Chi vuole legittimare il suicidio?

La fine choc di un ultracentenario che sceglie di togliersi la vita in una chiesa di Milano, ripreso dalle prime pagine dei giornali. Il caso tragico, due giorni fa, di una nota giornalista radiofonica romana che a soli 41 anni ha detto addio a tutto gettandosi nel vuoto. Il suicidio sembra sempre più spesso sotto i riflettori della cronaca. E la domanda che qualcuno si pone è se non ci sia troppa attenzione su queste vicende. O addirittura se non ci sia una pressione culturale – sottile, obliqua – per rendere il suicidio sempre più “normale”.

Per Silvano Petrosino, docente di semiotica all’Università Cattolica, «c’è attualmente un elemento pericoloso a livello mediatico, ovvero il tentativo di far rientrare il suicidio all’interno del tema della libertà. L’idea che in fondo la vita è mia e posso farne quello che voglio, come quando si diceva che il corpo è mio. Il suicidio è visto da alcuni come un cavallo di troia per affermare qualcosa di più ampio». Come contrastare questa spinta? «Se a livello personale nessuno può esprimere un giudizio sul suicida e sui motivi a volte reconditi che l’hanno spinto a togliersi la vita, a livello generale non si può non ribadire chiaramente la condanna del suicidio. Lo stesso Emile Durkheim, non certo un fanatico religioso, spiegava che la società è lesa dall’atto del suicidio, e che “dal momento che la persona umana è e deve essere considerata come cosa sacra… qualsiasi attentato contro di essa deve essere proscritto”». Per Petrosino resta poi l’annoso problema di come parlare del suicidio sui media. «Faccio un esempio personale. Mia mamma che ha 88 anni non riesce a pronunciare la parola aborto. L’aborto c’era anche negli anni della sua giovinezza, ma è sempre stato percepito come qualcosa di orrendo e non se ne parlava: non per ipocrisia, o per qualche freddo formalismo, ma perché il solo parlarne era una prima forma di “accettazione”».

Secondo Francesco D’Agostino, filosofo del Diritto, per quanto riguarda il riserbo che si è tenuto in passato in merito ai suicidi, bisogna tenere presente un dato: «Il suicidio attiva dinamiche di imitazione. Questo è noto da sempre. Già Plutarco parlava di un’epidemia di suicidi a Mileto tra giovani ragazze. Non so se Sofia Coppola, la regista di un film di qualche anno fa, Il giardino delle vergini suicide, avesse idea di quanto il tema sia antico. Il suicidio purtroppo ha un suo fascino». D’Agostino sottolinea la complessità e l’estensione del fenomeno: «Quello che gli psicologi ci dicono, ma noi fatichiamo a prenderne atto, è che il numero dei suicidi mascherati è altissimo. Per esempio, molti incidenti del sabato sera hanno motivazioni suicidarie. Mi spiego: non basta essere ubriachi per correre “a fari spenti nella notte”, per citare una famosa canzone, ma c’è molto spesso il desiderio di sfidare la vita in una prospettiva di accettazione della morte. Quello che nessuno farebbe normalmente, perché le forze del Super-Io lo tengono sotto controllo, diventa possibile quando le stesse forze si allentano, magari sotto l’effetto dell’alcol. Già con le statistiche che abbiamo a disposizione sappiamo che il suicidio è la prima causa di morte in età giovanile. Dopo vengono le malattie e poi gli incidenti. E spesso gli incidenti sono suicidi mascherati. Se leggessimo bene queste statistiche, rimarremmo insomma a bocca aperta».

Per D’Agostino un altro discorso rimosso, e che si può ricondurre a spinte culturali “suicidarie”, è quello dell’autolesionismo: «Penso all’operaio che si ferisce per protesta e che attua una forma mitigata di suicidio, un simil-suicidio. O alla figura di Aiace che, non potendo vendicarsi di Ulisse, attua un suicidio per vendetta, una delle forme più estreme e subdole di omicidio: ti farò soffrire tutta la vita perché sai di essere la causa della mia morte. Questa è la dinamica anche di tanti suicidi d’amore, di donne o uomini abbandonati».
D’Agostino chiosa il suo ragionamento con un riferimento a una “saggezza” laica, quella della civiltà giuridica anglosassone. «Pochi sanno che nel common law il suicidio era definito alla latina come felo de se: fellonia su se stessi. Era punito come violenza verso se stessi, come fa Dante con i suicidi nel famoso canto dell’Inferno. Per Dante, noi abbiamo dei doveri verso noi stessi. Se questi saltano, diciamo noi, perché dovrebbero resistere i doveri che abbiamo verso gli altri? Anche il common law rifletteva questa sensibilità. La fellonia è infatti il tradimento verso una lealtà dovuta, come quella del vassallo verso il re. Noi abbiamo un impegno con noi stessi che non dobbiamo tradire».

Al filosofo Alessandro Ghisalberti torna in mente, sulla questione, un confronto-scontro dei primi secoli dopo Cristo. «Gli stoici – scrive in un articolo appena uscito sulla rivista Vita e pensiero – sostenevano che il suicidio, in certe circostanze, può essere considerato un atto di estrema libertà individuale. Può essere attuato solo da un vero sapiente come nel caso di chi si convinca di non avere altro scopo da raggiungere in questa vita, o allorché il soggetto concluda all’impossibilità di raggiungere la felicità desiderata». A quella posizione ammantata di nobiltà si oppose Agostino. Nel capitolo XIX della Città di Dio, dedicato alla lettura filosofica del dolore del mondo, il santo di Ippona argomentò da par suo come «la scelta della morte non esprima altro che rinunzia, valga cioè come atto di riconoscimento dell’infelicità che segna l’esistenza; un gesto radicale di morte, come l’autosoppressione della vita, non può mai dare alcuna risposta reale al desiderio di vita felice».

La diatriba è antica ma ha qualcosa da dire anche oggi, secondo Ghisalberti, che ha pensato di rivisitarla nei mesi scorsi, quando sui giornali si è calcato la mano sui casi di suicidio messi in relazione alla crisi economica. «Ero allibito di fronte a questa semplificazione – spiega lo studioso della Cattolica -, al parlare di suicidi all’insegna di un’antropologia così fragile, secondo cui basterebbe un debito economico, anche piccolo, per arrivare a un gesto simile. Agostino riporta il problema alla sua vera dimensione e fa capire che il suicidio è legato al pathos congenito dell’esistenza, a una sete di felicità che la sapienza umana può certificare ma non curare». Cristiani versus neopagani: la sfida si ripresenta oggi.

 

Andrea Galli – avvenire.it