Davanti alla guerra. Sapremo ripetere “Pacem in terris”?

Aetate hac nostra quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda (Per cui riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia). Alienum a ratione, totalmente irrazionale: così ancora nel 1963 l’encicila Pacem in terris qualificava al n. 67 l’uso della guerra.

Certo, non possiamo essere ingenui: guerre ce ne sono state nei decenni che ci separano dall’enciclica, in diverse aree e di diversa intensità. Tutte accomunate dalle troppe vite infrante, dalla distruzione di città e convivenze, dalla totale incapacità di fungere da strumenti di riparazione di diritti violati.

Quello che presentava in tre parole Giovanni XXIII non era certo un giudizio storico, ma una valutazione morale. Una valutazione che era – ed è – durissima, tanto che la traduzione italiana del testo non riesce a reggerne il peso, limitandosi a tradurre quella tre parole come «riesce quasi impossibile pensare».

Oggi viviamo giorni in cui l’irrazionalità della guerra si fa storia concreta, ponendo dinanzi a noi una realtà che da oltre mezzo secolo non si presentava in questa forma e che speravamo espulsa dalla storia.

Viviamo, al cuore dell’Europa, un conflitto in cui è direttamente coinvolta in un’azione aggressiva una delle maggiori potenze mondiali, in opposizione a gran parte della comunità internazionale, con la concreta possibilità di un ampliamento dalle conseguenze imprevedibili.

Le sofferenze del popolo ucraino, la violenza, le morti e le distruzioni che vediamo sono già ora inaccettabili e chiedono solidarietà piena e senza riserve. In assenza di una gestione sapiente della crisi, però, esse potrebbero anche essere il primo passo verso una rottura di equilibri di più vasta portata.

La crisi in Ucraina ha certo alle sue spalle una storia complessa, aperta a una varietà di interpretazioni, e coinvolge delicato intreccio di fattori geopolitici, ma una cosa è eticamente chiara: la guerra non è la soluzione.

La guerra non è mai giusta, affermava il concilio Vaticano II nel c. V della II parte di Gaudium et spes, pur riconoscendo agli aggrediti il diritto a una legittima difesa. Ma non ogni azione bellica è difesa (non esiste una «difesa preventiva»); non ogni difesa è legittima; non ogni modo di difendersi è accettabile.

Ben di rado in effetti la guerra rientra oggi nei parametri che potrebbero farla apparire moralmente accettabile (ma vi è forse mai realmente rientrata?). Per di più oggi siamo ben coscienti che – al di là delle vittime dirette – la guerra ne causa tante, troppe altre, devastando economie e convivenze civili, appartenenze culturali e religiose, impattando su un ambiente spesso già drammaticamente provato (il fatto che si combatta attorno a Chernobyl ha un valore quasi simbolico in tal senso).

Come fermare, allora, la violenza? Come contenerla, impedendo l’impensabile? Come ritrovare equilibri di pace nella giustizia in un’Europa così complessa?

Negli anni della Pacem in terris si seppe evitare che la crisi innescata dalla prospettiva dell’installazione di missili sovietici a Cuba scatenasse letali conseguenze di vasta scala; sapremo oggi trovare pari saggezza?

Sapremo perseverare tenacemente nel dialogo e nella diplomazia per difendere la giustizia senza innescare escalation di violenza?

Sapremo usare le armi della politica e dell’economia perché la storia possa ritrovare una razionalità apparentemente perduta? 

Il Vangelo è annuncio di pace, è la promessa di una storia capace di guardare al di là della violenza. Ciò che accade in questi giorni è anche un fallimento di quell’agire pacificante che le Chiese e il movimento ecumenico hanno negli ultimi decenni coltivato come dimensione qualificante del loro agire.

Ma questo non deve far crollare la speranza, né impedire di continuare a praticare la preghiera, la solidarietà, l’azione nonviolenta, la costruzione di altre reti di rapporti. Il Dio della pace benedica la famiglia umana e ci insegni una via di giustizia. 

di Simone Morandini, vicepreside dell’Istituto di studi ecumenici San Bernardino e membro del Comitato esecutivo del Segretariato attività ecumeniche (SAE).