Arte. Con Kjartansson “Il cielo in una stanza” suona come il Cantico dei cantici

Nella chiesa di San Carlo al Lazzaretto, a Milano, l’artista islandese trascrive il capolavoro di Gino Paoli per voce e organo. E nella chiesa manzoniana il senso della canzone si stravolge

Ragnar Kjartansson, "The Sky in a Room", 2018 – 2020. Performer, organo e canzone Il Cielo in una Stanza di Gino Paoli (1960). Milano, chiesa di San Carlo al Lazzaretto

Ragnar Kjartansson, “The Sky in a Room”, 2018 – 2020. Performer, organo e canzone Il Cielo in una Stanza di Gino Paoli (1960). Milano, chiesa di San Carlo al Lazzaretto – Fondazione Trussardi. Courtesy dell’artista, Luhring Augustine, New York e i8 Gallery, Reykjavik. Foto di Marco De Scalzi

Avvenire

Può la canzone di un amore profanissimo, diventare (miracolosamente?) il canto più sacro? Era norma un tempo, attraverso la pratica del contrafactum e della parodia, trasformare un brano secolare in spirituale, il “trucco” stava nel cambiare il testo (in area cattolica anche nella lingua, il latino). Bach ha costruito in questo modo gran parte del suo catalogo “sacro”. All’islandese Ragnar Kjartansson è riuscita l’impresa invece di non toccare neppure quello.

“Sky in the room” è il progetto realizzato dal’artista e musicista islandese su richiesta della Fondazione Trussardi all’interno della chiesa di San Carlo al Lazzaretto, a Milano. Concepita in seguito al difficile periodo di quarantena, che ha segnato in profondità la vita degli italiani e in particolar modo degli abitanti della Lombardia, la performance è ambientata in un luogo fortemente simbolico: l’architettura borromaica protagonista delle pestilenze del 1576 e del 1630 (questo è il luogo in cui le strade di Renzo e Lucia si riallacciano drammaticamente nel capolavoro di Manzoni). Qui sul nuovo organo Inzoli-Bonizzi per sei ore al giorno, dalle 14 alle 20 fino al 25 ottobre (ingresso libero con prenotazione obbligatoria), dei musicisti eseguono e cantano Il cielo in una stanza di Gino Paoli.

«Il cielo in una stanza è l’unica canzone che conosco che rivela una delle caratteristiche fondamentali dell’arte: la sua capacità di trasformare lo spazio» dice l’artista. «In un certo senso, è un’opera concettuale. Ma è anche una celebrazione del potere dell’immaginazione – infiammata dall’amore – di trasformare il mondo attorno a noi. È una poesia che racconta di come l’amore e la musica possano espandere anche lo spazio più piccolo, fino ad abbracciare il cielo e gli alberi…».

La scrittura prevede una concatenazione di ripetizioni virtualmente infinita: una canto come una infinita dolcissima nenia, un lungo commiato, l’espressione della nostalgia di una presenza di amore purissimo. Complice l’arrangiamento organistico, davvero ben scritto, dello stesso Kjartansson – capace a un certo punto di interpolarvi la Pastorale di Johann Sebastian Bach e di usarla come supporto armonico per la melodia – Il cielo in una stanza diventa una sorta di lied sacro, dalle sonorità intime e dai tempi dilatati, perfetti per l’eccellente acustica del San Carlino, come chiamano i milanesi questa chiesa. Persino il testo, sotto le volte cinquecentesche progettate da Lazzaro Palazzi, assume una tinta nuova, vicina a quella del Cantico dei cantici, un canto dell’amore mistico proprio perché fisico: “Quando sei qui con me / questa stanza non ha più pareti / ma alberi / alberi infiniti / Quando sei qui vicino a me / questo soffitto viola / No, non esiste più / Io vedo il cielo sopra noi”.

Per paradosso, l’operazione finisce per contraddire l’assunto di Kjartannson: non è Il cielo in una stanza a trasformare lo spazio. È invece la chiesa di San Carlo al Lazzaretto a trasformare il capolavoro di Gino Paoli.