Alfabetizzazione Oggi la 44ª Giornata internazionale. Dare a tutti l’alfabeto della convivenza

La Giornata internazionale dell’alfabetizzazione, istituita nel 1965 dall’Unesco, ha come tema quest’anno «Alfabetizzazione e pace». Si tratta di un’indicazione autorevole: vincere la sfida dell’istruzione, fin nei suoi primi passi, è vantaggioso non solo per chi è escluso da quella grande libertà che è poter leggere e scrivere, ma per chiunque, anche in società più sviluppate come la nostra. La strada per vincere le tensioni, sanare le contrapposizioni, prevenire la violenza, mettere fine ai conflitti, passa anche per lo sforzo di garantire a tutti l’istruzione. L’analfabetismo è una condizione non residuale.

Si calcola in 7-800 milioni, in special modo donne e bambine, il numero di chi non sa leggere e scrivere: un decimo della popolazione mondiale, cui è negato un diritto fondamentale, di cui è lesa profondamente la dignità. Una ferita aperta, che significa più arretratezza, emarginazione, povertà, caos; minore possibilità di avviare quel circolo virtuoso fatto di sviluppo, partecipazione, convivenza civile. Un caso particolare di questa fetta dell’umanità, quasi un continente, che vive il dramma dell’analfabetismo riguarda le decine di milioni di rifugiati che – al contrario di quanto una vulgata nostrana tende a dire – sono accolti da Paesi in via di sviluppo (che già fanno fatica a garantire l’istruzione ai propri cittadini).

Un recentissimo rapporto dell’agenzia Onu per i rifugiati, dal titolo ‘Invertire la rotta’, calcola quattro milioni di bambini sradicati dalla guerra o da condizioni ambientali avverse che non frequentano la scuola, una cifra accresciutasi di ben 500mila unità nel solo 2017. «L’istruzione aiuta i bambini a guarire dalle loro ferite, ma è anche la via per ricostruire i Paesi da cui fuggono», ha detto Filippo Grandi, alto commissario Onu per i Rifugiati. Sono parole che fanno eco a quelle della giovane pachistana Malala, premio Nobel per la Pace: «Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo». Riflettendo sul tema della giornata, viene da pensare a tutti coloro che creano nel mondo scuole per bambini nei campi per rifugiati: personalmente ne ho conosciute alcune in Congo e in Nord Uganda.

Posso dire che rappresentano la scommessa di ripartire dalla normalità della scuola, dalla semplicità dell’alfabeto, dell’essere insieme, dell’avere maestri buoni per porre i primi mattoni della casa del futuro, per rifondare vite che sarebbero disperse nel caos. A quei minori, che hanno presente il solo modello del miliziano armato di kalashnikov o del matrimonio precoce, si offre una nuova figura di riferimento, il maestro che apre la porta della conoscenza e delle regole del vivere insieme. Nel videomessaggio di papa Francesco per le intenzioni di preghiera di questo mese si dice: «L’Africa è un continente ricco, e la ricchezza più grande, più preziosa, sono i giovani. Preghiamo perché i giovani del continente abbiano accesso all’educazione e al lavoro nel proprio Paese». Un’intera generazione deve credere che nessuno è escluso dal domani, e che quel domani può essere nella terra in cui si è nati. Per un mondo di bambini, adolescenti, donne, rifugiati e non, l’alfabetizzazione, la scuola sono insieme la restituzione del presente e l’acquisizione di una chiave per il futuro.

Per ciascuno, però, c’è un alfabeto da recuperare, l’abc di una stagione di rispetto, collaborazione, unità in un mondo sempre più spaesato, frantumato, diviso. Abbiamo tutti bisogno di imparare l’alfabeto della convivenza. Non solo il bambino, o il rifugiato. Rispetto al «cambiamento d’epoca» di cui parla il Papa, la domanda è: come lo gestiremo senza gli strumenti per comprenderci? Senza un minimo di basi comuni? È interesse di ogni società e cultura che nelle periferie del pianeta – e ai margini del nostro centro, relativamente ricco – si faccia strada un alfabeto della cultura, dei valori, di una fraternità più larga.

Avvenire