma con la nostra interiorità e verità. È una inaspettata e provvidenziale – ! – scuola di umiltà. E l’umiltà è il vero presupposto per difendere la vita nella sua interezza e sacralità, per diventare uniti.

L’arte instancabile dell’unità

Mi pare che le dure settimane della quarantena e le fatiche di questa pandemia mondiale, che continuano, facciano emergere con forza la necessità di vivere in un autentico atteggiamento di comunione, per costruire unità. Questo vale per tutti, ma per i cristiani non è uno slogan: è qualcosa di più radicale. È il nucleo dell’esperienza spirituale di ciascuno e della Chiesa.

È il punto di partenza, sempre. Il cristiano si chiede continuamente: in questo momento, di fronte a questo appello, come costruisco unità? Unità in me stesso, per crescere nel processo di integrazione personale. Unità con gli altri, in particolare con gli esclusi e gli emarginati, ma anche – e questo è assai duro – con coloro che non la pensano come me, che addirittura so che stanno sbagliando, che remano contro. Unità con Dio, che è oltre i propositi e le apparenze e appella alla condizione di origine di cui abbiamo parlato.

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Che cosa significa concretamente tutto ciò? Che cosa si è reso manifesto nel vissuto di questo tempo di crisi? A me pare che la questione in ballo riguardi propriamente il nostro modo di affrontare l’emergenza e, con essa, le situazioni e la vita in genere, che ci si è rivelata in tutta la sua importanza e, allo stesso tempo, nella sua vulnerabilità.

L’unità è fatta della scelta oculata, costante, fedele, e per questo faticosa e insistente, di confrontarsi prima di parlare, di ascoltare prima di valutare, di esprimersi solo in seguito a prudenti e pazienti percorsi di dialogo e di condivisione. I quali necessariamente richiedono una cura intensa di vigilanza sugli atteggiamenti e sui modi, sugli strumenti e sui toni, sull’opportunità oltre che sui contenuti.

L’unità viene dal dialogo che ha bisogno necessariamente di ruoli e di compiti, da precisare se non già sufficientemente precisi, e per questo ha bisogno di rispetto e di obbedienza: non solo all’autorità, ma anche e prima di tutto all’ordine dei rapporti, dei valori, degli ambiti. È un cammino doloroso, molto doloroso. Questo è il sacrificio, l’ascesi, il “culto” a cui siamo chiamati, fatto a volte anche di mortificazioni e di umiliazione. Ciò vale per tutti i membri della Chiesa, ognuno secondo la propria vocazione e quindi le responsabilità assunte e il ministero che vive.

Un segno dei tempi

In tutto questo sta un segno dei tempi: la capacità di abitare il tempo difficile innestandovi noi il segno della nostra specificità di fede, che è appunto la ricerca incessante dell’unità. Lo ribadisco: è faticoso! Forse per questo a volte trascurato, soggetto a disattenzione o, a lungo andare, a disaffezione. Perché significa imparare a tacere, ad attendere, a sospendere il giudizio; a rinunciare a sbottare (anche sui social), ad avere ragione a tutti i costi, a forzare la mano; ma significa anche, al contrario, non ritirarsi, non rassegnarsi, non chiudersi nell’indifferenza, non isolarsi.

L’unità è dunque arte dell’amore concreto, di cui ogni relazione ha bisogno: da quelle alla pari, a quelle gerarchiche; da quelle dentro le mura domestiche (grande esperienza di queste settimane!), a quelle lavorative; da quelle comunitarie (anche a distanza), a quelle internazionali. Si tratta dell’ideale, ma anche del motore autentico del nostro agire da cristiani, l’espressione più attuale e imperitura del “culto gradito a Dio”.

Vale per ogni ambiente. All’interno della Chiesa, come a riguardo dei temi sociali, culturali, economici, politici, in un intreccio di incarnazione che è l’essenza dell’annuncio evangelico. Niente della vita è estraneo all’attenzione del credente. Un cristiano opera instancabilmente per l’unità, nei contenuti e nei toni, anche nella “cosa pubblica”, ricordando che la politica è la più alta forma di carità e cerca il bene comune.

Uno stile da educare nella preghiera

Si possono indicare alcuni aspetti che evidenziano un possibile fallimento del nostro “operare” da cristiani in quarantena. Di fronte ai numerosi temi su cui siamo stati chiamati in causa, come cittadini e come credenti, l’elemento decisivo per valutare una scelta secondo la volontà di Dio non risiede tanto nei contenuti (a meno che questi contenuti non andassero palesemente contro la difesa della vita, che appunto è una e indivisibile), bensì nei modi.

Abbiamo perso un’opportunità ogni volta che abbiamo alzato i toni, oppure abbiamo favorito le contrapposizioni aggressive, oppure abbiamo preferito le nostre convinzioni al confronto rispettoso delle gerarchie, oppure abbiamo parlato o espresso idee e gesti senza pensare minimamente alle conseguenze sugli altri o senza prima fermarci a confrontarci con altri.

L’individualismo, che è l’aspetto culturale del peccato originale della superbia e della divisione, è insidia costante e profonda, che tocca l’animo e si manifesta nelle modalità dell’agire: quanto abbiamo vigilato di non esserne succubi, in questo tempo di prova? Possiamo chiedercelo con sincerità, perché nel riconoscerlo possiamo accedere alla grazia del perdono, richiesto e accolto, mirabile dono di Dio per ricucire strappi e ferite.

Ma per penetrare le corde profonde di questo sentire, c’è bisogno di allenarsi duramente nella difficile arte della preghiera, che non è né pura introspezione, né soliloquio di parole. È piuttosto relazione con l’Uno, nella quale anche noi, appunto, entriamo nella dinamica della comunione, e ci sentiamo coinvolti ancor più appassionatamente nelle vicende della comunità proprio perché ci siamo lasciati trasformare dalle pennellate – o scalpellate – dello Spirito in noi.

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Abbiamo saputo dare spazio a questo rapporto vitale, nei giorni più lenti della quarantena? Abbiamo approfittato per visitare nuovi orizzonti nella preghiera? Il cristiano è sempre radicalmente uomo e donna di Dio, in relazione con il Risorto. Questa è la verità centrale del nostro essere, la perla preziosa che rende sacra la vita. Tutto il resto – tutto: Parola, carità, sacramenti, comunità… – è strumento per sostenerci in questo rapporto. Ma sono strumenti. Siamo stati pellegrini di comunione in Dio Uno e Trino, nei nostri giorni di pandemia?

Verificarsi nell’umiltà

La cartina di tornasole è una crescita nell’umiltà. Perché il rapporto con Dio, se è autentico, restituisce a ciascuno la verità prima ricordata, di una creaturalità vulnerabile e di un amore immenso gratuitamente riversato nel nostro vuoto. Così si impara a esprimere anche le proprie idee senza violenza; a proporsi coraggiosamente senza usurpare; a sostenere diritti senza abdicare ai doveri; a tessere e ricamare nel silenzio, piuttosto che esporsi in esibizionismi. Capiamo bene: non c’è una formula precostituita, non ci sono facili ricette né risposte preconfezionate. C’è uno stile, da accogliere e assumere come dono e vocazione, e da chiedere poveramente ogni giorno di provare a vivere, prima di tutto con chi ci sta accanto.

A me pare che per di qui debba andare la nostra ricerca della volontà di Dio in questo tempo. Dio è con noi, soffre con noi e lotta con noi. La sua gloria è che l’uomo, ogni uomo, a cominciare dal più debole, viva. La sua volontà, quindi, è la sua presenza accanto a noi. Meglio, dentro di noi: Dio abita i nostri cuori, non gli eventi esterni del nostro esistere. E ci dona gli occhiali giusti per leggere gli eventi, che diventano kairos, opportunità di salvezza a seconda di come noi ci stiamo dentro. Ecco allora il DNA e la manifestazione di questa presenza: l’unità nella carità! Che significa ordinaria e quotidiana attenzione a essere e fare comunione, perché si generi l’energia dell’amore che permette di affrontare ostacoli e intemperie senza misura. Anche la morte. Anche la morte in solitudine dei nostri cari. Anche il senso di smarrimento e di inutilità che ci angoscia più ancora della malattia fisica.

La vera vita nel Risorto

La vita piena, la vita “una”, non è quella che si esaurisce in questo mondo, né è prevalentemente quella sanata dalle cure dei medici (che rimangono figure straordinarie per dedizione e offerta di sé, nella stragrande maggioranza dei casi, anche in tempi di normalità). La vera vita è quella di cui il Risorto ci fa dono, irrompendo in noi e fra noi dall’eternità e preparandoci ad incontrarlo definitivamente, assieme al Padre, dopo aver oltrepassato la soglia della morte terrena.

Oh, se potessimo, in questo tempo di passione, guardare all’ultimo istante del nostro pellegrinaggio su questo mondo con gli occhi innamorati delle vergini sagge della parabola, trepidanti e timorose perché pronte a ricevere lo Sposo che viene!

D’altro canto, proprio nella Passione il Figlio Gesù ha scelto e accolto decisamente l’unità con il Padre, perno e sostegno della sua vita, e lì, nel Getsemani e nel Calvario, autentico trampolino per oltrepassare e vincere anche la morte. Per questo Gesù è risorto: perché il Padre, unito a Lui nell’amore, non poteva lasciare negli inferi colui che mai ha abbandonato la sua mano, anche nel dolore.

Così sarà per noi, testimoni del Risorto, i cristiani: saremo credibili se avremo imparato un po’ di più a essere unificati e uniti, anche nel crogiuolo del dolore. E se abbiamo fallito, perdendo un’occasione, potremo chiedere perdono, e ripartire. Perché la pandemia passerà, anche questo tempo è piccola cosa nella storia dell’umanità; resterà la chiamata e la sfida a continuare a ricevere e a testimoniare l’amore che vince la morte, immancabile appuntamento del nostro vivere. E solo uniti in Cristo, nel seno del Padre, sostenuti dallo Spirito potremo vincere questa sfida, personale e comunitaria.

Un’ultima nota, ricevuta, con commozione, da un altro amico. Noi sappiamo che anche tutti i morti di questo tempo, tragicamente lontani dai propri cari, senza la possibilità di ricevere un gesto di affetto nel momento dell’ultimo passaggio, non erano soli. La carezza del Risorto, misteriosamente, ha potuto toccare ciascuno di loro con tenerissimo amore. Ne siamo certi. È il nostro dolore, adesso, che necessita di aprirsi di nuovo a questa certezza: nemmeno noi siamo abbandonati dal Padre!

  • Padre Luca Garbinetto, della Pia Società San Gaetano di Vicenza, ha conseguito il dottorato in teologia pastorale presso la Lateranense (2004), con una tesi sul diaconato permanente in America Latina, e la laurea in psicologia presso la Gregoriana (2008). Per le EDB ha scritto il libro “Vivere la debolezza”.
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