A settant’anni dalla morte di Edith Stein

Come un angelo consolatore

di Fernando Cancelli

“Numero 44074, Edith Thérèse Hedwig Stein, nata il 12 ottobre 1891 a Breslau, proveniente da Echt, morta il 9 agosto 1942”. Una nota della gazzetta ufficiale olandese del 16 febbraio 1950 registra i nomi degli ebrei deportati dai Paesi Bassi il 7 agosto 1942 e ci riporta ai tragici avvenimenti che si svolsero nel caldo di quell’estate di settant’anni fa.
L’arresto, con la sorella Rosa, al carmelo di Echt alle 17 del 2 agosto, il vento carico di sabbia che soffia sulla disperazione di Westerbork, i soffocanti vagoni merci sigillati diretti a est, la massa di persone angosciate, sfinite, perdute verso una meta ignota e senza ritorno, infine la pianura mortale e in quel periodo afosa di Auschwitz: il tutto si svolse per santa Teresa Benedetta della Croce e per i suoi compagni di deportazione in sette giorni. A un uomo che condivideva la sua stessa sorte nel campo di transito olandese non sfuggì quella carmelitana che “andava tra le donne come un angelo consolatore, calmando le une, curando le altre”, occupandosi dei bambini le cui madri spesso “sembravano cadute in una sorta di prostrazione vicina alla follia”: lavandoli, pettinandoli, cercando di procurare loro il cibo.
“Più un’epoca è immersa nella notte del peccato e dell’allontanamento da Dio, più grande sarà il suo bisogno di anime unite a Dio, e d’altra parte Dio non le lascia certo mancare. Dalla notte più oscura – scriveva Edith Stein nel 1939 – sorgono le più grandi figure di profeti e di santi. Ma la corrente della vita mistica che forgia le anime resta in gran parte invisibile. Alcune anime delle quali nessun libro di storia fa menzione hanno un’influenza determinante nei tornanti decisivi della storia universale (…) e della nostra vita personale”.
Edith era nata nel giorno dello Yom Kippur, e morì in prossimità del 9 di Av secondo il calendario ebraico, cioè nel digiuno del Ticha be-Av che ricorda la distruzione del Tempio di Gerusalemme: tutta la vita cristiana di santa Teresa Benedetta della Croce è saldamente ancorata alle sue radici ebraiche, quasi ritmata dalla liturgia ebraica, come ha sottolineato il carmelitano Didier-Marie Golay. “Ella ha amato la sua doppia appartenenza, anche se questo sconcerta i cristiani e gli ebrei. Che una cristiana muoia da ebrea non è parso a qualcuno più scioccante del fatto che un’ebrea abbia vissuto da cristiana” ha scritto il gesuita Xavier Tilliette.
Eppure la vocazione carmelitana affonda le proprie radici nella terra rossa di un monte di Israele: come “tenersi di fronte al volto del Dio vivente”, ci ricorda questa martire, rinnegando le nostre origini? Ebrei e cristiani, in quei terribili giorni di settant’anni fa, pativano insieme anche l’angoscia dell’apparente silenzio di Dio.
“Si sono così spesso sentite in questi ultimi mesi – scriveva coraggiosamente Edith Stein – persone lamentarsi del fatto che le numerose preghiere per la pace non abbiano ancora avuto alcun effetto. Ma che diritto abbiamo di essere esauditi? Il nostro desiderio di pace è sicuramente autentico e giusto. Ma viene da un cuore completamente purificato? Avremo noi veramente pregato (…) unicamente per onorare il Padre e senza alcuna ricerca di sé?”. E poco dopo concludeva: “Il giorno in cui avremo lasciato a Dio ogni potere sul nostro cuore anche noi avremo ogni potere sul suo”. Sarà il giorno in cui, giunti magari faticosamente alla sommità del monte Carmelo, riconosceremo dentro di noi con gratitudine una parte della fede di Mosé e di Elia.

(©L’Osservatore Romano 9 agosto 2012)