Collaborazione di comboniane e musulmani nella cura dei malati

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Come nel resto del mondo, anche in Giordania vivono uomini e donne che condividono la responsabilità verso l’umano ferito, si battono insieme contro la malattia e la sofferenza e tessono legami sino all’altro capo della terra pur di non abbandonare nessuna creatura nel dolore. A Karak, cittadina di trentamila abitanti situata nel sud, a 160 chilometri dalla capitale Amman, sorge “l’ospedale italiano”, fondato nel 1935 dall’Associazione Italiana per soccorrere i missionari italiani (Ansmi) e gestito sin da allora dalle suore missionarie comboniane.

L’ospedale è l’unico presidio sanitario cristiano della regione meridionale, area particolarmente povera della Giordania nella quale la grande maggioranza della popolazione, il 97 per cento, professa la fede islamica mentre i cristiani sono il 3 per cento, e i cattolici circa 150 famiglie. Il nosocomio, nel quale lo scorso anno sono state assistite 27.000 persone, è dotato di cinquanta posti letto e — oltre a pronto soccorso, laboratorio di analisi e radiologia — dispone dei reparti di maternità, neonatologia, medicina, pediatria, dialisi, chirurgia generale. Vi lavorano stabilmente, insieme alla comunità delle suore comboniane, oltre ottanta persone (medici, infermieri, tecnici), cui si aggiungono, alternandosi durante la settimana, circa quaranta medici specialisti che prestano servizio anche nei diversi ambulatori. Gran parte del personale è di fede islamica, il 20 per cento di fede cristiana. I rapporti tra tutti gli operatori sono molto buoni, «caratterizzati da grande familiarità, reciproco rispetto, autentico spirito di collaborazione», racconta suor Adele Brambilla, 70 anni, missionaria comboniana, coordinatrice del lavoro ospedaliero: «La diversa appartenenza religiosa non ha mai creato alcuna difficoltà. Il principio evangelico della cura che ha ispirato la fondazione di questa struttura guida ciascuno di noi. Condividiamo gioie, speranze e fatiche; soprattutto, lavoriamo mossi da un obiettivo comune: prenderci cura di ogni persona, riservando una particolare attenzione ai più indigenti ed emarginati». Tra i pazienti dell’ospedale vi sono giordani, immigrati pachistani ed egiziani, profughi siriani che si sono aggiunti a quelli palestinesi, libanesi e iracheni giunti in passato. Molti vivono in povertà e manifestano patologie — ad esempio broncopolmoniti, anemie, gastroenteriti — legate alle precarie condizioni di vita.

Suor Adele e le sue consorelle si sono sentite incoraggiate e sostenute dal “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” firmato nel 2019 ad Abu Dhabi da Papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar. Nel testo si afferma, tra l’altro, che «il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’enorme spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò nella diffusione delle più alte virtù morali, sollecitate dalle religioni». Questa frase, osserva la missionaria, «riflette proprio quanto di fatto accade nel nostro ospedale: lavoriamo serenamente insieme, cristiani e musulmani, condividendo valori comuni, ad esempio la sacralità di ogni vita e l’attenzione speciale verso quanti sono prostrati dalla povertà e feriti dall’esclusione sociale. Qui tutti sono preziosi ai nostri occhi, nessuno è escluso né considerato meno importante di altri. Ad Abu Dhabi inoltre Papa Francesco, nel suo discorso, ha esortato “a vegliare come sentinelle di fraternità nella notte dei conflitti”: è quello che noi suore cerchiamo di essere qui in Giordania: sentinelle di fraternità che lavorano insieme per portare a ogni creatura la carezza del Signore, per costruire ponti tra le persone e i popoli in un Paese generoso e accogliente (un terzo degli abitanti è costituito da rifugiati) che tuttavia è circondato dai conflitti e nel quale talora non mancano forme di emarginazione sociale».

Fra i pazienti dell’ospedale vi sono numerosi profughi siriani giunti nella regione per cercare di ricostruirsi una vita dopo aver abbandonato i campi allestiti nel nord della Giordania. Recentemente non poche famiglie hanno fatto ritorno in Siria, tuttavia molte continuano a risiedere a Karak e nei dintorni sia perché hanno timore del futuro in patria sia perché hanno esaurito le risorse economiche di cui disponevano e versano in gravi difficoltà a causa della mancanza di lavoro. L’ospedale offre loro assistenza sanitaria collaborando anche con alcune organizzazioni non governative.

Speciale attenzione viene riservata anche ai bambini disabili che in questa terra vivono appartati e non possono contare su cure riabilitative specifiche. Per assicurare loro la migliore assistenza, nel 2013 è stato stipulato un accordo di cooperazione con l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma: un team di specialisti italiani, nel corso di diverse missioni a Karak, ha avviato un servizio di neurologia, neuropsichiatria e neuroriabilitazione pediatrica che offre cure e fisioterapia ai piccoli disabili: è l’unico esistente nel sud della Giordania. «Lo staff del Bambino Gesù — dice suor Adele — è una benedizione per noi: non solo offre le terapie migliori ai bambini, che progressivamente migliorano, ma assicura formazione alle nostre fisioterapiste e insegna ai genitori come proseguire a casa la cura dei figli. Le famiglie dei nostri piccoli pazienti si sentono sostenute e hanno ritrovato serenità». La vera trama della storia si disegna in questo modo: grazie anche alla semina generosa e appassionata di gesti di liberazione dal male e di riscatto della speranza perduta che si compie a Karak.

di Cristina Uguccioni / Osservatore