Architettura. «Ridiamo spazio al sacro»

La chiesa di Mogno (1986), la prima costruita da Mario Botta

La chiesa di Mogno (1986), la prima costruita da Mario Botta

I temi del ‘sacro’ – il silenzio, la meditazione e la preghiera –, pur nelle contraddizioni del vivere quotidiano, evidenziano con molta più incisività rispetto ad altri temi “profani” gli aspetti primigeni che permettono di rintracciare le ragioni d’essere del fatto architettonico. Penso alla luce e all’ombra, alla gravità e alla leggerezza, al muro e alla trasparenza, al percorso e alla soglia, al finito e all’infinito, alla forza dell’opera costruita, al suo essere parte attiva di uno scenario di vita che il cittadino incontra ogni giorno. Ma la riscoperta dei valori originari del costruire, semplici ed essenziali, richiede una costante rilettura critica. Per troppi anni l’architettura è stata usata come strumento sfacciatamente perverso a servizio del mercato e dei consumi indotti dalla globalizzazione. Ora, per l’architetto, le costrizioni operative della professione rischiano di annientare ogni spazio creativo dentro un’attualità scialba e soffocante, incapace di reagire all’appiattimento dei valori, contrabbandato dalla società dei consumi come fosse una conquista.

Credo che per esercitare questa nostra attività (il costruire) sia necessario trovare nuove forme di pensiero e di azione ripartendo dai principi del mestiere, nella certezza che anche le forme espressive del contemporaneo possano elaborare prospettive capaci di interpretare le spinte innovative, come è avvenuto nel grande passato. Costruire luoghi di culto, in una società secolarizzata e connotata dall’esasperato individualismo della civiltà dei consumi, può oggi apparire un intendimento azzardato, antistorico, aneddotico o comunque mar- ginale rispetto alle spinte egemoniche di mercato e finanza che spadroneggiano nel controllo degli stili di vita. È la nostra generazione che nel breve scorrere di pochi decenni sembra aver smarrito gli ideali e i valori che avevano motivato la “ricerca paziente” degli architetti nostri maestri. Penso a Rudolph Schwarz e allo straordinario sodalizio avuto con Romano Guardini, penso a Le Corbusier, a Niemeyer, a Aalto, a Michelucci, a Saarinen, a Tange, a Utzon, a Kahn, solo per ricordare gli architetti più affascinanti che hanno operato in seno alla cultura moderna. Architetti che hanno saputo interpretare le attese del proprio tempo e fare dei luoghi di culto modelli significativi per l’organizzazione dello spazio di vita. Oggi appare evidente come, accanto alle conquiste tecniche e scientifiche indotte dalla globalizzazione, si stia diffondendo una omologazione di valori e comportamenti, un livellamento dell’organizzazione del-l’habitat, delle città e del territorio. In queste condizioni anche la centralità che i luoghi di culto occupavano dentro i tessuti connettivi dell’abitare sta progressivamente scomparendo, facendo sì che vengano tutt’al più interpretati come memorie o come servizi, al pari di altre componenti della città. Al di là delle risposte alle esigenze liturgiche resta, per l’architetto, la responsabilità di una sintesi progettuale tale da far sì che un edificio di culto costituisca anche un luogo di identità e di immagine, capace di comunicare la memoria di un passato che chiede di essere interpretato con la sensibilità e la cultura del nostro tempo.

Per la costruzione di un’opera d’architettura il primo atto risiede nel tracciarne il perimetro, nel distinguere e separare l’interno dall’esterno: un atto “sacro” che isola una nuova realtà architettonica autonoma rispetto al “macrocosmo” infinito che la circonda. Inoltre, questo gesto relaziona inscindibilmente una porzione di territorio scelto dall’uomo alla terra-madre, alla geografia, alla cultura e alla storia di quel sito. Un gesto – quello di definire un perimetro – che trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura. Lo spirito dell’uomo ritaglia e modella una nuova realtà con un processo razionale, compiuto alla ricerca di nuove realtà per le proprie esigenze e, nel contempo, traccia nuovi equilibri con il suo ambiente. Costruire è un’attività dettata da una volontà, un modo con il quale l’uomo si confronta con lo scorrere senza fine del tempo. La creazione di nuovi rapporti spaziali fra il manufatto e l’intorno resta il vero obiettivo dell’atto creativo. Testimone simbolo di questa trasformazione, oltre al tracciato perimetrale, è l’elemento emblematico della soglia: segno di transito, di passaggio, di distinzione fra due realtà, luogo di articolazione fra il dentro e il fuori.

Nello spazio dei luoghi di culto la realtà dell’interno modella una nuova immagine, una condizione “finita” per le attività di silenzio, di contemplazione, di trascendenza e di mistero. È con la definizione di uno spazio architettonico finito che al fruitore viene dato di vivere una condizione di infinito. In taluni momenti particolarmente felici l’architettura può sottolineare una condizione di attesa, di trascendenza, dove passato e presente convergono verso memorie ancestrali. A tal proposito, Le Corbusier parla di uno spazio di confronto con l’infinito, con lo «spazio indicibile»… dove per l’uomo «è ora di lasciare riaffiorare un’intuizione memore di esperienze acquisite, assimilate, forse dimenticate e riemerse in forma incosciente. Lo spazio è dentro di noi, l’opera può evocarlo ed esso può rivelarsi a coloro che lo meritano, a chi entra in sintonia con il mondo creato dell’opera, un vero altro mondo. Si spalanca allora un’immensa profondità che cancella i muri, scaccia le presenze contingenti, compie il miracolo dello spazio indicibile».

da Avvenire