Come pillole contro il male. Pensieri sul Vangelo in tempi di covid-19

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Osservatore

Avolte capita di incontrare testi che hanno la capacità di far vedere ciò che abbiamo sempre tenuto sott’occhio, rileggere pagine del Vangelo che frequentiamo, ogni anno, mostrando aspetti che non avevamo colto e facendo sembrare nuovo quel paesaggio che ritenevamo così familiare. Un giorno senza tramonto. Pillole cristologiche antivirus (Urbaniana university press, Città del Vaticano, 2020, pagine 134, euro 10)  è un testo che fa tutto questo, facendoci entrare in uno sguardo anziché mostrarci un oggetto. L’autore, Maurizio Gronchi, è sacerdote della diocesi di Pisa e docente di cristologia alla Pontificia Università Urbaniana. Durante il lockdown, per due mesi e mezzo, l’autore ha inviato brevi riflessioni, ogni mattina, ai suoi studenti  e agli amici di «Casa Ilaria», una comunità  dedita alle persone  bisognose in terra toscana, alla Badia di Carigi, sorta nella memoria di suor Ilaria, precocemente scomparsa nella Repubblica Centrafricana. Durante i giorni in cui si faceva l’esperienza di una chiusura per limitare il rischio di un’esposizione al contagio del Covid-19, Gronchi ha inviato quelle che parvero essergli come delle piccole “pillole” antivirali. Il virus ha messo tutti di fronte al rischio dell’altro, percepito a volte come minaccia per sé e per gli altri, proprio come ai tempi di Gesù, in cui c’erano persone cui doversi tenere lontano per paura d’essere toccati, ché minavano la propria purezza e immunità. Di fronte a costoro il Signore Gesù ha esposto sé, inoculando nei suoi « il vaccino contro il male della paura, della chiusura, dell’egoismo» ed entrando «dentro il cuore e nell’anima col perdono, la pace e la gioia » (p. 133). È questo sguardo di Gesù che Gronchi ha lasciato trasparisse in una lettura sapienziale del testo evangelico, che ha in bocca il sapore, nelle narici l’odore rimasto addosso dopo averlo ascoltato, incontrato per le vie della Galilea e della Samaria; ma anche quel sapore e odore che è rimasto su di lui mentre accoglieva chi lo ha amato e chi lo ha riprovato, odiato e invidiato. È un entrare nella profondità di uno sguardo composito e unico, umano e divino: dall’alto perché dal basso, proteso in avanti proprio perché proveniente da un altrove che precede e accompagna, una forte appartenenza che non cade nel desiderio del possesso. Non si tratta di uno sguardo malinconico; no: Gesù non mostra mai la nostalgia di una provenienza ultraterrena per imporsi agli altri. Come ricorda Agostino, ha preferito « insegnare l’umiltà agli amici che rinfacciare la verità ai nemici ». Il suo sguardo non ha mai potuto convincere tutti, piuttosto ha invitato a fidarsi affidandosi alla forza dei più deboli: « Dio ha bisogno di noi, non fa tutto da solo, esattamente l’opposto di ciò che vorremmo per noi stessi […] Non c’è bisogno di essere Dio per convincere, basta essere umani » (p. 76); invece credere è porre il proprio sguardo nel suo: «cominciare a guardare in un’altra direzione» (p. 81). Lo sguardo di Gesù è uno sguardo “contagiato”: vede dalla prospettiva degli uomini il Padre suo celeste e vede gli uomini con la grandezza dello sguardo che viene dall’alto. Tutto è trasformato: l’amore non teme di sprecarsi bensì di non dare tutto (p. 50); non valuta secondo la proporzione ma sovrabbonda nel dare (p. 75); sa stare con i peccatori perché ha scelto di essere con loro come colui che perdona (p. 40). In noi, Gesù ha visto e vissuto come chi sa stare innanzi a Dio: con stupore, non con sospetto; disponibile, non scettico. «Mentre crediamo a tante cose che divine non sono, facciamo fatica a fidarci di ciò che sembra soltanto umano, perché semplicemente dono» (p. 28).

di Mario Bracci
Professore di teologia trinitaria alla Pontificia Università Urbaniana