Anniversario don Tonino: «La verità, la coscienza e la mia Chiesa precaria»

di Tonino Bello | 20 aprile 2013
Nel ventesimo anniversario della morte del vescovo che guidò Pax Christi un suo dialogo con alcuni amici sul rapporto col potere anche nella Chiesa

 La coscienza e il potere. Conversazione con Nicola Magrone, Guglielmo Minervini e Clara Zagaria
Bello Antonio, 2013, la meridiana
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Oggi ricorrono i vent’anni dalla morte di monsignor Tonino Bello, vescovo di Molfetta, figura molto cara a tanti cattolici italiani. Vogliamo ricordarlo con una pagina tratta da un libro da poco pubblicata dalla casa editrice la Meridiana. Si intitola «La coscienza e il potere» ed è la trascrizione di un dialogo tra Tonino Bello e alcuni amici. Il passaggio che riportiamo affronta il tema quanto mai attuale del rapporto tra coscienza, verità e Chiesa intesa come istituzione.

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Nicola Magrone:

«Se mi permetti, mi chiedo e ti chiedo: che cosa può fare un vescovo, perché egli stesso non venga schiacciato dalla struttura…»

Tonino Bello:

«Mah! … che cosa può fare perché egli stesso non venga schiacciato… dare il proprio primato alla coscienza, alla sua coscienza. Illuminata dalla parola di Dio, dalla parola del Papa, degli altri vescovi, dei confratelli, dalla parola della comunità. Illuminata, sì; ma la decisione ultima spetta alla sua coscienza. La parola che dicono il Papa, la Cei, i confratelli, fa luce, ma chi vede è l’occhio. Ecco: il vescovo non deve mai rinunciare alla sua capacità di vedere. Per me, dare peso alla propria coscienza è estremamente importante; tutti dovremmo mettere questo nella nostra vita come imperativo fondamentale».

Nicola Magrone:

«Questo lo capisco, certo. Anche un boia, però, si rifà alla sua coscienza: tutto, scusami la provocazione, dipende da come ammazza, da come esegue gli ordini, da come tira la catena della ghigliottina, da come inietta il veleno…
Tu dici: tutto può essere detto, fatto, imposto e preteso a me e da me individuo dentro una istituzione purché io non vada oltre quello che la mia coscienza mi fa sentire e giudicare come limite insopportabile dell’obbedienza; d’accordo; ma io, che dentro alla tua coscienza non sto, devo pure avere qualche possibilità di constatare visibilmente che questo è. Voglio dire: nelle cose, concretamente. Don Tonino non abbandonerà mai un derelitto; Nicola non chiederà mai la condanna di un innocente; Clara non falsificherà mai un fatto che racconta; Guglielmo non discriminerà mai un alunno povero. Già; io di voi, che queste cose non farete mai, sono sicuro; credo che la vostra coscienza ve lo impedirebbe e so che la mia coscienza mi dice che faccio bene a crederci. Ma tutto questo non reclama di diventare statuto visibile da tutti? Ritorniamo al comandamento, all’origine alla quale tu riandavi poco fa? Gli statuti, i comandamenti, le istituzioni, però, non li avevamo cominciati a vedere proprio come i luoghi nei quali la coscienza dell’individuo reclama la sua libertà?»

Tonino Bello:

«Siamo alle verità inossidabili, di cui parlava Ignazio Silone; verità incoercibili sono murate all’interno della nostra natura: il rispetto dell’altro, la valorizzazione dell’altro, il rispetto della verità, il rispetto della giustizia, l’amore del prossimo. Cose proprio elementari… Secondo me questi sono i paletti catastali che recingono la zona che è proprietà comune per tutta l’umanità. L’intangibilità della vita umana, la valorizzazione dell’altro, l’accoglimento dell’altro, il perdono… le cose assurde di cui parla il Vangelo. Mi pare che proprio in una battuta tra Celestino V, Pietro Morrone e Bonifacio VIII…»

Guglielmo Minervini:

«…la coscienza e la struttura… appunto…»

Tonino Bello:

«…il monaco dice: “Noi non possiamo annacquare queste verità del Vangelo, questi paradossi; non possiamo ridurli a livello di buonsenso”. Ecco: questi paletti ci sono, sono disegnati. Allora, per tornare all’interrogativo primo: che cosa può fare un vescovo per non venire stritolato dalla struttura? Io penso: dare un grandissimo ascolto alla coscienza. Per questo parlavo prima della coscienza illuminata. È una coscienza eteronoma, non autonoma. La coscienza non è mai il parlamento dove si producono le leggi, la coscienza è il Tribunale dove c’è una legge dall’esterno che viene a fare sintesi con la mia libertà. Non si costruisce la legge all’interno della coscienza; la coscienza emette sentenze, non emette leggi. (…)

Io faccio parte di un’istituzione. Più che di un’istituzione, faccio parte della Chiesa, di questo mistero della Chiesa che è come una nebulosa che ha il suo nucleo ma anche le sue diradazioni, laddove la nebulosa si schiarisce di più, entrano tutti, anche i più lontani, anche quelli che osteggiano la Chiesa.
Voglio dire, per tornare al discorso della coscienza che per me è fondamentale: io debbo lasciarmi illuminare, debbo ascoltare quello che dicono gli altri miei compagni: di cordata, non di partito, quelli che vivono la stessa esperienza spirituale, di vita interiore. Se non ascoltassi sarei un despota, un tiranno, un uomo perverso; invece ascolto gli altri, mi lascio illuminare, ascolto l’angoscia del Papa, la tristezza anche di certe confidenze di altri vescovi. Devo ascoltare il pensiero dei cristiani se credo veramente che lo Spirito non si lascia imprigionare dalla struttura, non si lascia catturare. Noi non siamo i monopolizzatori dello Spirito Santo; ma Lui non si lascia catturare».

Nicola Magrone:

«È vero… io sono un “esperto di strutture”, professionalmente. Vedo come sono: sono terribili. Per esempio, per essere cattivi, la struttura è anche quella che non vede che in Sicilia o in Puglia per una processione come si deve pagano i ricchi, pagano i poveri, ma pagano anche i mafiosi. Eppure lì, in nome di un qualcosa di più importante, si chiudono gli occhi e si lascia fare: c’è la struttura che ha bisogno di alimentarsi, che pretende, quasi. Nelle cose, non è facile sganciarsi o liberarsi dal peso della struttura. Ho visto qui per strada, per esempio, un manifesto che diceva: “Sua Ecc. Rev. ma…”. E si parlava di te. Tu sei tutto eccellente, tranne che nel fatto che lo scrivano sul manifesto. È proprio all’incontrario: la tua eccellenza sta nel qui ed ora, nelle cose che dici e in quelle che fai. Ma la struttura perpetua, sovrappone, impone. È il problema che mi pongo…»

Tonino Bello:

«Penso che un compito forte del vescovo – per tornare all’interrogativo di prima: che cosa può fare un vescovo per non farsi schiacciare dalla struttura – è quello di indicare la precarietà della struttura, che è effimera; anche la Chiesa… è effimera, è precaria. È in funzione del Regno di Dio, per usare un linguaggio un po’ troppo teologizzato. Non deve predicare se stessa. È precaria.
È come quando si costruiscono i grandi palazzi o una grande chiesa di pietra. Accanto i muratori fanno un casotto prefabbricato dove mettono gli strumenti, dove si radunano quando piove, dove hanno le carte, i progetti, dove mettono la merenda, depositano la giacca. Ecco: quella è struttura. Una volta che è stata costruita la casa o il complesso edilizio, quel casotto viene abbattuto. La struttura è quello. La Chiesa – cattolica, apostolica, romana – è quel casotto.
E tutte le altre strutture noi dovremmo vederle in questa dimensione. Non sono l’escathon, il punto terminale, non sono lo sbocco definitivo verso cui confluisce tutto. Ecco perché la Chiesa dovrebbe essere un indice puntato non verso il proprio petto ma verso un altro, verso il Regno di Dio. Ora, percepire con chiarezza questo e avere il coraggio di predicare anche la precarietà della struttura è una grande cosa, per me. Ecco perché l’uomo che fa parte dell’apparato può essere anche molto provvidenziale nel temperare questa “pretesa di eternità”, come dice Saul».

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