Commento al Vangelo V domenica di Quaresima

Is 43,16-21; Sal 126 (125); Fil 3,8-14; Gv 8,1-11

All’interno del Vangelo di Giovanni vi è una specie di masso erratico. Ci si imbatte infatti in una sezione isolata (Gv 8,1-11) dedicata alla donna, scoperta in flagrante adulterio e condotta da scribi e farisei davanti a Gesù.

Anche quando non si era presi da particolari preoccupazioni filologiche, si colse il brano come qualcosa a sé; lo si fece fino al punto da ricavarne un detto proverbiale: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Nessuno è nelle condizioni di condannare gli altri, in quanto nessuno è innocente. Un proverbio che è, in realtà, un fraintendimento: il messaggio evangelico è antitetico a un procedimento assolutorio basato sul rassegnato riconoscimento di una comune colpevolezza.

La formulazione letterale del detto differisce dalla sua versione corrente: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). In Giovanni il termine «primo» è riferito alle persone e non alle cose. Abbiamo dunque a che fare con il rischio, realissimo, dell’imitazione che da sempre alimenta la violenza: se il primo lancia la pietra, farà altrettanto anche il secondo, il terzo e così via. Nello specifico del nostro brano, il potenziale iniziatore dell’azione è forse il personaggio più autorevole, vale a dire colui che è nelle condizioni di tirarsi più facilmente dietro tutti gli altri. Lo si deduce, a parti rovesciate, quando si afferma che furono i più anziani, cioè i più autorevoli, i primi che se ne andarono (Gv 8,9).

La percezione comune del brano è che non sia concesso emettere una condanna perché si è a propria volta colpevoli: chi sei tu per giudicare e punire? Questo modo di comprendere la nostra pericope ha poco da spartire con il messaggio evangelico. Occorre infatti rapportare l’impossibilità di punire da parte di colui che si trova nel peccato con la constatazione secondo la quale anche chi è senza peccato decide di non scagliare alcuna pietra. L’assoluzione e il monito provengono dall’innocenza e non già da una comune colpevolezza.

Il cuore profondo del messaggio trasmesso da questo episodio sta nella frase con la quale Gesù, alla fine, si rivolge all’adultera: «Neanche io ti condanno, va’ e da ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).

La conclusione si basa su un principio radicalmente diverso da quello che ha indotto gli astanti ad allontanarsi secondo un ordine, forse, corrispondente alla disposizione gerarchica con cui si radunava il sinedrio. Da un lato non è lecito condannare da parte dei colpevoli, dall’altro vi è il comportamento di Gesù esprimibile, all’incirca, in questi termini: non ti voglio condannare a causa della mia innocenza; se infatti facessi prevalere la punizione sulla misericordia neppure io sarei più innocente, in tal caso ti priverei della possibilità di uscire dal tuo peccato e lascerei alla condanna l’ultima parola.

Il detto «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7) assume il suo senso pieno solo se collegato al «neanche io ti condanno, va’ e da ora in poi non peccare più» (Gv 8,11). Per gli scribi e i farisei l’adultera è un «caso», per Gesù è una persona; solo lui si rivolge a lei con un tu e, per converso, lei rivolge le sue due parole («Nessuno, Signore»; Gv 8, 11) solo a lui.

L’annuncio della non condanna è non già una conclusione, bensì l’inizio di un cammino («va’»). È una parola che precede il pentimento del colpevole; il brano evangelico non registra alcun autonomo atto di contrizione da parte dell’adultera. Nel contempo Gesù prescrive alla donna di mutare il suo stile di vita.

La conclusione ci conduce al paradosso inscritto nella misericordia: essere misericordiosi esige di amare qualcuno per quel che ora è, anche nel caso in cui si trovi nel peccato, e nel contempo desiderare che divenga, grazie al perdono, diverso da quel che è ora: «Va’ e d’ora in poi non peccare più».