Archeologia le catacombe svelate dal laser

Un esorcista e un presbitero. Sono le “professioni”, se così si può dire, di due martiri cristiani molto conosciuti in epoca altomedievale. Si tratta dei santi Pietro e Marcellino le cui sepolture, nelle catacombe omonime, erano visitate da migliaia di pellegrini provenienti da tutto il mondo allora conosciuto. Lo testimonia l’abbondanza di graffiti, anche in alfabeto runico, incisi sulle pareti della cripta realizzata da papa Damaso (366-384) intorno alle loro tombe e poi ampliata in piccola basilica da Onorio I (627-637) per fare spazio ai tanti visitatori. Fu proprio Damaso a diffondere il culto di Pietro e Marcellino avendone lui stesso, da bambino, ascoltato il racconto del martirio dalla bocca del loro carnefice. Circostanza che fa collocare la morte dei due santi all’epoca della persecuzione di Diocleziano fra il 303 e il 304.

Quelle catacombe, oggi collocate fra il numero 641 di via Casilina e il grande mausoleo circolare di Elena, sono state riaperte al pubblico dal 2014 in seguito a una vasta campagna di ripristino realizzata dalla Pontifica commissione di archeologia sacra alla quale compete la loro gestione. Commissione che insieme al Pontificio consiglio per la cultura ha firmato nel 2012 una convenzione con la fondazione azera Heydar Aliyev per il restauro con tecnica laser di una cospicua porzione degli affreschi contenuti nella vasta necropoli. Restauri che sono stati finalmente inaugurati martedì alla presenza del cardinale Gianfranco Ravasi (presidente della Commissione), della presidente della fondazione azera, Mehriban Aliyeva, e del soprintendente archeologico delle catacombe, Fabrizio Bisconti. Nell’occasione sia il cardinale che la Aliyeva hanno sottolineato il particolare valore di dialogo interreligioso di un’iniziativa culturale che si colloca fra le tante promosse nel corso del pontificato di Benedetto XVI.
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Un particolare del cubicolo della donna orante

Per la prima volta nella storia recente – ha spiegato Ravasi – un’istituzione di una nazione musulmana sciita contribuisce alla valorizzazione di un monumento cristiano». Tra l’altro, gli ottimi rapporti diplomatici che intercorrono tra la Santa Sede e l’Azerbaigian sono testimoniati da un analogo intervento a favore del restauro di manoscritti azeri custoditi presso la Biblioteca Apostolica Vaticana
Ma torniamo alla vicenda di Marcellino e Pietro.

Secondo il racconto di Damaso il giudice che li condannò a morte dispose che venissero portati in un bosco, fatta loro scavare la fossa e lì uccisi lontano da occhi indiscreti per evitare che sulla sepoltura nascessero forme di culto. Fu la matrona Lucilla, imparentata con i martiri Tiburzio e Firmina, a ritrovare i corpi, che fece tumulare nella tomba di famiglia nel cimitero Ad duas lauros, collocato su un’antica proprietà imperiale nei pressi dell’allora via Labicana.

Cimitero nel quale dalla seconda metà del III secolo (cioè dall’imperatore Gallieno) fino a Diocleziano, i cristiani venivano sepolti insieme ai pagani in una regime reciproca di tolleranza. Cimitero che serviva il vasto quartiere popolare posto sotto l’Esquilino e che rimase attivo fino alla metà del V secolo, diventando una delle più vaste catacombe romane: un reticolo di gallerie di numerosi chilometri posto su più livelli, con decine di migliaia di sepolture.

Proprio le tombe di Pietro e Marcellino, alle quali presto si unirono quelle di altri notissimi martiri come Tiburzio, Gorgonio e i SS. Quattro Coronati, ne fecero un luogo di sepoltura molto ambito per tanti cristiani, comprese famiglie facoltose e associazioni di mestieri, che fra IV e V secolo vi realizzarono vasti cubicoli e arcosoli affrescati che ne hanno fatto le catacombe con la più alta densità di decorazioni a noi pervenute. All’inizio del IV secolo, inoltre, dopo la vittoria su Massenzio, Costantino fece costruire accanto all’area sepolcrale il mausoleo nel quale venne poi sepolta sua madre Elena e una basilica a pianta di circo romano, della quale oggi restano solo le fondamenta.

Le spoglie di Pietro e Marcellino non sono più nelle catacombe dall’epoca carolingia, quando (come accadde per le reliquie di tanti altri martiri, spostate nelle basiliche dell’Urbe e non solo), vennero utilizzate per la dedica di numerose chiese del Nord Europa, in particolare per l’abbazia di Seligenstadt in Germania. Da quegli anni in poi, perduta la ragione di pellegrinaggio, le catacombe vennero progressivamente abbandonate, così come i soprastanti edifici costantiniani col mausoleo di Elena trasformato in torre di guardia fino a dare il nome all’attuale quartiere di Torpignattara. A riscoprirle furono le esplorazioni archeologiche di Antonio Bosio nel XVII secolo, ma solo a fine XIX Enrico Stevenson ritrovò la cripta di Pietro e Marcellino.

Da quel momento in poi scavi e restauri hanno riportato alla luce le straordinarie pitture, che oggi è possibile vedere nei colori e nelle forme originarie, grazie alla ripulitura col laser. Bellissimi il cubicolo cosiddetto della “Donna orante” (un vero e proprio ritratto), che era totalmente illeggibile prima del restauro. In esso sono dipinte numerose immagini sacre tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento, che si ripetono in tanti altri cubicoli e arcosoli: dal Buon Pastore a Daniele nella fossa dei leoni a Giona raffigurato in varie situazioni, dalla Samaritana al pozzo alla resurrezione di Lazzaro, dalla guarigione dell’emorroissa alla moltiplicazione dei pani, a numerosi banchetti rituali e via dicendo.

Fra queste immagini, come fa notare l’archeologa Raffaella Giuliani, ispettore delle catacombe di Roma, compaiono di tanto in tanto le raffigurazioni dei cosiddetti “fossori”, cioè gli addetti agli scavi e alla manutenzione delle catacombe, «veri e propri genius loci» dipinti con i loro attrezzi a col caschetto di protezione.

Il cardinale Ravasi ha posto l’accento sulle immagini che testimoniano il dialogo fra la cultura romana e la cristiana, come le stagioni, gli animali simbolici, gli atleti e la figura di Orfeo che suona la lira ammaliando le bestie selvatiche. A riguardo Eusebio di Cesarea affermava che «se Orfeo, con il suono della lira, ammansì le fiere […], il Verbo di Dio fece di più: ammansì i costumi dei barbari e dei pagani» (Laudatio Constantini, 14). Un dialogo che lo stesso Ravasi ha riportato alle relazioni interculturali fra Santa Sede e Azerbaigian con una suggestione relativa alla bellissimo affresco della Madonna con Bambino visitata da due Magi: «La tradizione vuole che i Magi fossero sacerdoti zoroastriani che venivano dalla Terra del culto del fuoco, e l’Azerbaigian è da sempre conosciuta come terra del fuoco», oltre a essere la terra di Zoroastro.

Avvenire