Anniversari: ecco l’italiano che scoprì il Tibet

Giovanni da Pian del Carpine lo chiamò «Thabet», Marco Polo «Tebet», Odorico da Pordenone «Tibot». Solo alcuni dei nomi con cui vari viaggiatori europei, nel corso del Medio Evo (e oltre), definirono l’odierno Tibet, storpiandolo dal termine «Tobod». Terre misteriose dove si pensava che vivessero arcaiche comunità disperse di cristiani nestoriani migrati dalla Persia o si favoleggiava l’esistenza del regno del Prete Gianni, caratterizzato dalla giustizia e dalla bontà e dove governo civile e religioso coincidevano perfettamente.

«Per molte generazioni di geografi l’Asia Centrale, e il Tibet in special modo, fu la terra del mistero e dell’oscurità, isolata dalla natura e dall’uomo, nel cui centro si trovava Lhasa, perfino più misteriosa e inavvicinabile della Mecca» scriveva nel 1924 il gesuita olandese Cornelis Wessels. Solo nel 1624 Antonio de Andrade riuscì a compiere la traversata della catena himalayana; seguirono alcuni cappuccini, ma rimaneva su quei territori una grande confusione e una totale mancanza di una cartografia adeguata. Esattamente 300 anni fa, però, entrava a Lhasa, capitale del «terzo e massimo Tibet», il gesuita Ippolito Desideri, toscano (Pistoia, sua città natale, ne ricorderà la figura nel 2017, quando sarà capitale italiana della cultura), primo europeo a portare a termine l’intero percorso transhimalayano e non solo.

«Egli aveva compiuto un viaggio meritevole di rendere il suo nome famoso per sempre» dirà l’esploratore e geografo svedese Sven Hedin, sottolineando che «Desideri fu uno dei più brillanti viaggiatori che abbiano mai visitato il Tibet e, tra gli antichi, di gran lunga il più importante e il più intelligente di tutti, la cui opera è una delle migliori e più affidabili mai scritte sul Tibet». Ma gli elogi non mancano certo: l’orientalista Carlo Puini definì Desideri «primo tibetologo della storia»; Luciano Petech, profondo studioso della storia del Tibet, lo definì «una delle più lucide e profonde menti che l’Asia abbia mai visto pervenire dall’Europa, in seguito a un viaggio meraviglioso da lui intrapreso con entusiasmo giovanile, ma con completa maturità spirituale e con uno zelo apostolico quale pochi missionari mai esplicarono ».

Quanto al Dalai Lama, per lui padre Desideri è stato un «precursore del dialogo religioso. Sebbene avesse raggiunto la nostra terra come missionario, e quindi fosse intenzionato a convertire i tibetani al cristianesimo, quel suo immergersi nella cultura tibetana produsse uno straordinario primo abbozzo di dialogo interreligioso. Il gesuita studiò a fondo la filosofia e la pratica del buddhismo in un’epoca in cui il concetto stesso di dialogo interreligioso era praticamente inconcepibile». Desideri aveva 29 anni quando fu scelto dal generale della Compagnia Michele Tamburini per aprire una missione in Tibet. Era nato infatti nel 1684 a Pistoia dove aveva dimostrato, da subito, grandi doti nello studio e una fascinazione verso la missione delle Indie, maturata durante un pellegrinaggio a Loreto.

Nell’ottobre 1712, appena ordinato sacerdote, dopo esser stato ricevuto da papa Clemente XI e quindi dal granduca Cosimo III de Medici, si imbarcò a Livorno su una tartana diretto verso Genova (allora fondamentale centro logistico) per raggiungere poi Lisbona (all’epoca i missionari dovevano essere autorizzati dal re del Portogallo, gran maestro dell’Ordine di Cristo). Una navigazione pericolosissima e avventurosa sia per «la contrarietà dei venti» che per «le orribili agitazioni del mare» e le «continue tempeste » ma anche gli attacchi turchi, sempre improvvisi e cruenti. Dal Portogallo poi il balzo di cinque mesi tra Oceano Atlantico e Indiano; il 20 settembre 1713 padre Desideri giunse finalmente a Goa, la «Roma d’Oriente» importante base e colonia portoghese per il controllo della via delle spezie. Temprato dal viaggio e sempre più convinto della sua missione, padrone ormai della lingua portoghese, già il 16 novembre il ge- suita assieme al confratello Melchior dos Reys ripartì sull’ammiraglia di una flotta da guerra che salpava per combattere gli arabi di Mascat.

A causa dei conflitti che infiammavano la zona, il gruppo fu costretto a lunghe soste di cui Desideri approfittò per studiare il persiano. Aggregato quindi a una colonna di duemila soldati lungo la carovaniera del Rajastan, fatto prigioniero sotto ricatto di denaro, solo nel maggio 1714 poté arrivare a Delhi, dove attese il passaggio della stagione dei monsoni. Insomma, un viaggio lungo e pieno di pericoli tanto che Giuseppe Antonio Martinetti in una lettera al generale dell’ordine annotava che «per farvene giungere uno (in Tibet) è necessario inviarne quattro». Nel settembre 1714 Desideri iniziò il percorso himalayano, un lunghissimo giro per monti «molto aspri e ardui». Ma nelle sue memorie confessa che la pena e la fatica non era tanto data dall’attraversare le montagne, quanto «il passar così sovente un gran numero di torrenti ben afferrato alle corna d’un bue». E proprio questi attraversamenti, compiuti con abiti inadeguati al termine dei quali il corpo era esposto ai rigidi venti asiatici, gli causarono forti febbri e dissenterie che lo costrinsero a letto per quasi 9 mesi, portandolo in punto di morte.

A novembre 1714 il missionario giunse a Srinagar, capitale del Kashmir, a 1893 metri d’altitudine. Lì svernò e a maggio riprese il viaggio attraverso un selvaggio corridoio «d’altissimi e d’orridissimi monti» tra Himalaya e Karakorum. Ad agosto 1715 giunse nel primo avamposto del «terzo Tibet». Il 18 marzo 1716, come annota nei suoi scritti, dopo oltre tre anni di viaggio giunse finalmente a Lhasa, capitale del «terzo e massimo Tibet». «L’arrivo del Desideri a Lhasa segna una data memorabile nella storia degli studi tibetani perché egli fu il primo a rivelare all’occidente il Tibet, non dico nei suoi caratteri etnografici o nei suoi confini geografici, quanto piuttosto nella sua profonda e intima realtà spirituale» noterà Giuseppe Tucci, sottolineando come l’opera del gesuita «anche oggi è per profondità e chiarezza una delle più sicure esposizioni delle credenze religiose del Tibet anche per la sua larghezza di mente e per la simpatia con la quale avvicinò il popolo di cui era ospite e la sua cultura. Si abituò al loro modo di ragionare e perciò riuscì a veder chiaro e stendere quella Relazione del Tibetche per la sua profondità e diligenza resiste all’urto dei secoli e al perfezionarsi dell’indagine.

Un mirabile incontro sul Tetto del Mondo tra san Tommaso e Tsongkha-pa». Infatti il «Lama venuto dall’Occidente» (così fu definito Desideri), ricevuto da Lajang Khan, espose con chiarezza i suoi propositi missionari e s’impegnò a studiare la religione buddhista e la lingua tibetana, arrivando a scrivere in quell’idioma 5 libri. «Lo studio non fu certo semplice in quanto il Canone del Buddhismo tibetano è composto da uno sterminato numero di testi (quasi 5.000!). E quindi, le vette montane superate dal missionario possono considerarsi una metafora delle vette spirituali che fu costretto a raggiungere per confrontarsi con un sistema di pensiero completamente diverso e sino allora inesplorato», spiega Enzo Gualtiero Bargiacchi, che da anni si occupa di far conoscere la storia del gesuita a cui ha dedicato vari volumi, un documentario e un sito web, oltre che vari convegni. Nel 1719 arrivò tuttavia per Desideri l’ordine di rientrare. Dopo un tentativo per tergiversare, una decisione della Santa Sede fece chiarezza e il religioso nel 1721 fu costretto a ritirarsi in India, per poi fare rientro a Roma. «Il gesuita – continua Bargiacchi – scoprì un territorio che non sarebbe stato più attraversato da europei se non solo due secoli dopo, da una missione militare britannica».

Desideri, secondo il sinologo Giovanni Vacca, «cercò di penetrare nell’animo dei tibetani, di rendersi conto della loro vita quotidiana, dei loro sentimenti e delle loro credenze religiose; volle porsi a contatto con loro per poterli meglio stimare, amare, servire. Malgrado la sua opera sia stata troncata a metà, egli non lavorò invano. La sua vita e il suo modo di agire, pieno di bontà, benevolenza, rettitudine nel giudicare i tibetani, possono utilmente essere additati ad esempio». Resta il rammarico per il ritardo di due secoli nella pubblicazione dell’opera di Desideri, un danno immenso per gli studi orientali: se «fosse stata pienamente conosciuta fin dal ’700 – rilevò Fosco Maraini –, oggi senza dubbio parleremmo dell’autore come d’un Marco Polo, d’un Cristoforo Colombo dello spirito».

Avvenire