Cinema. A «Skampia» abita anche la speranza

da Avvenire

Vincenzo Sacchettino nel documentario di Andrea Rosario Fusco, “Skampia”, fra le Vele del quartiere napoletano

Vincenzo Sacchettino nel documentario di Andrea Rosario Fusco, “Skampia”, fra le Vele del quartiere napoletano

Sotto le Vele di Scampia sfreccia un ventenne in motorino senza casco. Un altro ragazzo in moto lo affianca. «Ma state girando Gomorra? », chiede. «No, è un documentario » risponde Enzo, che tutti nel quartiere conoscono come il Danielino di Gomorra, il ragazzino che nella prima serie della fiction scritta da Roberto Saviano e prodotta da Sky finiva ucciso in un agguato di camorra. Un ruolo che aveva cambiato la vita, almeno per un po’, all’allora 14enne Vincenzo Sacchettino, che a ridosso delle Vele ci viveva, accudito dalla nonna e un fratello, mentre padre, madre e fratello maggiore erano in galera a scontare lunghe pene. Scelto dai produttori tra i ragazzi di Scampia per girare la fiction, per inseguire il suo sogno di diventare attore il ragazzino aveva abbandonato la scuola senza terminare le medie. La fama durò un soffio e appena spenti i riflettori, Enzo si ritrovò di nuovo a vivere di espedienti rendendosi protagonista nel 2014 con altri amici di una aggressione al coltello. Di lì, carcere minorile e quattro anni passati in vari centri educativi . Oggi Enzo lo ritroviamo protagonista di un avvincente documentario, Skampia di Andrea Rosario Fusco, presentato in anteprima alla XVI edizione dell’Ischia Film Festival (che si conclude oggi) all’interno dell’ex carcere Borbonico del Castello Aragonese, in gara nella sezione “Scenari campani”.

Enzo accompagna il regista Fusco, come una sorta di Virgilio, nei gironi infernali delle Vele, a incontrare e intervistare chi in quei condomini fatiscenti, che prossimamente verranno abbattuti, vive, anche abusivamente, magari dopo essere uscito da un altro inferno, quello del carcere. «La mia intenzione era proprio quella di mostrare che non esiste solo Gomorra. Scampia la conoscono tutti, ma il problema è che ha sempre la stessa luce puntata, si usano sempre gli stessi colori», ci racconta il regista Fusco, giornalista che ha lavorato come assistente alle Iene, già regista del documentario L’odore dell’inferno, girato in un carcere di massima di sicurezza in Perù. «Volevo raccontare – prosegue – quello che non è mai stato raccontato, l’umanità di certe persone. Noi entriamo lì senza sceneggiatura, seguendo un ragazzo di vent’anni che ci fa entrare a casa, che fra ori e stucchi sembra quella dei boss di Gomorra, ci mostra la sua vita e la sua famiglia e ci porta all’interno delle Vele al momento in cui le voglio abbattere. Volevo raccontare le sofferenze di queste persone inquadrate non solo dal punto di vista di una pistola, degli inseguimenti, della droga. Dietro ci sono degli esseri umani che hanno delle storie che non vengono raccontate e a volte nemmeno ascoltate».

Tutta un’altra immagine rispetto al brivido noir del cinema. «Fa comodo che quel territorio venga catalogato in un certo modo. Il mio Skampia dimostra che non c’è niente di bello o eroico, come viene mostrato nelle fiction, nel vivere nell’illegalità». Il regista, che si gira in quartieri off limits grazie alla fiducia acquisita negli anni, lo sa bene. «Io sono nato nel quartiere di Boscoreale, mi padre era operaio emigrato al Nord, mia madre casalinga. Una famiglia onesta in un contesto difficile in cui ho imparato a muovermi. A dieci anni ho subito la prima rapina, a 11 già sapevo come non farmi rapinare». Skampia nasce dapprima sul web, in 5 puntate che hanno raggiunto le 700mila visualizzazioni e che ora sono state assemblate per la prima volta in un documentario di 75 minuti, con altro materiale inedito. «Ho scelto il web per farla arrivare a più gente possibile. Internet mi ha dato la libertà di raccontare la verità fino in fondo, cosa che la tv non ti permette. Quando ho presentato alle varie reti Skampiami è stato risposto che non lo avrebbero trasmesso perché dava voce a dei parassiti. Ma io voglio mostrare solo la realtà, senza pietismi o giustificazioni».

Così insieme al giovane Enzo, percorrendo le scale piene di spazzatura fra i calcinacci cadenti delle Vele, incontriamo Antonietta, che dopo 10 anni di galera per associazione a delinquere senza aver potuto crescere i molti figli, affidati ai servizi sociali, e senza avere diritto a una casa, cerca di campare come può con nuora e nipotino occupando un locale fatiscente e vendendo caffettiere artigianali fatte a mano, «perché in carcere ho imparato a fare tante cose belle grazie ai corsi». Enzo, intanto, ci racconta le sue disillusioni dopo aver giratoGomorra, e la difficoltà di uscire dalla mentalità diffusa fra i giovanissimi del quartiere, disposti a tutti pur di sfoggiare ricchezza e forza: «Se sei cresciuto qui conosci solo questo». I suoi fratelli lo hanno capito e sono riusciti a cambiare strada, uno lavora come benzinaio, l’altro in una fabbrica di caffè: «Mi sono perso tutta l’infanzia della mia prima figlia mentre scontavo cinque anni di prigione per spaccio. Ora lavoro e sono più sereno, guadagno meno ma ho in mano più soldi di prima quando li guadagnavo illegalmente e li buttavo» racconta il fratello maggiore abbracciando i suoi due bambini, che oggi sono tre. La speranza c’è, in questo documentario. Nel sorriso di Enzo che ci accompagna felice e pieno di nostalgia nelle stanze del Centro Educativo Cedro dei Padri Rogazionisti di Napoli dove è stato sereno e ha ritrovato un equilibrio, come raccontano gli educatori. Oggi Danielino non c’è più: c’è, invece, un ragazzo che si è sposato e che lavora nella fabbrica del caffè insieme al fratello. «Quello che mi ha colpito è che loro non hanno mai perso la speranza» conclude Fusco, che già sta pensando al sequel di Skampia.

Lui fa parte di una generazione di registi campani in ascesa, come dimostra l’Ischia Film Festival in cui figura anche il bel documentario Je so’ pazz di Andrea Canova, che racconta la storia dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Sant’Eframo Nuovo, a Napoli, attraverso il diario e le poesie di un ex detenuto, Michele Faragna. «C’è un forte fermento culturale nella regione – raccontano i direttori artistici del festival Michelangelo Messina e Boris Sollazzo –. Da parte dei giovani filmakers c’è la voglia di raccontare grandi storie attraverso personaggi comuni ». Ma abbiamo anche fortemente voluto la sezione “Location negata”, dove le opere in concorso mostrano luoghi che nessuno conosce, dove spesso i diritti umani vengono negati, che siano le guerre civili in Burkina Faso, i bambini soldato del Nepal, le ragazze rapite da Boko Haram o Scampia».