Centenari: Quando MATILDE disse no all’imperatore

Le femministe di oggi si stupirebbero constatando quanto contavano le donne tra XI e XII secolo. Certo, bisognava essere di nobile casato: le contadine, le pastorelle, le guardiane di porci e così via avevano scarso peso nella società, e nemmeno le mogli degli artigiani e dei mercanti se la passavano bene.

Ma le regine, le aristocratiche e le badesse – a loro volta di nobile prosapia – potevano assurgere a livelli di grande potere e di alta responsabilità. Basti pensare a Eleonora duchessa d’Aquitania, consorte prima di re Luigi VII di Francia e poi di re Enrico d’Inghilterra, madre di teste coronate e colta poetessa; a Ildegarda di Bingen, badessa, santa, mistica, astrologa e scienziata (e, si mormorava anche un po’ maga); a Eloisa, coltissima allieva di Abelardo, quindi sua appassionata amante e infine a sua volta badessa. Il secolo XII, quello delle cattedrali e delle università, è stato per eccellenza il secolo della devozione alla Vergine Maria e dell’invenzione dell’amor cortese.

Matilde contessa di Canossa e duchessa di Toscana, è il primo esempio di questo tipo di donna eccezionale. Nelle diafane mani di questa inflessibile signora cadde buona parte dell’Italia settentrionale: ed essa la governò destreggiandosi nell’eterogeneità dei diritti che l’autorizzavano a farlo. Era nata nel 1046 dalle nozze tra Bonifacio, marchese (o, come i toscani amavano dire secondo la tradizione longobarda, “duca”) di Toscana e di Beatrice di Lorena.

In seguito alla morte dei suoi tre fratelli rimase – ancora bambina, nel 1055 –, erede non solo delle terre sulle quali suo padre aveva esercitato per delega il potere pubblico (la marca di Toscana), ma anche di quelle affidategli a titolo beneficiario (e propriamente ‘feudali’) nonché di una quantità di beni ‘allodiali’ (cioè privati) che, misti a quelli feudali stessi, si estendevano nei comitati di Bergamo, Brescia, Mantova, il medio corso del Po e la Toscana. A ciò andavano aggiunti i vasti possessi lorenesi della madre.

Morto nel 1052 il marchese Bonifacio, Beatrice aveva sposato in seconde nozze Goffredo IV il Barbuto, duca dell’Alta e della Bassa Lorena il fratello del quale, divenuto papa Stefano IX, gli aveva affidato lo stesso ducato di Spoleto. Poiché Matilde era erede di un patrimonio immenso, il patrigno cercò di procedere a un’irreversibile unione dei casati di Toscana e di Lorena attraverso le nozze della figliastra con il di lui figlio Goffredo V, detto ‘il Gobbo’. Ma l’unione tra Goffredo e Matilde non avevano tenuto: e il duca era tornato pieno di livore nelle sue terre transalpine.

Nel 1076, Matilde si trovò ormai priva, a sua volta, della madre e del consorte, mentre si stava profilando tra papa Gregorio VII e imperatore Enrico IV la fase più dura della cosiddette “guerra delle investiture”. Matilde prese con energia le redini dei suoi dominii, legandosi alla causa del papa che le pose accanto, come accorto consigliere, Anselmo vescovo di Lucca.

E fu proprio alla rocca avìta del suo casato, a Canossa, che nel gennaio del 1077 avvenne l’incontro – il merito del quale la tradizione attribuisce alla mediazione di Matilde – tra papa Gregorio ed Enrico IV di Franconia che, riconoscendosi vinto, aveva implorato nella neve il perdono del pontefice. Ma la guerra riprese quasi subito, e l’imperatore poté addirittura insediarsi, nel 1081, in quella Lucca ch’era la principale città della marca. Fu proprio da lì che il sovrano la decretò deposta e bandita dall’impero in quanto rea di lesa maestà.

La sorte si era rovesciata, e tutto sembrava ormai perduto: Gregorio VII, assediato in Roma fu liberato solo dall’intervento dei suoi turbolenti vassalli normanni dell’Italia meridionale, ma finì i suoi giorni in amaro esilio. Matilde però, che aveva resistito, riuscì il 2 luglio del 1085 a battere a Sorbaia presso Modena i fautori dell’imperatore: dopo tale vittoria si ristabilì un equilibrio di forze, che permise alla magna comitissa (come la si definiva) di divenire il principale sostegno del partito della riforma, che aveva riacquistato lena sotto la guida di papa Urbano II.

Nel 1089 l’ormai quarantatreenne marchesa accettò il consiglio papale di sposare Guelfo V, erede della corona ducale di Baviera e d’un quarto di secolo più giovane di lei. Si trattava di una solida alleanza antimperiale, che comportò comunque per Matilde un nuovo infelice legame nuziale: un solo figlio, nato da quell’unione, morì tuttavia
in tenera età.

Ormai divenuta la prima e irremissibile nemica dell’imperatore, Matilde fomentò e appoggio le successive rivolte contro di lui dei suoi figli, Corrado prima, Enrico poi; e si appoggiò alla potente casata comitale dei Guidi, in Toscana – sembra addirittura adottando il conte Guido II Guerra –, per ostacolare un’altra dinastia, gli Alberti, fedeli all’impero.
La morte di Enrico IV e l’ascesa al trono, nel 1111, di suo figlio Enrico V modificò di poco l’atteggiamento della marchesa nei confronti della casa imperiale di Franconia. Al punto che quando essa morì a Bondeno, il 24 luglio del 1115, essendo priva d’eredi essa lasciò la sede pontificia erede di tutti i suoi beni, sia di quelli feudali (che in quanto tali avrebbero dovuto tornare all’impero) sia di quelli allodiali – sui quali pesava l’ipoteca dei diritti ereditari, che a loro volta riconducevano all’impero.

Ciò fu causa di un’annosa questione, appunto detta “matildina”, che turbò i rapporti fra Chiesa e impero per circa un secolo e mezzo ma che non venne risolta nemmeno in seguito: al punto che, a metà Cinquecento, l’imperatore Carlo V si rifiutò di riconoscere il titolo di “granduca di Toscana” che il Papa disponendo appunto dell’eredità matildina aveva conferito a Cosimo I de’ Medici.

La magna comitissa fu sepolta nel monastero di San Benedetto di Polirone, presso Mantova. Nel 1632 le sue spoglie furono trasferite per volontà del papa a Roma, in San Pietro, e deposte in un monumento eretto dal Bernini. Il suo era stato un coraggioso e lungimirante tentativo di costruire, sulla base di terre provenutele da differenti linea di dipendenza, un organico principato feudale analogo a quelli che si andavano nello stesso periodo di tempo costruendo in Francia e in Germania. Forse, se avesse avuto un erede energico, il suo progetto sarebbe stato coronato da successo, tuttavia, difficilmente avrebbe potuto reggere dinanzi al prepotente insorgere della volontà autonomistica dei centri comunali toscani ed emiliano-lombardi, una forza nuova e originale di cui nulla di simile esisteva Oltralpe.

Mathilda, Dei gratia si quid est: il motto inciso sul sigillo di Matilde di Canossa, marchesa di Toscana, sembra respirare la stessa aura d’umiltà che aveva indotto pochi anni prima un papa a definirsi servus servorum Dei.

Il clima che ispirava questi motti era quello, rigoroso e appassionato, della riforma ecclesiale dell’XI secolo che liberò il clero latino – a prezzo tuttavia di molte violenze e di non pochi abusi – dalla simonia e dal nicolaismo, cioè dalle due piaghe della vendita venale delle cariche della chiesa e del concubinato. Ma c’è, al tempo stesso, un’accorta e dura rivendicazione politica in quel motto: dichiarando di essere «qualcosa, solo per grazia di Dio», la gran signora padrona di un “impero” che dal Tirreno toccava quasi l’Adriatico alla foce del Po e che dall’Umbria giungeva alla Lombardia sottolineava di dovere solo a Dio la sua potenza; e sembrava “dimenticare” la mediazione imperiale che in gran parte legittimava il suo dominio.

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