Aspettando il nuovo Messale. Per molti o per tutti?

Senza entrare nelle discussioni sul nuovo Messale, non è fuor di luogo ricordare la sensibilità dei cristiani d’Italia, abituati a un preciso linguaggio…

"Ogni parola porta in sé una straordinaria potenza emotiva..."

“Ogni parola porta in sé una straordinaria potenza emotiva…” (foto CENSI)

Da ragazzo, un compagno di liceo, carissimo amico, dall’intelligenza acuta e dotato di un penetrante spirito di osservazione, si divertiva ogni tanto a mettermi in imbarazzo con un giochetto linguistico. Mi diceva: «Tu sai che io ti ritengo un tipo intelligente e non dubiti della stima che ho di te; ma vuoi vedere che se ti chiamo stupido, tu diventi rosso lo stesso?». Detto fatto, seguiva un qualche suo apprezzamento beffardo sul mio conto e sul mio volto il previsto istantaneo rossore. Da grande, poi, mi sono anche interessato di comunicazione e di studi linguistici, per capire meglio cos’è la comunicazione della fede, e ho imparato dagli esperti che la parola non è solo veicolo di un’idea. Ogni parola porta in sé, per il solo fatto di essere pronunciata, una straordinaria potenza emotiva, capace di fare il suo gioco indipendentemente da qualsiasi spiegazione che le si dia sul piano della definizione concettuale e da qualsiasi successiva precisazione del significato che si è inteso darle. Lo dimostrano molte liti nate da una sola parola detta male, anche al di là delle intenzioni, che guastano i rapporti umani. Quando uno si è sentito offeso da una parola detta, molte volte non c’è spiegazione che giovi. Dire: «Ma io non intendevo… Io volevo dire un’altra cosa… Non avevo l’intenzione di…», in mille casi non serve.

Pensieri e preoccupazioni

Ebbene, a questo fenomeno umano mi sento richiamato ogni volta che leggo, ascolto e, tante volte, io stesso (per esempio nella recitazione dei testi liturgici) mi ritrovo a pronunciare parole e frasi che, per quanto perfette nel loro significato, rischiano di lasciare totalmente insensibili, o peggio, di produrre nell’animo di chi ascolta effetti contrari a quelli desiderati. Sono questi i pensieri e le preoccupazioni che non riesco a evitare quando immagino le reazioni che l’eventuale cambiamento delle parole della consacrazione del calice, da «versato per tutti» a «versato per molti», se venisse attuato, potrebbe suscitare nell’animo di molti e invadere la pubblica opinione. È facile pensare che, oltre alle parole in sé stesse, sarà il fatto di averle cambiate a suscitare molti turbamenti. Alcuni mesi fa, ho potuto vedere come già sia stata sentita la possibile nuova formulazione eucaristica dall’ignoto graffitaro che, nei pressi della chiesa di Santa Croce a Pisa, ha messo in pubblico la sua rabbia – immagino per essersi sentito escluso in qualche maniera dal suo circolo – scrivendo sul muro: «Acli: per molti, non per tutti!». L’impressione negativa, che il temuto cambiamento susciterebbe, non potrebbe essere bilanciata neanche dalla più diffusa e dalla più efficace delle spiegazioni possibili. Già sul piano di un freddo ragionamento, non sarebbe facile convincere le persone che, dicendo “per molti” invece che “per tutti”, non si intende escludere che davvero Gesù abbia versato il suo sangue per tutti. È il fatto di voler cambiare una delle espressioni più sacre del parlare cristiano, che da cinquant’anni ormai il popolo italiano è abituato a sentire, che rischia di produrre una diffusa reazione emotiva praticamente impossibile da contrastare.

L’indispensabile catechesi

Oltre alla sua oggettiva difficoltà, bisogna anche tenere presente che l’indispensabile catechesi che, ovviamente, ogni pastore di Chiesa è pronto a mettere in opera, raggiungerebbe solo quel 30% d’italiani che partecipano alla messa domenicale. Quella più approfondita, che si svolgerebbe nelle riunioni parrocchiali e nelle catechesi per gli adulti, raggiunge, come tutti sanno, solo sparute minoranze di devoti. Per la grande massa della popolazione e per i moltissimi che si affacciano ogni tanto alle celebrazioni liturgiche per il matrimonio dell’amico o il funerale del nonno, la sola “catechesi” sarebbe – ahimè! – quella ammannita dalla televisione e dai giornali: con quale spirito e quali valutazioni è facile prevedere. Coloro che più rischiano di soffrirne, al punto di poter subire la spinta a ritrarsi da un eventuale moto di avvicinamento alla fede, sono proprio coloro ai quali, più che a chiunque altro, siamo debitori del Vangelo: ai più lontani dalla fede. Penso al carcerato (me lo raccontava giorni fa il cappellano del carcere) che, letta sui giornali la notizia del possibile cambiamento, gli diceva: «Allora per me no, per me Gesù non ha dato la vita, ma solo per i molti che sono fuori da queste mura! ». Penso ai tanti anticlericali o indifferenti o atei che sentono nel loro animoun germe di desiderio di fede e che potrebbero risultare dissuasi dall’accostarsi alla Chiesa. Di ciò tutti nella Chiesa portiamo la responsabilità. Agito in me queste preoccupazioni ben consapevole che il Signore e la sua Parola sono e saranno sempre “segno di contraddizione”. Noi suoi discepoli, noi sua Chiesa, non possiamo lasciarci condizionare nella nostra testimonianza dalla paura di suscitare contraddizioni nello spirito umano e nella società che ci circonda. Non possiamo fare a meno di predicare il giudizio di Dio sulla responsabilità dell’uomo nell’accogliere la sua Parola. L’amore per i fratelli, però, ci spinge a spianare loro la strada, il più possibile, perché possano sentirsi desiderati e accolti dalla comunità dei credenti.

La traduzione

È ciò che hanno fatto a loro tempo i vescovi italiani quando pubblicarono la prima traduzione del Messale di Paolo VI, adottando – fra le diverse traduzioni del pro multis del Messale latino che sulla base di una valida esegesi del corrispondente testo evangelico risultavano possibili – l’espressione italiana “per tutti”. Era questa, del resto, l’espressione più coerente con le parole che si rivolgono al Padre nella Preghiera eucaristica IV: «Nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro»; con quelle della II Preghiera eucaristica della riconciliazione: «Ti sei fatto vicino ad ogni uomo»; e con quelle che si pronunciano nella Preghiera eucaristica V/d: «Offri a tutti gli uomini la beata speranza del tuo Regno». Tutti sappiamo quanto sia complesso il problema della traduzione e, soprattutto, quello di tradurre dal greco e dal latino alle lingue vive, parlate oggi, in una continua evoluzione dei significati e della potenza emotiva delle parole. Non stupisce, quindi, che la questione delle traduzioni liturgiche susciti dovunque innumerevoli dibattiti. Non mancano anche in Italia varietà di opinioni e vivacità di proposte in vista della nuova edizione del Messale che, attualmente, dopo l’approvazione dei vescovi, è all’esame della Santa Sede per la necessaria recognitio. Il libretto di Francesco Pieri (Per una moltitudine, Dehoniane 2012) ne dà un’accurata esposizione e offre una possibile soluzione intermedia fra le diverse proposte. Pluralità di pensieri, diversità di preoccupazioni, accenti posti diversamente su questo o quel particolare, non dovrebbero essere reputati da nessuno come fenomeni negativi. In virtù della sua cattolicità, nella Chiesa «le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità».

Le diversità poi si moltiplicano «legittimamente in seno alla comunione della Chiesa», poiché sono le molte diverse «Chiese particolari, con proprie tradizioni», che ne compongono la vitalità, «rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l’unità, ma piuttosto la serva» (Lumen gentium 13). Unità nella diversità delle forme Il ministero papale cura l’unità e tutela le varietà legittime, perché si rapporta costantemente al collegio episcopale il quale, «in quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l’unità del gregge di Cristo» (LG 22). Ora, l’unità della Chiesa si realizza nella moltitudine delle forme linguistiche della medesima fede e in questo gioco fra diversità e unità, nelle espressioni verbali della fede, è ovvio pensare che si debba partire dal giudizio dei vescovi che vivono all’interno di un determinato popolo, ne parlano ogni giorno la lingua, ne conoscono tutte le inflessioni particolari e sono in grado di vagliarne la potenza comunicativa.

Preso atto di questa competenza, difficilmente estensibile ad altri che parlano altre lingue, il vaglio che la Santa Sede opera nell’atto della recognitio dei testi liturgici resta necessario, per assicurarne l’accoglienza nel concerto della Chiesa cattolica, conferendo l’ultima e suprema garanzia della loro ortodossia. Ora, nel caso italiano, la garanzia dell’ortodossia dell’espressione «versato per tutti» è già stata data nelle precedenti edizioni del Messale in italiano e non ha più bisogno di essere messa in discussione. Fra l’altro, già la lettera della Congregazione per il culto del 2006, come la recente lettera del Papa ai vescovi tedeschi, confermano la validità della formula più diffusa nelle diverse traduzioni, corrispondente al nostro “per tutti”. Ne risulta quasi ovvio il fatto che la Conferenza episcopale italiana, con il consenso della stragrande maggioranza dei vescovi, ne abbia proposto la conservazione nella nuova edizione del Messale. Né si va lontano dal vero se si suppone che nel popolo di Dio ci siano, ampiamente condivisi, il desiderio e la speranza di poter continuare, da parte dei preti a pronunciare e da parte degli altri fedeli a sentir dire nella Chiesa, che il corpo immolato di Gesù e il suo sangue versato, pur dovendo ciascuno esaminare la propria coscienza prima di riceverli, sono un dono offerto a tutti.

Severino Dianich

vita pastorale gennaio 2013