ARTE: Concilio dipinto

Troviamo anche il Concilio – visto come evento storico, poi teologico, infine come paradigma – risalendo il fiume dell’arte che da secoli attraversa la storia della Chiesa. Rinunciando a richiami circa i concilii più remoti (al centro di mosaici, icone, miniature, affreschi) ci fermiamo sugli ultimi 4 secoli: da Trento al Vaticano II.

La nostra ipotetica mostra – senza pretese di completezza – comincia con una tela cinquecentesca di scuola veneta oggi al Louvre, «Sessione Solenne del Concilio di Trento tenuta nella Cattedrale di San Vigilio»: opera forse del veronese Domenico Brusasorci (attivo ai tempi del Concilio), fissa la ventitreesima seduta del Tridentino il 15 luglio 1563, l’unica svoltasi nella navata maggiore del Duomo. Tra le altre opere successive meritevoli di attenzione, nel Museo Diocesano Trentino troviamo un dipinto attribuito a Elia Naurizio, pittore di corte a Innsbruck, e due tele interessanti che – a distanza di decenni – illustrano le sessioni iniziale e conclusiva del Tridentino: con fantasia, rivelandoci però l’interno del duomo all’alba del XVIII secolo.

Queste opere sono attribuite a Nicolò Dorigatti, ispiratosi al più noto dipinto del 1633 di Naurizio, dedicato a una congregazione generale nella chiesa di Santa Maria Maggiore, dove dal 1562, superato il numero di 200 vescovi, l’edificio senza navate accolse i Padri su una grande tribuna lignea, riprodotta nel dipinto. Ad altre sedute nella stessa chiesa fanno riferimento una tela di autore ignoto nel Tiroler Landermuseum Ferdinandeum di Innsbruck, un’altra – forse dello stesso Naurizio – oggi al Museo diocesano di Mantova e una terza nella chiesa di San Giovanni Battista ad Ameno (No). Di ben altro valore il quadro di Sebastiano Ricci «Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento» (1687-1688), oggi al Museo Civico di Piacenza, e, di un secolo prima, l’affresco del tardo manierista Pasquale Cati a Santa Maria in Trastevere, dove il Concilio appare già quale categoria simbolica, come nel successivo affresco «Allegoria del Concilio di Trento» realizzato nel 1798 da Andreas Brugger per la parrocchiale di San Carlo Borromeo a Hohenems, Vorarlberg.

Anche il Vaticano I ha avuto i suoi cantori. Accanto a stampe e incisioni con sequenze di letture pubbliche dei suoi decreti, è utile un rimando almeno al mosaico «Pio IX al Concilio Vaticano I» in San Lorenzo fuori le mura. Ma ecco che già, insieme a noti dipinti dell’epoca (dove il papa appare ispirato dallo Spirito Santo e colpito da raggi di luce), fanno la loro comparsa le fotografie: nelle raccolte dei Fratelli Alinari restano gli scatti di Gioacchino Altobelli con Pio IX durante il Vaticano I (ma anche il Vaticano II avrà i suoi grandi fotografi: uno per tutti Lothar Wolleh). Potremmo continuare con i bassorilievi di Pietro Galli che adornavano la base della colonna del Monumento al Concilio Vaticano I voluto da Pio IX e mai eretto dopo Porta Pia (oggi sulle pareti esterne di una torre nei Giardini Vaticani). E, con un balzo, eccoci nel ’900. A riportare in auge il tema del Concilio sono Giacomo Manzù e Aligi Sassu.

E se già negli anni Trenta vescovi e cardinali affascinano lo scultore bergamasco, è il pittore lombardo di origini sarde a portare nella sua produzione questo soggetto. Nascono così immaginari raduni di rossi dignitari orchestrati con tratti grotteschi. Ecco, dagli anni ’40, una serie di tele che parte con «Il Concilio di Trento» (presente all’Esposizione della pittura italiana di Boston del ’51), quindi prosegue con nuove prove dopo il «Concilio di vescovi» del 1959, mere varianti dei precedenti dove si racconta una Chiesa lontana dalla purezza evangelica. Poi però qualcosa cambia. L’artista intuisce il senso del Vaticano II voluto da Giovanni XXIII e… si placa. Se la tela «Concilio» del 1959 appariva ancora polemica, quella del ’63 ha una visione rasserenata. Non a caso, di lì a poco, gli Oblati di Maria Immacolata commissionano a Sassu un affresco sul Vaticano II per la chiesa di Sant’Andrea di Pescara. Il filone non si esaurisce e altre opere meno note attendono di essere riscoperte: spesso segnano ritorni a visioni polemiche, dove la vernice color sangue riempie una Chiesa legata al potere.

Di Manzù, che ha eternato nel bronzo lo spirito giovanneo, sappiamo molto grazie agli studi di Mariano Apa chiarificatori dei nodi nel rapporto arte-liturgia, anche nella Sacrosantum Concilium. Ma ci sono altri insospettabili artisti cimentatisi con il nostro tema. Come Fernando Botero, con i suoi grassi cardinali «In viaggio al Concilio» (nella Collezione d’Arte Religiosa Moderna del Vaticano). Come Salvador Dalí con «Il Concilio Ecumenico» del 1960 (nel Museo di St. Petersburg), opera influenzata dalle idee di Teilhard de Chardin, nonché dal solito esibizionismo dell’autore (partecipe con un vistoso autoritratto). Si è parlato spesso di affinità tra Dalí e De Chirico.

Quest’ultimo negli anni Sessanta scriveva di non approvare il desiderio della Chiesa «di aprire le porte alla decadenza dell’Arte, credendo di dover accettare la cosiddetta nuova cultura, […] e sottovalutando i pericoli dei suoi aspetti negativi». Alla luce di queste ansie diventa ancor più necessario accostare le soluzioni di noti interpreti del Vaticano II, legati a Paolo VI e a prelati sensibili. Si vedano dunque  i dipinti di Aldo Borgonzoni (vicino al cardinale Lercaro), con i suoi Padri conciliari in lacere posture, sospesi fra spirito e materia. Si pensi alle opere di tre artisti “montiniani” (legati a monsignor Macchi), come Floriano Bodini, Enrico Manfrini e Lello Scorzelli: fra i pochi a fare arte sacra conciliare.

E se un gruppo scultoreo come il bodiniano «Papa e Vescovi» del 1963 muta in materia le parole di papa Montini, se le medaglie manfriniane narrano il fluire del Concilio e dei pontefici, Scorzelli ferma dentro le sue tempere la forza del timoniere del Concilio e dell’arte conciliare, che seduce persino Jean Guitton, filosofo e pittore (!) con i suoi «Les Apôtres au Concile» del 1964 (Collezione Arte e Spiritualità, Brescia). Arte dall’evoluzione «spesso pericolosa e sconcertante – dirà nel 1973 Paolo VI agli artisti nella Sistina – ma che più spesso si fa idonea e penetrante nel santuario dello spirito e ad essere da noi, alunni e maestri di spirito, maggiormente apprezzata».

Marco Roncalli  / avvenire.it