C’è bisogno di tornare a custodire la parola, per farla volare alta, verticale, senza dimenticare l’uomo. Come ci ricorda una poesia di Mario Luzi

Misuriamo spesso l’insufficienza delle nostre parole per descrivere quello che viviamo, quello che proviamo, quello che desideriamo.
Soprattutto misuriamo la distanza che separa il nostro ristretto parlare del Mistero di Dio e l’insondabilità di quel Mistero. La nostra parola è così limitata e circoscritta, perché insufficiente è anche la nostra comprensione del Mistero; infatti, sappiamo bene che la parola subisce lo scacco della sua debolezza nel momento in cui prova a “dire Dio”: forse è per questo che la testimonianza concreta è ben più efficace e credibile.

Ma, ci assicura il Vangelo di oggi, c’è un momento in cui la nostra parola non sarà più nostra, un momento in cui essa non sarà più incerta, zoppicante, ma autentica, vera, salda. E quando ciò accadrà, non sarà per merito nostro, ma solo per grazia: perché nell’istante della ricapitolazione, avremo «lingua e sapienza», senza bisogna di allestire prima ragionamenti di difesa. Là, in quel momento, nudi nella nostra povertà, avremo il soffio dello Spirito, perché lo Spirito parla dove l’uomo diminuisce, e diminuendo sa fare posto al Verbo.

Forse, nelle nostre giornate, senza arrivare alle estreme situazioni, dovremmo tenerlo presente con più convinzione: se vogliamo far parlare lo Spirito, dovremmo imparare a silenziare i nostri ‘arguti ragionamenti’, le nostre ‘spiegazioni efficaci’, i nostri ‘imprescindibili discorsi’. Umiltà e sapienza, silenzio e profezia sono coppie di antica data.
E così la parola acquista forza, torna a volare alto, senza perdere il contatto con il concreto e senza diventare banale chiacchiericcio; una parola che conserva le sue potenzialità, che sprigiona forza e luce.

Ce lo ricorda Mario Luzi in Vola alta parola, un testo verticale e intenso, tratto da Per il battesimo dei nostri frammenti:

Vola alta, parola, cresci in profondità, 
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami
nel buio della mente –
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza …

La cosa e la sua anima? O la mia e la sua sofferenza?

È richiesta una parola «alta», che richiama il latino altus, cioè una parola che sia “profonda” e al tempo stesso “alta”; una parola che sappia toccare “nadir” e “zenit”, ossia i due poli del verticale. È una parola, quella a cui si rivolge il poeta, che sappia percorrere la vetta o l’abisso, una parola che abbia il coraggio di essere veramente verticale, e non solo quietamente orizzontale. 
Ma ecco la preghiera dell’uomo: «Non arrivare / ti prego, a quel celestiale appuntamento / da sola, senza il caldo di me”. 
È una richiesta che oggi mi sembra molto attuale: la parola non deve dimenticare l’uomo, non può dimenticare l’uomo. Essa ha senso se abbraccia e solleva quell’uomo, non se lo dimentica. 
La parola deve essere luce e realtà, verità e umanità. Solo così potrà volare alta, solo così potrà diventare spazio di autenticità.

C’è bisogno di tornare a custodire le parole; c’è bisogno di ricordare che esse sono insufficienti, mancanti, incerte. 
C’è bisogno di ricordare che, per noi cristiani, la Parola vera è una, ed è incarnata, e non è la nostra: “Et Verbum caro factum est” (Gv 1, 14).

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