Chi era veramente san Luca

Una tradizione leggendaria l’ha voluto pittore e a lui sono state attribuite alcune delle “Madonne nere” venerate in famosi santuari mariani. In realtà, se vogliamo cercare un’altra, vera, professione di Luca prima di divenire evangelista, dobbiamo rifarci a una nota della Lettera di Paolo ai Colossesi: «Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema» (4,14). Luca, dunque, esercitava la professione medica prima di avviarsi sulle strade dell’annunzio cristiano al seguito di Paolo. La sua presenza fa capolino in altri due scritti paolini. Nel biglietto dell’Apostolo a Filemone, Luca è definito «collaboratore» di Paolo (v. 24) e nella Seconda Lettera a Timoteo appare un elogio implicito quando Paolo afferma che «solo Luca è con me» (4, 11).

Medico, dunque, ma soprattutto evangelista, sia collaborando alla missione evangelizzatrice di Paolo sia componendo il suo Vangelo, il più lungo dei quattro, fatto com’è di ben 19.404 parole, il più ricco a livello di vocaboli (Luca usa ben 2.055 termini diversi), il più raffinato dal punto di vista stilistico, dotato di un prologo che ammicca a quelli dei grandi storici greci. I quadri più belli, dunque, Luca li ha dipinti non con il pennello ma con la sua penna. Egli è inoltre autore di un altro affresco grandioso, quello degli Atti degli Apostoli, un ritratto complesso, storico e teologico, della Chiesa delle origini nella quale dominano le figure di Pietro e Paolo.

Appare, dunque, con nettezza la figura di un evangelista, legato pastoralmente a Paolo e al suo dialogo con il mondo greco-romano, un non-palestinese dal punto di vista geografico e culturale, un ebreo ellenista di Antiochia di Siria convertito al cristianesimo, persona colta, favorevole all’opera di espansione missionaria della Chiesa in Grecia e a Roma ove forse compose dopo il 70 i suoi due scritti, destinandoli alla cerchia dei cristiani di matrice pagana. È, infatti, a Roma che egli conduce come a naturale approdo il suo racconto, partito da Gerusalemme, la città che era la radice sorgiva del cristianesimo (Luca la cita ben 90 volte nelle sue due opere su un totale neotestamentario di 139). Il Vangelo è tutto ancorato alla città santa: nella narrazione dell’infanzia di Gesù è il luogo ove egli si rivela; nella parte centrale è la meta a cui è orientata la “lunga marcia” di Cristo con i discepoli verso il suo ultimo destino di umiliazione e di gloria; nella sezione finale è il teatro degli eventi supremi della vita di Cristo. In Gerusalemme si aprono anche gli Atti degli Apostoli, ma sarà a Roma che si concluderanno, non con il martirio di Paolo ma con l’Apostolo che, agli arresti domiciliari in attesa di giudizio, può liberamente proclamare il Vangelo di Gesù (28, 30-31).

Per Luca Gesù di Nazaret è il centro della storia, è per eccellenza ilKyrios, il “Signore”, un termine carico di risonanze perché nelle antiche Bibbie greche usate dai cristiani esso traduceva le quattro lettere sacre ebraiche JHWH del nome impronunciabile del Dio biblico e anche perché era un titolo imperiale. Per ben 103 volte nel Vangelo e per 107 volte negli Atti degli Apostoli Luca chiama Gesù il “Signore” glorioso, che è giudice della storia e che regge tutto l’essere.

Cristo è, però, sempre accanto a chi crede in lui, anche nell’ora della sofferenza e persino del dubbio. Infatti il Risorto, in una scena indimenticabile, va incontro a due discepoli sulla strada che da Gerusalemme conduce e un non meglio identificabile villaggio di Emmaus: si tratta di una pagina di straordinaria intensità, affidata a quell’implorazione finale: «Rimani con noi perché si fa sera e il giorno sta ormai declinando!» (24, 13-35). Il Cristo glorioso della Pasqua non è più riconoscibile con l’esperienza concreta; è necessaria una via superiore di conoscenza, che si attua attraverso l’ascolto delle Scritture e lo «spezzare il pane eucaristico».

Ma se si volesse delineare in pienezza il volto del Cristo di Luca, sul quale deve modellarsi anche il discepolo, si potrebbero individuare tre componenti fondamentali. Iniziamo con la parola amore. Dante nella sua opera latina Monarchia ha coniato questa suggestiva definizione di Luca:scriba mansuetudinis Christi, «scrittore della mansuetudine, della misericordia, dell’amore di Cristo». Per tutto il percorso della sua vita Gesù non è mai venuto meno alla dichiarazione programmatica fatta nella sinagoga di Nazaret: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato ad annunziare ai poveri un lieto messaggio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi e a predicare un anno di grazia del Signore» (4,18-19).

La parabola del Buon Samaritano e la trilogia di parabole della misericordia (la pecora smarrita, la dracma persa e il figlio prodigo) contenute nel capitolo 15, la salvezza offerta al corrotto funzionario Zaccheo, il «discorso della campagna» (6, 17-49), la costante scelta degli ultimi, dei poveri, degli esclusi, il perdono finale offerto al malfattore pentito e ai suoi stessi crocifissori, l’uso frequente del verbo grecosplanchnízomai che evoca la tenerezza delle “viscere” materne, sono altrettante testimonianze della validità della definizione dantesca.
Seconda e fondamentale caratteristica del profilo di Cristo e del discepolo secondo Luca è quella della povertà.

Quel «Beati i poveri in spirito» di Matteo diventa per Luca un diretto «Beati voi, poveri» senza alcuna specificazione “spirituale”. «I poveri sono evangelizzati» (4, 18), il povero Lazzaro (16, 19-31) e la vedova che dà “tutto quanto aveva per vivere” (21, 1-4) sono ammirati da Gesù.Mammona, termine fenicio-aramaico che indicava la “ricchezza” (curiosamente ha la stessa radice del verbo ebraico ’mn che esprime il “credere”), è un idolo che acceca. Il giovane ricco non può seguire Cristo se prima non distribuisce ai poveri «tutto quanto possiede» (18, 22). Condannati senza esitazione sono coloro il cui unico scopo nella vita è il moltiplicare risorse e soldi (12, 13-21). Indispensabile è, perciò, fare una scelta radicale quando si vuole seguire Gesù. Alludendo alla vocazione di Eliseo, chiamato dal profeta Elia mentre arava i campi, Cristo dichiara: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il Regno di Dio» (9, 62).

Terzo e ultimo tratto del volto spirituale di Cristo secondo Luca è la preghiera. Nelle svolte decisive della sua vita egli si ritira in preghiera e in dialogo con il Padre. Lo fa dopo il battesimo al Giordano (3, 21), nel mezzo del primo entusiasmo della folla (5, 16), prima della scelta dei dodici apostoli (6, 12), prima della professione di fede di Pietro (9, 18), durante il solenne svelamento della Trasfigurazione (9, 28-29), prima di insegnare ai discepoli la preghiera distintiva del cristiano, il “Padre” (11, 1). Gesù ci esorta a «pregare sempre, senza stancarci» (18, 1). Alle soglie della morte si ha la scena più emblematica, quella della preghiera nell’orto degli ulivi, il Getsemani (22, 39-46), scena che Luca descrive in modo più accurato rispetto agli altri evangelisti, scandendola con ben cinque menzioni della preghiera e incorniciandola con la duplice frase d’apertura e chiusura: «Pregate per non entrare in tentazione!».

Luca col suo Vangelo ha voluto imprimere alla storia dell’uomo – considerata dal filosofo greco Eraclito come «un giuoco di dadi fatto da bambini» (frammento 52) – un senso in Gesù Cristo, il coordinatore di quel groviglio di eventi, salvatore dal male e dall’assurdo che si annida nelle vicende umane, l’«evangelizzatore» della speranza, della libertà e della gioia.

di Gianfranco Ravasi – avvenire.it

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