Alla fonte del Vangelo. Ripartire dalla «Dei Verbum»

Incipit del Vangelo di Giovanni

Uno dei documenti più importanti del concilio Vaticano II è la costituzione dogmatica Dei Verbum (Dv), primo documento ecclesiale interamente dedicato alla rivelazione divina e alla sua trasmissione. È un documento ricco di passato ma anche di futuro, perché ha disegnato le coordinate entro cui intendere la rivelazione in rapporto alla Scrittura, alla tradizione e al magistero. È stato anche un documento molto travagliato, uno degli ultimi a essere promulgato dopo una lunga e faticosa gestazione all’interno della commissione preparatoria, e lungo il dibattito conciliare. Tutto il lavoro che ha richiesto è indice delle novità che il documento ha portato all’attenzione della Chiesa intera come testimonia il testo di Serena Noceti – Roberto Repole, Commentario ai Documenti del Vaticano II vol. 5 Dei Verbum, con testi di Massimo Epis, Vincenzo Pilato, Luca Mazzinghi (Edizioni Dehoniane, Bologna 2017, pagine 315, euro 43).

L’itinerario all’interno della commissione preparatoria, che si è avvalsa di esperti del calibro di Y. Congar, H. De Lubac K. Rahner e J. Ratzinger, è stato ricostruito da Massimo Epis nella prima parte del commentario. Da questa articolata ricostruzione, si può cogliere la fatica dell’abbandono da parte dei padri conciliari di un modo di concepire la rivelazione, il suo rapporto con la storia e con il mondo che non era più adeguato ai nuovi tempi, a cui occorreva riproporre l’annuncio del Vangelo e non più la sola difesa delle persuasioni del passato. Lo sforzo principale è stato il far uscire il magistero dalle secche della contrapposizione al modernismo, ancora avvertito come vivo e pericoloso. Il clima che si era instaurato agli inizi del Novecento era segnato, a giudizio di Epis, da un’«aspra polemica» in cui «la doverosa condanna degli errori prende forma in una rigida contrapposizione, che stronca ogni possibilità di recezione delle istanze sollevate nel dibattito». Contro questo clima è indirizzata la proposta di Giovanni XXIII dell’indizione di un concilio per riaffermare il primato dell’annuncio ad gentes e della dimensione missionaria della Chiesa. Lo stesso Pontefice aveva poi raccomandato alla commissione teologica presieduta dal cardinale Ottaviani di occuparsi delle questioni relative alla sacra Scrittura e alla tradizione con particolare attenzione al tema delle fonti della rivelazione (de fontibus revelationis). E proprio su questo tema si appunterà una delle novità più importanti della costituzione dogmatica Dei Verbum che nel n. 7 precisa come la fonte della rivelazione sia una e precisamente il Cristo che ha ingiunto ai suoi discepoli e agli apostoli di predicare a tutti il Vangelo. In questo modo, commenta Di Pilato: «Il Cristo resta dunque — come si può già vedere in Dv 4 — colui nel quale “consummatur tota revelatio” e dal qual discende l’ineludibile mandato missionario di “predicare evangelium”. Viene così recuperato il termine chiave del concilio di Trento, “evangelium”, che durante i secoli dei lumi verrà sostituito nei testi teologici e magisteriali con il concetto di revelatio. È il vangelo, ovvero la persona di Gesù, il Dei Verbum (cfr. Dv 1), l’unica “fonte” (al singolare!) di ogni “veritas salutaris et disciplina morum”». Un’altra importante acquisizione è stata l’aver precisato il rapporto tra Scrittura e tradizione su cui si era divisa la cristianità occidentale agli albori della modernità. Il concilio ha affermato che la rivelazione è più ampia della sola scrittura, così come il fatto che la stessa nasce dalla predicazione e dall’attività di Gesù, trasmessa poi dagli apostoli e i loro successori a tutte le generazioni. Per questo senza voler precisare dal punto di vista quantitativo la proporzione tra le due, il concilio ha affermato che la Chiesa attinge «la sua certezza su tutte le verità rivelate non dalla sola sacra Scrittura. Perciò l’una e l’altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e con riverenza» (Dv 9). È stato, poi, precisato il delicato rapporto tra il magistero, la Scrittura e la tradizione. A fronte di una teologia che sembrava averlo posto al di sopra delle due è stato precisato come ricorda ancora Di Pilato: «Che il “magisterium non supra verbum Dei est”, ovvero non si pone al di sopra della Scrittura e della tradizione (“unum sacrum depositum”), ma ne è al servizio insieme al sensum fidelium e ai carismi (cfr. Lumen gentium 12), come fattore di “progresso” (cfr. Dv 8, 4) allo studio della sacra Pagina, anima della teologia (Dv 24)».

Nell’ultimo capitolo di Dv, le nuove persuasioni vengono applicate alla vita della Chiesa, indicando quello che Mazzinghi definisce come «il memorandum del concilio sul molto lavoro che, nell’ottica dei padri conciliari restava ancora da fare». È questa la strada che, imboccata allora, non ha cessato di generare nuove prassi e mentalità per rigenerare rispettivamente la liturgia (Dv 21), la predicazione (Dv 21), la teologia (Dv 24) e la vita dei fedeli (Dv 25) a cui, dopo secoli di tentennamenti e divieti, è stata riconsegnata autorevolmente la sacra Scrittura, affinché «tutti i fedeli cristiani», imparino «“la sublimità della conoscenza di Cristo Gesù” (Fil 3, 8) con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture infatti è ignoranza di Cristo”» (Dv 25).

di Marco Tibaldi

Osservatore Romano

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone)