A proposito della condizione delle donne nella Chiesa. E di cultura. Una questione femminile (e non clericalizzata)

Avvenire

(Maurizio Gronchi) Oggi, da più parti si leva la voce delle donne nella Chiesa. S’invoca maggior responsabilità negli spazi in cui si prendono decisioni, dal momento che la partecipazione attiva di religiose, consacrate e laiche, specialmente in territori di missione, è di grande rilievo. Non solo: nella vita ordinaria delle parrocchie, le donne sono ancora la maggioranza. Senza poi considerare la cura della trasmissione della fede all’interno delle famiglie. Insomma, le donne nella Chiesa hanno un ruolo di fatto, ma non altrettanto di diritto, specie quando si tratta delle cosiddette funzioni “ministeriali”, almeno intese in modo formale e istituito.Al di là delle rivendicazioni ideologiche della parità di ruolo, che sconfinano nella tentazione di clericalizzare la condizione femminile, la questione riveste un’indubbia attualità e urgenza. Più che occupare spazi, si tratta di iniziare processi – come suggerisce papa Francesco. Di uno di questi processi vogliamo occuparci, seppur brevemente. Cominciamo dalle religiose, che sono quelle più istituzionalizzate, per così dire, in quanto consacrate in modo specifico e totale al servizio del Vangelo. Il loro peso effettivo è evidente per chiunque abbia frequentato un asilo, una scuola, un ospedale, come a chi sia stato in terre di missione, nelle parti più povere e sperdute del pianeta. La cura dei piccoli, dei poveri, dei malati, dei più vulnerabili è nel cuore e nelle mani di schiere di donne umili, generose e sorridenti, che nulla chiedono e tutto donano, spendendo la vita senza clamore. Ma qui non vogliamo parlare di queste donne straordinarie, che nel servizio del Vangelo hanno trovato la pienezza di vita. Pensiamo invece a tutte quelle che vivono con frustrazione la condizione vita che hanno scelto, e non danno a vedere il proprio disagio a motivo dell’obbedienza e dello spirito di sacrificio che le anima, ma che non sempre basta a sostenerle. Di solito, una giovane entra in convento con la piena disponibilità a servire il Signore senza condizioni, affidandosi a formatrici e superiore che hanno il compito di discernere per quale servizio la ragazza sarà più adatta. Molto spesso, però, capita che prevalgano le esigenze della casa, della comunità religiosa, dei vuoti da colmare per carenza di suore, di attività già strutturate che hanno bisogno di ricambio. Più di rado avviene che si proceda, nel discernimento, dalla valorizzazione dei doni che quella giovane ha coltivato in precedenza, e porta con sé nella vita religiosa, tali da arricchire e rinnovare la comunità stessa. Anche se la postulante o novizia non chiede nulla, perché disposta a lasciare tutto, di fatto avviene un salto tra il prima e il dopo, che non può essere soltanto motivato con l’obbedienza e la nuova vita, ma che in realtà corrisponde alle esigenze concrete della comunità. Tanto più che nella professione religiosa, un domani, verrà richiamata la originaria vocazione battesimale, sulla quale fruttifica la vita consacrata. Come allora concepire continuità (con la vita dal battesimo in poi) e novità (della vita religiosa)? Quale armonia stabilire tra la verità del cammino fatto in precedenza e la radicalità della risposta a questa chiamata? Infatti, può capitare che una ragazza laureata e già avviata professionalmente si trovi a svolgere mansioni molto diverse, senza dubbio utili a lei e alla comunità. Ma come evitare l’intima frustrazione di veder inutilizzati doni che potrebbero portare frutto a vantaggio di tutte le sorelle? Questo è solo un esempio, che però apre la strada a una riflessione di carattere pratico, oltre che di visione generale sulla vita consacrata. Si tratta della formazione culturale delle religiose. Per quale ragione, anche negli istituti a vocazione sanitaria, generalmente le suore studiano da infermiere e non da medico? Perché, quando si tratta di frequentare un’università pontificia, ci si limita a un piano di studi ridotto o a conseguire una licenza in materie non troppo impegnative? Sono solo domande che partono dalla considerazione dei fatti. Si potrà ovviamente rispondere che non è sempre così, certo. Ma, se oltre ad apprezzare il cuore e a impiegare le braccia delle religiose, non si comincia anche a valorizzare la loro mente e il loro pensiero, sarà difficile ascoltare la voce delle donne nella Chiesa. Proprio a partire da quelle che hanno scelto di donare tutto, ma che sembra una parte di loro faccia paura proprio a chi le accoglie. E, almeno in questo caso, non si tratta di uomini.
P. Maurizio Gronchi – Teologo, Pontificia Università Urbaniana