Come vivere la pensione al tempo di «quota 100»

da Avvenire

Vorrei fondare un partito. O almeno un movimento, che pare sia più di moda. Quello di chi questa “quota 100” la considera inquietante, e che aspetta il giorno della pensione non come uno splendido traguardo, ma come un piccolo incubo. Non avrò molte richieste di iscrizione, lo so. Perché la cultura dominante ripete ogni giorno che per essere felici bisogna dedicarsi unicamente a quello che non è un obbligo. E comunque considera il lavoro un peso, ovviamente solo se hai la fortuna di averlo.
Ma siamo sicuri che andare in pensione prima possibile sia una liberazione? O si può pensare senza venire lapidati che, allungandosi la speranza di vita, bisognerebbe mantenersi produttivi e restare allenati all’esistenza? E non sarebbe giusto che – almeno chi fa lavori non usuranti e stimolanti sul piano intellettuale – andasse in pensione più tardi per permettere agli altri di andarci prima?
Parlo per me, è chiaro, ma spero anche per molti altri. Quelli a cui lavorare piace, e non sono stanchi. O meglio, sono stanchi solo di sentire gente che a forza di preoccuparsi senza occuparsi conta i giorni che mancano, le ore, i minuti, i secondi. Tutti ripetono con granitica sicurezza che avrebbero mille altre cose da fare, mille progetti, mille avventure. Mi permetto di pensare che probabilmente fingono di crederci, o che nella migliore delle ipotesi si illudono. Perché il tempo libero è una splendida conquista solo quando è un ritaglio: allora acquista valore, sai che non puoi sprecarlo. Ma se diventa la totalità della tua esistenza, non è più una vacanza, né un’eccezione o un regalo prezioso.
Ho la fortuna di fare il lavoro che speravo di fare da quando ero piccolo, anche se solo dopo ho compreso perché. «Il giornalista è uno che deve spiegare agli altri ciò che lui stesso non ha capito», diceva lord Alfred Northcliff. Che di giornalisti se ne intendeva, se non altro perché era il padrone del “Times”. Quasi 40 anni dopo non ho ancora perso la voglia di provare a capire. Per questo da adulto attempato (anziano ormai è una qualifica che si usa dai 95 anni in su), rivendico il diritto di pensare controcorrente, di non avere alcuna necessità di andare a pescare e di considerarmi un appassionato di quello che faccio attualmente, senza bisogno di desiderare quello che farò quando avrò più tempo per farlo. Vorrei continuare a coniugare il verbo lavorare al futuro, sapendo che il futuro se non lo godrò in pieno, almeno lo avrò propiziato e sarà arrivato il più tardi possibile.
C’è una splendida battuta in un fumetto di Charlie Brown che vale più di ogni ragionamento: «Oggi non faccio niente. Anche ieri non ho fatto niente, ma non avevo finito…». Non è detto che pensione faccia rima con disimpegno, anzi in molti casi accade il contrario. Ma in questo tempo di fantasia stanca, spesso la parte peggiore del lavoro è quello che capita alla gente quando smette di lavorare. E come impiegare la propria libertà quando diventa irreversibile, può diventare un problema, o almeno un pensiero abbastanza inquietante.
Penso alla mia generazione di nati negli anni Sessanta: siamo stati gli ultimi a poter entrare nel mondo del lavoro intorno ai vent’anni, quando eravamo ancora inconsapevoli del fatto di essere dei privilegiati, e che queste cose non sarebbero accadute più. La mancanza di ricambio ci ha permesso di rimanere giovani lavoratori anche quando avevamo smesso di esserlo. E adesso che ne abbiamo più di cinquanta, viviamo come fossimo perennemente su un tram semivuoto, dove non spingiamo chi ci sta davanti perché nessuno ci spinge alle spalle. Anzi, quelli che dovrebbero farlo non possono nemmeno salirci su quel tram.
In una Repubblica fondata sullo stage, anche per noi fortunati occupati (più o meno) sicuri non è comunque un viaggio facile, perché a differenza dei nostri padri abbiamo il preoccupante sentore che forse andremo in pensione tardi, ma non abbastanza presto per monetizzarla davvero quella pensione. Questo però è un altro discorso. Resta il presente, e la risposta che diede Sigmund Freud quando gli chiesero la ricetta per difendere l’uomo dai suoi mali oscuri: «Lieben und arbeiten», amare e lavorare. Una scelta e un privilegio che, se possiamo, sarebbe bello non finissero mai.