«Chiedete e vi sarà dato », insegna Gesù: ma che cosa chiedere? Qual è l’oggetto della preghiera? Quale racconto si nasconde in questo versetto?

Avvenire

Occorre prestare attenzione al contesto. Nel Vangelo di Luca, così come in quello di Matteo, Gesù sta parlando delle richieste che i figli rivolgono ai padri: se vi chiedono un pane, dice, voi di certo non darete una pietra. Queste parole mettono in luce l’autentica caratteristica del dono, che dev’essere qualcosa di buono e generoso. Il riferimento al pane non è casuale, perché allude alla manna, con la quale il Signore si è preso cura del popolo di Israele nei lunghi anni dell’Esodo. Lo ha sostenuto, lo ha nutrito, lo ha benedetto. Il dono non è altro che una benedizione. Per questo si concretizza in ciò che è più essenziale alla vita. Come il pane, appunto.

Nei suoi romanzi capita spesso di incontrare personaggi che sembrano non chiedere nulla. La loro è una strana preghiera silenziosa, che sembra non trovare la forza di esprimersi. Da dove viene questa ritrosia?

Quando era molto anziana, mia madre ripeteva che esiste un’unica preghiera che abbia senso, e quella preghiera è «così sia». Alcuni dei miei personaggi condividono la stessa convinzione. Dal mio punto di vista il loro non è un rifiuto, non è una ribellione. Affrontano esistenze molto dure, talvolta perfino orribili, perché pensano che sia giusto e necessario farlo. Nel momento in cio si accontentano di aspettative straordinariamente modeste, diventano pronti a riconoscere la presenza del dono nei piccoli eventi della quotidianità: l’incontro con l’altro, il tempo condiviso, il calore della famiglia, la nascita di un figlio. Non si domandano che cosa possano ricevere da Dio, ma che cosa Dio voglia donare loro.

E gli altri personaggi? Che cosa chiedono quelli che invece pregano ininterrottamente?

Ci sono casi in cui la preghiera diventa un’abitudine mentale, un pensiero che attraverso Dio si rivolge a coloro che amiamo e domanda il bene per loro. Uno dei personaggi dei miei romanzi, il reverendo John Ames, passeggia ogni sera per le strade di Gilead, la cittadina dell’Iowa in cui svolge la sua missione di pastore. Si ferma davanti alle case, prega per coloro che vi abitano, si immedesima nella loro umanità. Il suo è un atto di immaginazione e, insieme, un gesto d’amore. A mio avviso non esiste un’identificazione automatica tra la pre- ghiera e la richiesta. Nella preghiera si può chiedere qualcosa, d’accordo, ma l’elemento irrinunciabile non è questo. All’origine della preghiera c’è il riconoscimento della natura di Dio e della sua gloria. «Sia santificato il tuo nome » , il resto viene di conseguenza.

Il reverendo Ames si considera un solitario, fino a quando una sconosciuta, Lila, trasforma la sua vita. Anche l’amore è un dono? È una preghiera esaudita?

Non saprei se definire Ames un solitario. Semmai è un uomo che pensa di essersi rassegnato alla solitudine. Lila arriva nella sua esistenza in modo del tutto inaspettato, lasciandogli intravedere la possibilità di una nuova felicità. Quella donna, per il reverendo Ames, è una rivelazione dell’assoluto. In lei riconosce la sua stessa solitudine, la comprende, si rende conto che quello che li unisce nel profondo è molto più importante di ogni differenza superficiale. A un certo punto, ricordando l’incontro con Lila, Ames parlerà di un miracolo che in qualche modo, misteriosamente, si stava preparando.

Ogni miracolo è una manifestazione della Grazia. Ma che cosa si può dire della Grazia?

Semplicemente che è il concetto teologico fondamentale. Le storie che racconto si collocano in contesto religioso nel quale la presenza di Dio è considerata una realtà indiscutibile, indipendentemente dal fatto che le cose vadano bene oppure male. Il motivo ultimo per cui alcuni dei miei personaggi non chiedono nulla sta nella certezza che Dio dà già forma e consistenza alla vita di ciascuno. Qualsiasi intervento da parte dell’essere umano rischia di interferire con l’azione costante della Grazia..

Mi sembra che la parabola del padre misericordioso rivesta un ruolo decisivo nella sua scrittura e nella sua riflessione: è così?

Beh, intanto è una storia meravigliosa, soltanto il Signore poteva raccontare qualcosa di così bello… Al cuore della parabola c’è l’esperienza di sentirsi perduti, una sensazione che tutti noi conosciamo bene. Il figliol prodigo, infatti, rappresenta la nostra umanità. Ma il padre, che raffigura Dio, non smette mai di amare quel figlio, non si arrende neppure per un istante all’eventualità che non faccia più ritorno. La distanza, per lui, non equivale alla perdita. Semmai, alimenta l’attesa. Nei miei romanzi c’è un personaggio che effettivamente si richiama alla parabola. Si tratta di Jack, il figlio di un altro reverendo di Gilead, il pastore Robert Boughton. Forse a causa dell’educazione religiosa che ha ricevuto, Jack fugge dalla casa del padre, mette in questione tutto, arriva ad avere dubbi radicali su di sé e sul mondo. Anche a noi capita di spingerci molto in là nei nostri pensieri e nelle nostre azioni, ma non per questo risulta viene meno la simpatia che Dio ci riserva. Noi stessi, del resto, sappiamo che è possibile amare una persona nonostante i suoi difetti, sappiamo che si può continuare ad amare anche chi rifiuta l’amore. Mi ha sempre colpito l’idea, espressa per esempio nei Salmi, che l’uomo possa compiacere Dio, allo stesso modo in cui un figlio compiace un padre. Questo significa che Dio non è un giudice che condanna, ma un padre che attende e accoglie. Significa che, per quanto si vada lontano, non si è mai veramente perduti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Anticipiamo una parte dell’intervento con il quale la celebre scrittrice statunitense concluderà questa sera la rassegna di Torino Spiritualità «La preghiera si fonda sul riconoscimento della natura di Dio e si esprime pienamente nel “così sia”. La Grazia? È il concetto teologico fondamentale, dal quale deriva la certezza della presenza di Dio nelle nostre esistenze. E il figliol prodigo ci ricorda che, per quanto si vada lontano, non si è mai veramente perduti»

Pierre Puvis de Chavannes, “Il figliol prodigo”, 1872