Bibbia e COVID. Quando Giobbe finisce in terapia intensiva

Tutti siamo Giobbe: è stata questa la partenza di una conversazione che ho avuto da remoto con le Scuole di formazione teologica di Reggio Emilia su «Giobbe e il problema del patire: quando Dio è contro di noi». Era l’ultimo di 6 incontri su Uomini e donne amati da Dio. Mi era stato chiesto di fare riferimento ai Giobbe del COVID.

Giobbe dunque è ognuno di noi. Non è un israelita: «Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe» (Gb 1,1). L’autore ebreo ha posto a protagonista del poema un saggio delle genti: un santo pagano dell’Antico Testamento (Jean Daniélou), perché voleva che Giobbe fosse figura d’ogni uomo che viene sulla terra.

Giobbe il temerario che vuole contendere con Dio. Non il paziente ma piuttosto il gridante, abitatore del letamaio e avvocato di se stesso che dà il nome al più calamitoso e calamitante tra i poemi sapienziali della Bibbia ebraica.

Dalla punta dei piedi alla cima del capo

Il mio compito era di portarlo a noi mettendone a confronto le grida, i lamenti, le invettive con le invettive, i lamenti, le grida dei ricoverati nei reparti di terapia intensiva.

È stato facile segnalare che rispetto ai protagonisti delle altre 5 serate – Paolo, Giona, David, Maria di Magdala, Rut – Giobbe il sofferente, il colpito da sventura, il circondato dalla morte era per noi il più coinvolgente. Muoiono tutti intorno a lui: muoiono tutti intorno a noi. Giobbe è il piagato nel corpo. I colpiti dal COVID sono infine tutti piagati nel corpo.

Quando il Signore disse a Satana che metteva in «suo potere» quanto apparteneva a Giobbe, Satana subito portò morte nella sua casa dove presto arrivò il messaggero a dirgli: «I tuoi figli [ne aveva 7] e le tue figlie [che erano 3] stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratel-
lo maggiore, quand’ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti» (Gb 1,18-19). Pur tramortito dalla strage, Giobbe «non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto».

Alle volte i miei figli e le mie figlie, che non sono 10 ma 5, si riuniscono nella casa del maggiore tra loro per una cena e io – lettore di Giobbe – mi chiedo a che bestemmia arriverei se la casa rovinasse sui giovani. Giobbe è ogni padre e ogni madre che perdono figli sulla terra.

Poi Satana colpisce Giobbe con una piaga maligna che lo copre dalla pianta dei piedi alla cima del capo: una specie di lebbra che lo rende impuro, lo pone davanti alla morte e lo costringe a sedere in mezzo alla cenere (cf. 2,7s). Le vecchie traduzioni dicevano «sul letamaio». «Ho avuto un tracollo e ho visto la morte»: così parla uno dei guariti del volume di storie di pandemia che ho messo insieme in collaborazione con Ciro Fusco (Fatti di Vangelo in pandemia, ViTrenD, Trento 2021; cf. in questo numero a p. 707), Claudio Rubagotti, parroco a Cremona. E ancora: «Quando uno è abituato a essere fonte di benedizione e la sua presenza è gradita o addirittura attesa, riconoscersi ora come fonte di malattia cambia la prospettiva su sé e sul mondo». Fonte di benedizione era stato anche Giobbe, «il più grande tra i figli d’Oriente».

Domandavo ma nessuno rispondeva

Nel rovente canto terzo del poema Giobbe maledice la sua venuta al mondo: «Perisca il giorno in cui nacqui». Più avanti, al canto sesto, invocherà la morte: «Volesse Dio schiacciarmi». Nelle vicende del COVID abbiamo udito parole somiglianti: «Quello della terapia intensiva è stato un periodo terribile, popolato da incubi. Sono arrivato a sperare di varcare la soglia, stavo troppo male e non riuscivo a sopportarlo» (parole di Piero Perazzoli).

Giobbe interpella Dio in continuità. Non accetta che il Signore non gli risponda. «Dirò a Dio: non condannarmi! / Fammi sapere di che cosa mi accusi» (10,2). Sembra di sentire gli innumerevoli colpiti dal COVID che avranno inoltrato a Dio innumerevoli domande.

Eccone una, di una donna somigliante a Giobbe per schiettezza di lingua: «Nel silenzio del reparto COVID parecchie volte mi sono chiesta il perché di tanta sofferenza, ma questa domanda è sempre rimasta senza risposta» (Carola Manzoni). Giobbe non dubita mai dell’esistenza del Dio silente che l’atterrisce, la nostra malata invece per un momento dubita: «La prima reazione è stata chiedere a Dio: ci sei o non ci sei?». Questa è la differenza tra il tempo di Giobbe e il nostro. Il poema risale forse agli inizi del V secolo a.C. Prima di Socrate. Prima che a qualsiasi uomo venisse in mente che mai si potesse scampare a Dio, o agli dei.

Giobbe si dispera per il silenzio di Dio: «Io grido a te, ma tu non mi rispondi» (30,20). Tanti si sono disperati in zona COVID, vedendosi consegnati alla morte, e chissà se infine avranno udito la voce di Dio, come Giobbe infine l’udì. Ecco la preghiera forse più drammatica formulata in pandemia da un sacerdote di Como mentre era in ospedale, giusto un anno fa, e che di COVID alla fine è morto: «In questi mesi – scriveva Alfredo Nicolardi al popolo delle sue tre parrocchie – abbiamo pregato, sperato, desiderato fortemente che le cose cambiassero. E invece il tempo passa, arriva Natale, ma le cose non cambiano e ci ritroviamo profondamente delusi. La notte avanza e Dio non viene a salvarci».

Ma io con il Signore desidero contendere

Nella sua protesta cosmica, Giobbe si pone ad antagonista del Signore: «Ma io all’Onnipotente voglio parlare, / con Dio desidero contendere» (13,3). La pandemia ha rifatto attuale la contesa con l’Onnipotente, che per noi cristiani è anche il sofferente.

Giovanni Albano, primario di terapia intensiva al Gavazzeni di Bergamo e autore del volume I giorni più bui (Piemme, Milano 2020), ha narrato così quella interlocuzione universa: «Alla sera non avevo voglia di parlare con nessuno ma parlavo con Dio a più riprese per farmi spiegare il senso di tutto questo». C’è chi si è limitato ad agitare il proprio caso: «Chiedevo a Dio che cosa voleva fare con me» (Giovanni De Cece).

Pur eroico nella lotta con Dio, Giobbe non dimentica la fragilità di cui è portatore: «Vuoi spaventare una foglia dispersa dal vento / e dare la caccia a una paglia secca?» (13,25). Anche questa antifona l’abbiamo riudita tra i sopravvissuti alla terapia intensiva, per esempio da un prete di Trento, Piero Rattin, che è un biblista e che nelle sue confessioni pare essersi ispirato proprio a Giobbe, narrando d’aver provato «la sensazione di una foglia secca alla mercé d’una tormenta» e lo «scandalo che il Dio che invochiamo a liberatore appaia sordo alle nostre invocazioni».

Quando finalmente il Signore risponde a Giobbe, egli s’acquieta ed esclama: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, / ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5). Un’avvertenza della vicinanza dell’Onnipotente che lo ripaga d’ogni pena e che abbiamo riascoltato più volte in pandemia. Così, per esempio, dal vescovo Derio Olivero: «A un certo punto ero certo che sarei morto ma proprio allora c’è stata una mezza giornata in cui ho avuto un’esperienza bellissima. Sentivo una presenza quasi fisica, quasi fosse lì da toccarsi. Se mi si chiedesse se sia disposto a tornare alla sofferenza di queste settimane, per riprovare l’esperienza di quella presenza, direi di sì».

Ci sono anche oggi i difensori di Dio

Qualcosa di quest’esito paradossale abbiamo trovato anche nelle parole del laico Leo Matzneller di Merano, che sperimenta per più di 4 mesi tutte le traversie del COVID, tracheotomia compresa, proprio come Olivero, e così narra il suo ritorno dagli inferi: «Ebbi una grande paura della morte. Mi rivolsi a Dio e implorai la sua misericordia. Piano piano, dopo giorni di lotta interiore, mi calmai, la fede nell’amore di Gesù prevalse. Ora la malattia non mi sembra una sventura, ma una benedizione».

Giobbe è un poema sul mistero del male e sul mistero di Dio. Non li chiarisce, non li scioglie. Guida ad accettarli. Il mistero si paga vivendo. Il credente impara con la vita a rispettarlo, mentre d’istinto ognuno vorrebbe assoggettarlo alla ragione: ma assoggettarlo, cioè spiegarlo, come provano a fare gli amici di Giobbe, equivarrebbe a negarlo. Va indagato, questionato, escusso, pregato e imprecato per l’intera vita, come fa Giobbe per tutti i 42 canti del poema, senza pretendere di poterlo mai sciogliere.

Nell’epilogo in prosa il Signore per due volte biasima gli amici di Giobbe «perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» (42,7). Cioè nessuno – nella disputa a quattro sul mistero del male, nella quale consiste in definitiva il poema – ha parlato bene come lui, dice il Signore. Eppure gli altri tre avevano parlato «in difesa di Dio» e si erano fatti suoi «avvocati» (13,7s). Insomma il grido di Giobbe vale di più di tutta la teologia apologetica d’allora e di oggi. Perché ci sono anche oggi, tra noi, i difensori di Dio.

Stare sempre dalla parte di Giobbe

Nel lamento di Giobbe e di Rachele, nel grido di Gesù dalla croce, nelle visioni dell’Apocalisse la malattia, la sofferenza, la morte restano un abisso da cui solo la risurrezione e il Regno ci liberano davvero: solo la promessa della risurrezione e l’avvento del Regno. Evitiamo dunque di dare una qualsiasi spiegazione del male che non sia quella cristologica della partecipazione alla morte di Cristo, in vista di essere associati alla sua risurrezione.

Ogni altra spiegazione – comprese quelle più accreditate dalla tradizione: che il male è frutto dei peccati, o prova che il Signore manda – rischia di offendere la giusta ribellione al male e l’urgente disputa con Dio che ogni Giobbe attizza nell’anima sua strapazzata. E noi dovremmo stare sempre dalla parte di Giobbe e non da quella di Dio.

Il Regno.it