“Chi è il missionario oggi?”

di padre Piero Gheddo*

ROMA, venerdì, 11 giugno 2010 (ZENIT.org).- La famiglia è in crisi, siamo nel sottozero demografico. “l’Italia sta andando verso un lento suicidio demografico”, dice il Presidente della Conferenza episcopale italiana, il card. Angelo Bagnasco (25 maggio 2010). Ci sono pochi bambini ed è inevitabile che diminuiscano i preti, le suore, i giovani che consacrano la loro vita a Dio e alla Chiesa. Gli istituti missionari vedono diminuire anche i missionari italiani, proprio negli anni in cui i vescovi dei territori missionari chiedono nuovo personale missionario (vedi l’articolo “Al Pime undici preti nuovi e nessun italiano” in ZENIT del 7 giugno scorso).

Si dice spesso che oggi il “missionario” ha fatto il suo tempo: la Chiesa è fondata in ogni parte del mondo e il compito della missione passa alle Chiese locali e alla comunione fra le Chiese. E’ una delle tante indebite assolutizzazioni del post-Concilio, che non corrisponde a verità: la realtà infatti dice tutto il contrario. Vorrei mi si spiegasse come mai il solo Pime, che è uno dei tanti istituti missionari, negli ultimi trent’anni è stato invitato a mandare missionari nei seguenti paesi in cui non eravamo presenti: Papua Nuova Guinea (ci siamo andati nel 1981), Taiwan (nel 1986), Cambogia (nel 1990), Messico (nel 1991), Colombia (ma era da poco iniziata la missione in Messico e non siamo andati), Algeria (nel 2006); e l’Istituto ha rifiutato altri inviti da Corea del Sud, Malesia (Borneo), Kazakhistan, Angola, Etiopia, Libia, Senegal, ecc. (per non ricordarne diversi altri dell’America Latina).    

Contra factum non valet argumentum, dicevano i latini: la realtà contraddice la teoria che il missionario è una figura d’altri tempi, non più attuale nella Chiesa. E’ vero che la missione alle genti è cambiata molto anche dal Concilio ad oggi, ma cambiano anche gli istituti missionari ed i missionari. Andando a servizio delle Chiese locali e dei loro popoli, cambia la formazione dei missionari e cambiano gli stessi istituti. Comunque a me pare che, proprio in questo tempo di globalizzazione (il mondo che diventa un piccolo villaggio), il missionario dovrebbe e potrebbe diventare una figura sempre più attuale, se solo mantenesse, in Italia (e più in genere in Occidente), la sua identità, il suo carisma, la sua carica di entusiasmo evangelizzatore.

Questo oggi è il vero problema di noi missionari e istituti missionari. Chi è il missionario? Nell’opinione pubblica e nella stima comune eravamo gli inviati dalla Chiesa ad annunziare e testimoniare Cristo e fondare nuove comunità cristiane fra i popoli non cristiani: una figura fortemente rappresentativa della fede in Cristo portata agli estremi confini della terra. Oggi siamo un po’ di tutto. Dal tempo entusiasmante del  Concilio Vaticano II (1962-1965), che aveva rilanciato con forza la missione universale, in pochi anni siamo precipitati nella confusione di idee del Sessantotto, rimanendo travolti dalle “mode culturali” del tempo. Viviamo nel “tempo dell’immagine”, noi missionari e il nostro “movimento missionario in Italia” non ce ne siamo ancora accorti. Ci siamo resi conto che la nostra “immagine” è decaduta?   L’immagine del missionario si è a poco a poco politicizzata e siamo finiti in una marmellata di buonismo, che è diventato la cultura di base del popolo italiano. Sul campo, i missionari continuano il loro lavoro con spirito di sacrificio e di fedeltà al carisma, in Italia l’immagine del missionario cambia, secondo me non li rappresenta più.

Se guardo le riviste missionarie di quarant’anni fa, mi accorgo che gli articoli sulla missione, l’evangelizzazione dei popoli, le conversioni, i catecumeni, le novità delle giovani Chiese, l’annunzio di Cristo nelle culture, la presentazione di figure di missionari e delle loro esperienze, erano alla base delle riviste e dei libri missionari, si parlava spesso di vocazione missionaria a vita e ad gentes, proponendola in modo concreto ai giovani.  

Oggi, se cerco nel volume “Bibliografia missionaria”, edito annualmente dalla Biblioteca della Pontificia Università Urbaniana (la seguo da più di mezzo secolo),  che monitora gli articoli dell’anno precedente, mi accorgo che di anno in anno diminuiscono le voci “missione”, “evangelizzazione”, “vocazione missionaria”; in compenso aumentano quelle che riguardano temi collaterali (pace nel mondo, sviluppo, aiuti internazionali, debito estero, ecc.).

Ci sono riviste che si dicono “missionarie” e di missionario hanno poco o nulla; “Centri culturali” di istituti missionari che nel corso di un anno organizzano molte conferenze, ma su temi della missione alle genti quasi niente e sui missionari in carne ed ossa nulla; librerie di istituti missionari che si suppone vendano libri missionari al pubblico, che in vetrina mettono tutt’altro; animatori missionari che parlano di “mondialità” e poco o nulla di “missione”; comunità di missionari che hanno perso l’entusiasmo della missione alle genti e la buona abitudine di parlare della loro vocazione, spiazzati dall’indifferenza del mondo moderno. E potrei continuare. E’ una deriva generalizzata della quale non incolpo nessuno, ma che ci ha fatto perdere la nostra identità.

Sono convinto che non esiste nella mentalità comune del popolo italiano una figura più incisiva e più universalmente accolta di quella del missionario e dell’ideale missionario. Ma noi, per timore di essere considerati “integralisti” e per malinteso senso del “dialogo”, non osiamo più parlare di conversioni a Cristo; mortifichiamo le esperienze missionarie sul campo; riduciamo la missione della Chiesa agli aiuti a lebbrosi e affamati; siamo “a servizio della Chiesa locale” ma dimenticando che questo servizio dovrebbe essere soprattutto di animare missionariamente il gregge di Cristo; pensiamo di fare “animazione missionaria” denunziando e facendo campagne nazionali contro chi produce e vende armi e altri temi certo positivi, ma che non sono “animazione missionaria”; in passato nelle solenni “veglie missionarie” alla vigilia della Giornata missionaria mondiale si sentivano le testimonianze dei missionari sul campo, preti, suore, fratelli, volontari laici, oggi capita di sentire che in alcune “veglie missionarie”, organizzate da “gruppi missionari”, si contesta la produzione delle armi o la privatizzazione delle acque e parlano esperti di questi temi. Ma è possibile che un giovane o una ragazza sentano la voce dello Spirito che li chiama a diventare missionari in marce di protesta come queste?

 Indro Montanelli rifletteva bene la mentalità comune del suo tempo, quando mi diceva (collaboravo al suo “Il Giornale” e poi a “La Voce”): “Voi missionari siete tutti eroi”, io gli ribattevo che non è affatto vero, siamo uomini come gli altri con una vocazione particolare nella Chiesa. Ma oggi, quando il buon Dio ci manda dei testimoni autentici, i “santi” del nostro tempo da lanciare come “eroi positivi” per colpire l’immaginazione dell’opinione pubblica, l’animazione missionaria “unitaria” li dimentica per non “creare degli eroi” e non cadere nel “trionfalismo”.

Mi viene in mente padre Giuseppe Ambrosoli (1923-1987), missionario comboniano medico di una facoltosa famiglia di industriali (l’industria del miele Ambrosoli) che ho visitato all’ospedale di Kalongo nell’Uganda travagliata dalla guerra. Al quale la rivista che dirigevo “Mondo e Missione” ha dedicato un servizio speciale (dicembre 1987, venti pagine) di Roberto Beretta e altri articoli. Una figura meravigliosa sulla quale è stata pubblicata una rapida biografia alla Emi e poco più; penso a Marcello Candia (1915-1983), anche lui figlio di un padre fondatore dell’industria chimica in Lombardia (all’inizio del Novecento), che dopo una vita da manager industriale vende tutto e va con i missionari in Amazzonia dove spende gli ultimi suoi 18 anni vivendo poveramente e costruendo, fra molti contrasti e opposizioni, opere sanitarie ed educative per i lebbrosi, i caboclos e gli indios: quando è morto (1983) le riviste missionarie gli hanno dedicato poco spazio e una ha scritto: “Ha costruito un ospedale in Amazzonia, ma questo è facile per lui che aveva molti soldi”, ignorando tutto della sua vita di autentico “martire della carità”; penso a padre Clemente Vismara (1897-1988), missionario in Birmania per 65 anni, che i vescovi locali hanno definito “il Patriarca della Birmania” (se Dio vuole sarà beatificato l’anno prossimo); e a tanti altri missionari veramente eroici.

Ma l’“animazione missionaria” non si accorge quasi nemmeno che questi santi del nostro tempo sono tra noi. Ripeto: non accuso nessuno, non è colpa di nessuno in particolare, è una deriva abbastanza generale (contro la quale però bisognerebbe reagire) che spiega molto bene perché il missionario sta perdendo la sua identità e la sua capacità di attrarre giovani e ragazze generosi, innamorati di Cristo, che danno la vita per portare Gesù ai popoli non cristiani. Ma noi missionari ci crediamo ancora davvero al nostro carisma? E dov’è l’entusiasmo per la nostra vocazione carismatica?