Città, estetica vuol dire vivibilità

Sono il frutto del desiderio: «Per questo le città europee sono imperniate sulla ricerca della bellezza, a differenza di quanto si vede in altre regioni del mondo». Sulla dialettica tra “desiderio” e “bisogno” Marco Romano, urbanista e teorico dell’estetica delle città, sta compiendo un’indagine inedita: ce ne espone alcuni aspetti sul tema dell’espansione urbana, e quindi delle periferie, di ieri e di oggi.

Nella città contemporanea la presenza del verde è considerata sinonimo di bellezza. Non sempre è stato così…
«Nei centri storici non si sente la necessità delle aree verdi, perché sono opere d’arte collettive. Questo il motivo per cui Firenze è considerata da molti la città in assoluto più godibile sul piano estetico: per il modo in cui si è andata articolando nel tempo. La ricerca della bellezza ha radici nella condizione di democrazia che venne configurandosi con i Comuni nel Basso Medioevo, quando si sviluppò una società tendenzialmente egualitaria. Con lo sfibrarsi dell’autorità imperiale, restò l’autorità della Chiesa, nella quale non era necessario appartenere alla nobiltà per acquisire posizioni di privilegio; è infatti la cultura cristiana quella che contribuì al sorgere della società urbana medievale. Si diceva che “l’aria della città rende liberi”, in opposizione alla condizione da servitù della gleba diffusa nelle campagne. Sul piano giuridico l’essere cittadino derivava dal possesso dell’abitazione, e questo sul piano morale si traduceva nel sentimento di appartenenza a uno spazio comune e quindi di responsabilità dei singoli nel decoro di questo spazio. Nelle strade principali si allinevano botteghe e negozi, dove ognuno cercava di esprimere qualità estetica, in un processo in cui imitazione e competizione andavano di pari passo. La costruzione di palazzi cominciò a seguito della Lex palatia promulgata dal Barbarossa, che asseriva il diritto imperiale di disporre di una sede propria, simbolo della sua autorità in ogni città. Allora i Comuni, sostenuti dal papa, vollero manifestare la propria indipendenza costruendo il loro palazzo, di fronte al quale si aprì la piazza principale. Questa venne poi replicata anche nei quartieri, come luogo dei mercati. E le piazze furono raccordate da vie adatte alle passeggiate. Si diffuse intanto la tendenza dei più abbienti a costruire loro palazzi lungo vie diverse da quelle commerciali, che divennero per conseguenza passeggiate monumentali. Le sequenze urbane di viali e piazze ben arredate definì l’appartenenza alla città, anche nei quartieri che, con l’estendersi delle città, sorsero lontani dal centro storico. Per esempio a Milano piazza Bausan, negli anni Venti del XX secolo, è stata dotata di una fontana che ne esprime l’appartenenza e ne segna l’identità: intesa come identità di un quartiere che fa parte di una città. Non sarà piazza del Duomo, ma è sempre Milano».

Tuttavia nel secondo dopoguerra viene meno questo tipo di espansione, in cui l’identità è incardinata su presenze in cui tutti si riconoscono…
«Si perde il senso simbolico dei luoghi. L’urbanistica postbellica mette le scuole o le biblioteche comunali sullo stesso piano delle chiese o delle piazze, quasi che le prime potessero essere rivestite della stessa rilevanza simbolica delle seconde. Questo perché si confonde la risposta alla necessità con l’estetica, il bisogno col desidero. Ma sono aspetti diversi tra loro e solo il secondo si riveste di qualità estetica. Solo temi collettivi quali quello della chiesa, della piazza o del viale, sanno esprimere simbolicamente l’appartenenza a una comunità: perché derivano dalla condivisione di un desiderio. Per esempio a Parigi gli Champs-Élisées, inquadrati dall’Arco di trionfo, sono un forte segno di appartenenza. E non a caso Mitterrand ha voluto riprenderne la configurazione nel suo Arche de la Défense a coronamento del prolungamento dell’asse storico. Anche nella città l’espressione che ha valore artistico nasce solo se riesce a svincolarsi dalla condizione di necessità».

Come rispondere oggi al problema?
«Recuperando i temi collettivi a carattere simbolico che hanno sempre innervato la città. Nelle periferie italiane si può pensare di trasformare le strade di traffico in passeggiate, in viali intesi veramente come luoghi in cui tutti si possono riconoscere e ritrovare. Questi non possono nascere dall’idea di rispondere a un bisogno: devono esprimere non funzioni, ma desideri. Essere luoghi dove le persone desiderino andare perché li sentono propri e autentici. Non come è stato fatto a Milano col teatro degli Arcimboldi, costruito come vicario alla Scala. Non si possono compiere imitazioni. Ci vogliono opere di carattere artistico e collettivo, che siano sentite come proprie da ciascuno».

Dov’è la difficoltà nel ricercare questo risultato?
«Nella pianificazione centralizzata: l’estetica della città, che nasce come espressione di libertà del Comune, oggi è divenuta statalizzata. Ma non può esserci un’estetica statale: nessuno la può sentire come propria. Bisogna ritrovare la condivisione del desiderio, che è un elemento sostanziale della democrazia intesa non come sistema elettorale, ma come condizione di appartenenza».

Questo sentirsi cittadini da noi è diverso che altrove?
«In Italia il senso di cittadinanza deriva dalla condizione di appartenenza a uno specifico comune, in quanto persone dotate della libertà derivante dal possesso dell’abitazione, che è quanto ci svincola dalla condizione di sudditanza. Se partecipare vuol dire compartire un desiderio, questo resta espressione della singola persona. E non è concepibile dove non il singolo può esprimersi, ma solo il clan o la struttura di potere, come avviene per tradizione in altre culture».

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