Adolescenti e fede

settimanannews

Sembrano imprendibili. Gli adolescenti (circa da 12 a 18 anni) sfuggono alle cure educative scolastiche come a quelle ecclesiali. Non è difficile incontrare genitori esasperati dalle loro sfide. Eppure è una stagione decisiva dove fioriscono le possibilità, anche in ordine alla fede. Il n. 12 (2018) di Documents episcopat, edito dalla segreteria della Conferenza episcopale francese indica attraverso una decina di brevi saggi le sfide maggiori dell’età: educative, missionarie ed ecclesiali.

Trascinati dai tumultuosi cambiamenti del corpo, della mente e della coscienza i ragazzi sono costretti a rispondere alla perenne domanda «Chi sono io?» in un contesto in cui la norma sociale sembra scomparsa, mentre si moltiplicano le ingiunzioni (vestiti, linguaggi, musica ecc.) e diventa martellante l’imperativo all’autonomia.

Riconoscere il bene, apprendere a scegliere, vivere in relazione: sono le sfide educative maggiori.

Digitali e gaudenti

Lo spazio numerico e il gioco sessuale sembrano le caratteristiche più intriganti della nuove generazioni. I «nativi digitali» (definizione peraltro assai discussa) vivono lo spazio numerico come obbligatorio. Le loro capacità sono frutto di apprendimento nell’imitazione. Diventano digitali, non nascono tali. Ne assumono gli imperativi: «immediatezza, illimitatezza e continuità rappresentano i tre piloni del digitale».

L’essere sempre connesso non è solo un compito ma uno spazio di personalità che si aggiunge all’«Es – Ego – SuperEgo» della tradizione freudiana. Così vengono identificati i punti che caratterizzano i «ragazzi mutanti»:

– i “mutanti” non sono più psicosocietariamente sagomati per integrare l’autorità di tipo paterno;

– non sono più psicosocietariamente sagomati per integrare i modi di apprendimento fondati sulla “sottomissione” al sapere di un maestro;

– non imparano il rispetto se non a partire dal rispetto che è loro accordato;

– apprendono da noi (adulti) da ciò che ci vedono fare e non da ciò che ordiniamo loro di fare;

– conversazioni e negoziazioni “egualitarie” diventano gli strumenti privilegiati del co-sviluppo nostro e dei nostri ragazzi». La frattura generazionale manifesta spesso più la paura degli adulti che la reale situazione degli adolescenti.

Nei confronti della sessualità la sfida che essi affrontano è quella di riconoscere lo statuto del corpo, l’unità della loro persona e il senso dei gesti e degli atti. Si tratta di un orizzonte antropologico rispetto a cui le liste normative risultano incomprensibili.

Il sesso è vissuto anzitutto come un puro gioco di piacere, sottomesso all’unica regola del consenso. Una vertigine immediata senza durata e senza impegno. La paratia del genere diventa fluida e, al di là delle infinite discussioni della teoria di genere, essa condiziona la vita affettiva e sessuale degli adolescenti, trascinati dai modelli loro proposti dalla cultura mediatica.

La sessualità tende e diventare il gioco dei possibili e si espande sull’onda di desideri molteplici e fluttuanti. L’atto sessuale si riduce ad esperienza, anche quando è di tipo omosessuale o bisessuale.

I modelli di conformità sono, da un lato, quelli della pubblicità e, dall’altro, quelli della pornografia, che «è la principale fonte d’informazione e di formazione in materia sessuale per gli adolescenti».

Ma proprio il rapporto meccanico e disconnesso dall’emozione trasmesso dalla pornografia rilancia l’esigenza, assai viva nei ragazzi, dell’unità della loro persona e del pericolo di una intima dissociazione quando il corpo, proprio e altrui, è ridotto a strumento. Da qui nasce una presa di coscienza non solo della propria unità di persona, ma anche di un dono di sé libero e responsabile. Il controllo dei gesti non è più castrazione, seppur raggiunto attraverso prove ed errori.

Si apre così una nuova confidenza con l’adulto, chiamato ad accompagnare e a non forzare le tappe. Fino alla scoperta dell’interiorità che abita il corpo, al silenzio meditativo che alimenta la persona, alla capacità di stare con se stessi nel dono ad altri.

L’«io» e il «credo»

Il percorso catecumenale sembra quello più adatto ad accompagnare la formazione di fede nei ragazzi. A partire dalla loro consapevolezza di vedere morire il bambino che è in loro a favore di un nuovo adulto, percezione che si avvicina al compito del cristiano di lasciare morire l’uomo vecchio per una nuova vita. Al momento della crescita il bambino che diventa adolescente impara a pensare da solo, ad agire per propria volontà, ad essere un «io» di fronte agli altri.

Il percorso catecumenale trasforma similmente un simpatizzante della Chiesa in una persona che è in grado di dire «io credo». Così i piccoli gesti di emancipazione si possono collocare accanto al rito di passaggio della cresima. Un cammino da fare in gruppo e dentro le relazioni che si istaurano con i leader di fatto e quelli proposti dagli adulti. A questi ultimi compete in particolare il delicato compito dell’accompagnamento. Esso conosce la pazienza della crescita, la scansione delle tappe, la dimensione relazionale e sociale.

«Accompagnare un bambino, un adolescente sul cammino di fede, significa sforzarsi di creare le condizioni di un incontro con Cristo, è la proposta di partire alla sequela di Cristo in un cammino che gli sia proprio. Insomma, si tratta di aiutarlo a udire l’appello del Cristo dentro la sua vita,  a scoprire la vocazione che gli è propria e a rispondervi».

Le piccole decisioni alla loro portata hanno l’effetto di strutturare e rilanciare energie per passi ulteriori. È camminando che si impara a camminare, permettendo di intuire il filo rosso dello Spirito che attraversa le singole decisioni. L’appello vocazionale è del tutto funzionale alla costruzione dell’identità personale.

L’insieme della comunità cristiana e i singoli educatori sono chiamati a vivere la relazione educativa all’insegna di tre gesti fondamentali: «io credo in te», «io spero con te», «ti amo alla maniera in cui Cristo ti ama». Sapendo che sempre meno saranno i ragazzi che vengono alla Chiesa e sarà necessario raggiungerli nei luoghi che loro frequentano.

Un insegnamento “dall’alto” non funziona più. «I giovani vogliono essere attori delle loro scoperte, apprendono meglio se sono interattivi con quanto proponiamo loro. Entrare nei loro modi di funzionamento, utilizzare i loro strumenti mediali, non può che aiutarci  a entrare in una dinamica nuova dell’annuncio con gli strumenti del nostro tempo».

La messa e i riti

E la messa? «Troppo lunga, sempre la stessa cosa, sempre lo stesso che parla», «Bella negli incontri con gli altri, ma la domenica senza gli amici è noiosa», «Non si capisce niente delle parole del prete e dei lettori… persino in classe si possono fare domande», «Andarci coi genitori è banale e poi ci sono solo vecchi»: l’asprezza adolescenziale delle affermazioni (alcune del tutto condivise anche dagli adulti) non nasconde la sfida esplosiva contenuta nel rito, di un mistero che si svolge davanti e con noi, che decentra la vita, che interrompe forzosamente i nostri tempi, che ci obbliga all’interiorità.

Non è facile per l’adolescente capire lo scarto fra la turbolenza interiore prodotta dal rito e il suo aspetto immutabile. «Penso che la messa faccia problema perché è fonte di angoscia per molti adolescenti e adulti che hanno sempre meno l’abitudine al silenzio e alla gestione delle frustrazioni». «Dobbiamo riconoscere la scomodità rappresentata dalla messa e come essa richieda delicatezza e accompagnamento da parte nostra».

Due le piste proposte: il rito e la partecipazione della famiglia. La ritualità è necessaria a tutti e vivere l’eucaristia con la famiglia o con gli educatori è l’unico mezzo per renderla feconda ai ragazzi.

Documents episcopat propone nella seconda parte della rivista una serie di esperienze pratiche di associazioni e di movimenti che sono propri della tradizione francese come il lavoro nelle scuole cattoliche e nelle cappellanie scolastiche, l’azione educativa delle nuove comunità, i pellegrinaggi giovanili e l’esperienza delle «chiese dei giovani». Ve ne sono altri, come lo scoutismo e l’associazionismo cattolico, che valgono anche nel contesto italiano.

Mi limito ad evidenziare il ruolo di Taizé che è qui ricondotto alla sua introduzione alla preghiera. «Tre dimensioni della preghiera a Taizé sembrano fare eco alla ricerca dei giovani: una preghiera accessibile, una preghiera meditativa, una preghiera del cuore».

La preghiera della comunità aperta a tutti è stata progressivamente smagrita e limata per accogliere l’attenzione più estesa possibile. Il canto su testi brevi della Scrittura in forma responsoriale e ripetitiva facilita la meditazione. «Attraverso il canto, il silenzio, i giovani si scoprono capaci di un cuore nuovo, di un cuore semplice nel senso etimologico della parola, di un cuore contrito».