Accanto a chi non crede. Una teologia inclusiva

Cinque anni fa moriva padre Michael Paul Gallagher, professore di teologia fondamentale alla Gregoriana

Come definirla e definirsi dinanzi alla non-credenza? La storia della teologia cattolica presenta dei tentativi di risposta che, elaborati nel tempo, hanno cercato di comprendere il fenomeno sia ad intra che ad extra dell’ambito ecclesiale. Nel solco della tradizione gesuitica ad esempio, non sono mancati teologi che ne hanno promosso un confronto vivace, talvolta anche costruttivo. Ciò appare manifesto spaziando dalle opere del fiammingo Lenaert Leys, meglio noto col nome di Lessius, che in Rawleigh: His Ghost del 1631, identificando come atei «classici» alcuni filosofi dell’Antichità — si trattava per lo più di atomisti, sofisti e scettici — affronta l’ateismo come problema filosofico e non teologico o religioso; a quelle del tedesco Karl Rahner che, nella seconda metà del Novecento, redige pagine di grande acume, facendo della comprensione della non-credenza una delle passioni centrali della propria teologia pur ammettendo, a differenza di Lessius, l’insufficienza della sola prospettiva filosofica.

In questo variegato patrimonio di riflessione si inserisce, tra i secoli XX e XXI, la figura di Michael Paul Gallagher (1939-2015), letterato e teologo irlandese, gesuita dai modi affabili, che ha fatto della propria vita un dialogo costante con persone lontane dalla fede — atee, agnostiche, diversamente credenti — dedicando al tema della non-credenza un consistente corpus di scritti, molti dei quali sono stati tradotti in italiano: Help my UnbeliefFree to BelieveStruggles of FaithClashing SymbolsQuestions of FaithFaith Maps. L’insieme di queste opere, senza dimenticare i numerosi articoli specialistici, testimonia la sua sensibilità profonda nei riguardi del vissuto interiore di coloro che non credono in Dio, che non sperimentano la libertà necessaria per giungere alla scoperta dell’Altro e che, cosa ancora più importante, rifiutano il messaggio di liberazione e di vita contenuto nel Vangelo, espresso dalla persona di Gesù Cristo.

In Gallagher, finanche negli anni più difficili della malattia (aveva lottato tre volte contro un tumore) e negli ultimi mesi di vita, l’attività accademica e il ministero sacerdotale sono dedicati alla ricerca di una relazione personale, unitamente a un dialogo, con i non-credenti. In quest’ottica, la stessa riflessione teologica sulla non-credenza è intesa come connessa a una teologia del dialogo, per la quale quest’ultimo rappresenta uno strumento di ancoraggio alla realtà, di scoperta della ricchezza derivante dal confronto interumano e di aiuto nel vivere maggiormente le proprie convinzioni. Una tale sensibilità è frutto di una crescita umana e intellettuale pervenuta in seguito, nel periodo della maturazione, a sistematizzazioni che, pur conservando una loro peculiarità, rivelano una continuità culturale almeno su tre livelli. Da una parte il pensiero di Gallagher per quanto attiene alla non-credenza risente senza ombra di dubbio soprattutto, sebbene in via non esclusiva, dell’influsso del pensiero newmaniano, dall’altra è possibile rilevarne una continuità con determinati orientamenti rahneriani e con alcuni approcci metodologici lonerganiani. Se è vero poi che ogni teologia è contestuale, inglobando nella categoria di contesto oltre che le esperienze di vita anche l’insieme delle influenze di pensiero, si può affermare che le prospettive teologiche di Gallagher sulla non-credenza risentano di un intreccio tra vissuto e riflessione, tra vita ordinaria ed elaborazione teorica.

Difatti, nato e cresciuto in Irlanda, una nazione all’epoca ancora ben radicata nel cattolicesimo-romano, Gallagher conosce l’ateismo agli inizi degli anni Sessanta, quando da ventunenne studente di letteratura frequenta un anno di scambio accademico presso l’Università di Caen. L’esperienza francese, nel mezzo di una società e di una cultura profondamente secolarizzate, non rappresenta tuttavia per lui uno choc. Al contrario, essa determina un cambiamento spirituale e intellettuale nella sua comprensione della vita credente, nonché del cristianesimo stesso, allora letti in chiave «puritana e monastica», come egli stesso ebbe a scrivere. I contatti con studenti, amici e conoscenti agnostici lo aiutano non solo a scoprire nuovi sentieri di annuncio evangelico, ma anche a maturare una consapevolezza della complessità del reale e di appartenenza, in quanto uomo e credente, al mondo. Grazie al periodo francese, il teologo gesuita individua gli impedimenti più grandi alla fede in Dio sul piano della libertà spirituale piuttosto che su quello della concettualizzazione della verità.

Questa apertura di spirito di fronte alle sfide del mondo lo conduce a intraprendere, tra gli anni Settanta e Ottanta, due esperienze che segnano ulteriormente la sua percezione dell’esistenza cristiana e della non-credenza.

Soggiorni in India e in America Latina, nella quotidianità condivisa con i malati, i poveri, gli emarginati e coloro la cui dignità era stata violata e calpestata, lo aiutano nella crescita interiore e a sviluppare due nuove visioni. Riguardo alla fede, Gallagher prende coscienza della carica liberatrice, trasformatrice della storia umana, esercitata dal Cristianesimo: più che opium populi, secondo l’adagio del marxismo ateo, la fede cristiana gli si presenta inequivocabilmente come salus populi. Circa la non-credenza, egli matura invece la convinzione che la fede in Dio possa essere ostacolata più dallo stile di vita credente che da modelli di pensiero o da ideologie politiche: è la testimonianza esemplare da parte del credente che determina l’apertura alla proposta di fede. In questo senso, secondo Gallagher, la fede non propone un rifiuto della ragione oppure una fuga dalle responsabilità civili, ma responsabilizza l’uomo rendendolo consapevole e libero. Più precisamente, Gallagher sperimenta la fede in Dio quale verità che abbraccia e trasforma la libertà umana.

Negli oltre quarant’anni di docenza universitaria, emerge tuttavia in lui una nuova intuizione, questa volta di carattere più marcatamente teologico. Durante l’insegnamento (prima quello della letteratura a Dublino, poi della teologia fondamentale a Roma), il teologo irlandese interroga il vuoto spirituale — di cui peraltro coglie l’essenza culturale — che rende irreale Dio, superflue le domande di senso e la religione, in un Occidente secolarizzato e tecnocratico ormai quasi del tutto privo di riferimenti alla trascendenza.

Dal suo punto di vista, comprendere la crisi della fede nelle società contemporanee necessita così di un’analisi accurata, specialmente nella prospettiva della storia della cultura, del contesto nel quale precisi orientamenti della non-credenza nascono ed evolvono. In altre parole, in quanto attento conoscitore della Kulturwissenschaft, Gallagher è convinto che il contesto culturale della non-credenza richieda un attento studio delle dinamiche storiche insieme con un discernimento degli aspetti costitutivi dei vari indirizzi di pensiero: è qui in gioco la considerazione della dialettica tra Cristianesimo e modernità. Una modernità che egli riconosce attraversata da una serie di trasformazioni di natura cosmologica, antropologica e filosofica, le quali hanno inciso notevolmente sulla visione cristiana della realtà, in particolare sulla sua teorizzazione dei rapporti tra Dio, l’universo e l’uomo. Schematizzando al massimo il giudizio del teologo irlandese, egli vede un nesso causale tra la rivoluzione culturale moderna e l’affermarsi della non-credenza. Partendo da uno studio sul tema del rifiuto di Dio (prima dal punto di vista filosofico-politico nel secolo XVIII, poi da quello scientifico ed esistenziale nei secoli XIX e XX), Gallagher giunge a considerare l’ateismo in una dimensione che supera la semplice negazione intellettuale dell’esistenza di Dio. Egli legge l’ateismo come problema dell’interiorità della persona, vedendolo radicato da un lato in atteggiamenti spiritualmente limitati e limitanti (superstizione, superficialità, superbia, sfiducia, sospetto, etc.), dall’altro in reazioni spirituali (quindi al di là della dimensione meramente psicologica) di fronte allo scandalo del male e al nonsenso della sofferenza.

Appare chiaro che la non-credenza di cui tratta Gallagher non è rappresentata dalla corrente contemporanea denominata «Nuovo ateismo», verso cui ha sempre avuto parole di critica severa e di ironia decostruttiva, condannandone lo scientismo fondamentalista, l’odio ideologico verso le tradizioni religiose (intese quali fonti di irrazionalità e di violenza), la banalizzazione dell’idea di Dio. Assieme a questa forma di non-credenza futile, fondata sul dogmatismo scientista, il teologo gesuita ne denuncia con vigore un’altra che suole definire «da mercato», vale a dire una non-credenza superficiale e non pensata. Dunque è a un ateismo militante, pensato e consapevole della tragica scomparsa di Dio dall’orizzonte assiologico del mondo moderno, che Gallagher riserva le considerazioni più acute. Da un’angolatura filosofica, nella sentenza nietzschiana «Dio è morto» — contenuta nella Die fröhliche Wissenschaft —, il teologo irlandese scorge sia il grido di protesta contro le forme banali di non-credenza sia la constatazione del definitivo tramonto dei valori trascendenti sui quali si è fondata la civiltà occidentale.

Partendo da siffatti presupposti, Gallagher procede individuando delle categorie di definizione dell’ateismo funzionali alla successiva elaborazione delle sue risposte sotto il profilo teologico.

Quanto alle definizioni egli distingue tre tipologie di ateismo: filosofico, teologico e culturale. Se l’ateismo filosofico è di ordine gnoseologico, poiché fondato sulla negazione teorica dell’esistenza di Dio, quello teologico è di tipo relazionale, in quanto consiste nella mancanza di un riconoscimento, e pertanto di un’apertura fiduciosa dell’io umano al Tu (divino) della Rivelazione. L’ateismo culturale è invece rappresentato da un’ostilità nei confronti dell’immaginazione umana, ovvero della facoltà che permette di cogliere la presenza di Dio nella vita, attraverso la luce della fede. Ciò che accomuna queste definizioni nel loro insieme è la convinzione gallagheriana che la fede in Dio non possa in nessun caso essere ridotta a una teoria più o meno raffinata — da affermare o da confutare — sulla causa originaria del tutto.

Quanto alle risposte che possono scaturire da una riflessione teologica sull’ateismo, esse consistono essenzialmente, secondo il gesuita, nella testimonianza e nell’impegno culturale.

Sul piano della testimonianza, Gallagher sostiene che la fede possa essere vissuta in modo autentico incarnando il Vangelo nel servizio al prossimo. Il legame tra annuncio e stile di vita permette la riscoperta della fede in quanto esperienza profonda, capace di coinvolgere l’essere umano con tutte le sue facoltà. Coltivare la dimensione spirituale si rivela determinante per raggiungere quanti, lontani dalla fede e immersi in una non-credenza priva di convinzione, avvertono un vuoto interiore e un desiderio di trascendenza. Nonostante le fragilità che la condizione umana comporta, il credente può così manifestare l’apertura alla meraviglia dell’esistenza nella relazione con il prossimo e con Dio.

In ambito culturale, le prospettive teologiche di Gallagher invitano a valutare in senso positivo gli interrogativi derivanti dal confronto con la non-credenza, accogliendone persino le sfide. La non-credenza, alla luce della sua riflessione teologica, può rappresentare per il credente un’occasione e uno stimolo alla purificazione del proprio modo di credere, di pensare e di appartenere alla comunità ecclesiale, e una sollecitazione, per l’intelligenza credente, a interrogarsi sul significato dell’esistenza e ad ascoltare le domande che scaturiscono dal cuore umano, certamente condivise da credenti e non credenti.

Quello che emerge conclusivamente nella riflessione di Gallagher, dinanzi alla negazione moderna e contemporanea di Dio, è una vera e propria cogitatio teologica, nella quale l’esistenza di Dio non è una problematica astratta ma un’esperienza di vita. Al non-credente, che intende la fede come pura astrazione irreale e disincarnata, artificio superstizioso oppure forma di menomazione del pensiero, il teologo irlandese presenta con semplicità la fede quale viaggio libero e condiviso, alla ricerca di un Dio sapiente e amorevole, «dal volto umano».

di Gabriele Palasciano – osservatoreromano.va