Ambiente e affari. Perché l’«hamburger vegetale» non è una vera scelta ecologica

Gli allevamenti intensivi di bovini per la produzione di carne rappresentano un problema ambientale (Ansa)

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Che si debba mangiare meno carne è fuori discussione. Questione di salute e di sostenibilità del pianeta, esigenza di giustizia. Nel 2015 fece scalpore l’annuncio dell’Organizzazione mondiale della sanità che includeva la carne rossa fra i fattori di rischio d’insorgenza del cancro, ma vari studi avevano già associato l’alto consumo di carne a forme tumorali del colon retto. Parimenti è ormai documentata la correlazione fra allevamento animale e cambiamenti climatici. La Fao stima che i gas serra associati all’allevamento animale ammontino a 7,1 gigatonnellate, pari al 14% di tutti i gas serra prodotti dall’agire umano. Oltre al metano emesso direttamente dai ruminanti, nel conteggio sono comprese le emissioni di anidride carbonica connesse alla produzione di soia, nonché mais e altri cereali dati in pasto agli animali. Si stima che il fra il 35 e il 40% dell’intera produzione mondiale di cereali sia destinata agli animali, una quota destinata a salire considerato che il consumo di carne è in aumento. Negli ultimi 50 anni il consumo mondiale di carne è quasi raddoppiato passando da 23 kg pro capite, nel 1961, a 43 kg di oggi.

Fino a qualche anno fa la carne era prerogativa di noi occidentali attestati da tempo su 90 kg pro capite all’anno. Se tutti gli abitanti del pianeta consumassero carne nella nostra stessa quantità, dovremmo destinare agli animali tutta la terra coltivabile e chissà se basterebbe. In barba ai 900 milioni di esseri umani affamati, che certo non fanno la fame perché noi mangiamo troppo, ma che scontano la competizione tra la nostra superalimentazione e il loro diritto al cibo nella contesa globale per le risorse scarse. Non solo la terra coltivabile, ma anche la risorsa idrica, considerato che per ottenere un chilo di carne di manzo servono 15 tonnellate d’acqua. Il tutto complicato dal fatto che la popolazione mondiale è attesa a 8,6 miliardi nel 2030, 9,8 miliardi nel 2050, addirittura 11,2 miliardi nel 2100. Il rischio di non riuscire a nutrire tutte le nuove bocche che verranno è reale se non poniamo un freno al nostro consumo di carne. Tanto più che nuovi popoli stanno facendo il loro ingresso nel club delle economie avanzate e ora che hanno qualche soldo in più per le tasche non vogliono certo rinunciare a un’alimentazione più di lusso. In particolare i cinesi che dal 1991 a oggi sono passati da 20 kg a 50 kg pro capite di carne all’anno.

La carne, si sa, è particolarmente utile in età infantile perché contiene tutti gli ingredienti proteici utili alla crescita. Ma i nutrizionisti ci informano che si può ottenere un risultato altrettanto soddisfacente anche da una dieta che combina correttamente legumi e cereali. La classica pasta e fagioli tipica della dieta mediterranea, che i medici non mancano mai di raccomandarci. Oltre che per la nostra salute, un cambio di dieta sarebbe oltre modo benefico anche per il pianeta. Uno studio condotto nel 2017 da Helen Harwatt e pubblicato sulla rivista ‘Climatic Change‘ ha mostrato, ad esempio, che se gli americani sostituissero la carne bovina con i fagioli, il Paese sarebbe vicino a raggiungere gli obiettivi di riduzione di gas serra indicati da Barack Obama per il 2020.

La notizia non è passata inosservata ad alcuni giovani rampanti americani come Ethan Brown e Patrick O. Brown, che in perfetto stile green economy hanno deciso di trasformare la sensibilità ambientale in occasione di guadagno. Al grido di ‘salviamo il pianeta senza rinunciare al piacere’, si sono buttati nella messa a punto di un hamburger vegetale che per colore, consistenza e gusto è identico a un hamburger di puro manzo. Un prodotto da non confondersi con il tofoo e il seitan, che benché comunemente definiti anch’essi ‘carne dei vegetariani’, non presentano nessuna similitudine sensoriale con la carne. L’hamburger vegetale, invece, sanguina addirittura come l’hamburger animale. Un risultato ottenuto non per magia, ma grazie alla miscelazione di ingredienti estratti da varie specie vegetali fra cui soia, funghi e frutti tropicali, sottoposti a sofisticate lavorazioni.

I primi prototipi di hamburger vegetale hanno cominciato a circolare nel 2016, ma i mass media l’hanno scoperto da poco, al Consumer Electronic Show, la fiera delle novità tecnologiche che si tiene nel gennaio di ogni anno a Las Vegas. A presentarli erano due ditte concorrenti ‘Beyond meat’ e ‘Impossibile foods’, che benché startup con pochi anni di vita alle spalle, hanno già attirato l’attenzione di miliardari del calibro di Bill Gates e di colossi della stessa industria della carne, come Cargill e Tyson Foods, che si sono affrettati a diventare loro azionisti. Del resto non deve meravigliare: l’obiettivo di ogni impresa è sopravvivere e quando appare evidente che lo scenario ambientale sta cambiando a tal punto da imporre un ripensamento della propria produzione, nessuna azienda esita a farlo fino a una totale inversione di marcia. L’importante è rimanere in piedi, come mostrano anche le imprese petrolifere che si stanno orientando verso la produzione di energia da fonti rinnovabili o le industrie automobilistiche che si stanno convertendo all’auto elettrica. È la green economy, il capitalismo verde, sempre pronto a trasformare ogni emergenza ambientale in una nuova occasione di rilancio produttivo e tecnologico. Talvolta dando risposte appropriate a bisogni irrinunciabili, altre volte alimentando bisogni fittizi in perfetta continuazione con il mito della crescita comunque, del consumismo e dell’onnipotenza tecnologica, le tre eredità illuministiche che hanno prodotto il dramma ambientale in cui ci troviamo.

Tipico l’hamburger vegetale, che lungi dal risolvere alcun problema, mostra come il lupo perda il pelo ma non il vizio. L’abitudine, cioè, dell’uomo a spadroneggiare sulla natura, fino alla tragedia o fino a coprirsi di ridicolo come quando pretende di manipolarla per ottenere prodotti complessi, costosi ed energivori mentre la natura mette a disposizione soluzioni semplici, ‘gratuite’ e senza particolare sforzo, come potrebbero essere un piatto di ceci o uno di fagioli. Ha senso compiere tutte quelle operazioni industriali per far somigliare a una polpetta di carne un prodotto vegetale per poterlo vendere? Non sarebbe più facile e produttivo per tutti cogliere le opportunità offerte dalla natura, semplicemente cambiando le nostre abitudini di consumo o riportarle a com’erano un tempo? Su questo possiamo certamente lavorare.