A 29 anni dal delitto, causa di beatificazione. Rosario Livatino, martire di giustizia

Caro direttore,

«I giovani lo raggiunsero e gli spararono. Un attimo prima di morire, quando i giovani gli si avvicinarono, gli chiese: ‘Che cosa vi ho fatto?’. Ma ormai la macchina della morte stava per giungere», così moriva, il 21 settembre 1990, Rosario Angelo Livatino, giudice a latere al Tribunale di Agrigento. Il racconto dei suoi ultimi istanti di vita, con il disperato tentativo di sfuggire agli assassini che lo tallonavano e lo uccisero, è nella confessione di uno dei killer, poi pentitosi, del gruppo di fuoco della Stidda. Un’esecuzione spietata, con la quale si consumò quello che a molti apparve da subito un martirio consumato in odio alla giustizia e alla fede incarnati in quel giovane magistrato, indifeso di fronte alle pistole, ma forte e saldo nei suoi convincimenti morali ed etici, improntati alla fede in Cristo.

Che Livatino fosse un cristiano tutto d’un pezzo è fuor di dubbio. Nella sua agenda del 1978, ad esempio, si legge un’invocazione che suona come consacrazione di una vita intera: «Ho prestato giuramento: sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige». E nel 1986, nel corso di una conferenza tenuta a Canicattì, eccolo specificare il rapporto tra fede e giustizia: «La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge».

Dunque Livatino era un giudice per il quale la ricerca e l’applicazione della giustizia non potevano essere disgiunte dalla fede. E pure per questo, probabilmente, fu ammazzato. Ultimata la fase diocesana, si è aperta quella Vaticana per la beatificazione. Sono ancora molte le questioni da chiarire. Le tante testimonianze già raccolte aiutano a definirne la figura e il bagaglio culturale e spirituale e il pentimento dei suoi aguzzini ne conferma il carisma. Però va ulteriormente indagato il contesto in cui l’omicidio maturò, per provare, oltre ogni possibile dubbio, quanto l’odiumfidei fosse radicato nei mandanti e in qualche modo determinò l’eliminazione violenta dell’uomo che già san Giovanni Paolo II, in maniera indiretta, incluse nella categoria dei nuovi martiri, il 9 maggio del 1993, nel giorno che sarebbe passato alla storia come quello dell’anatema contro i mafiosi.

Prima di raggiungere la Valle dei Templi, il Pontefice si fermò in visita agli anziani genitori del giovane giudice. Un incontro di pochi minuti, dal quale scaturì il grido che scosse le coscienze, quel «Convertitevi!» che segnò uno spartiacque nella considerazione del fenomeno mafioso sotto il profilo sociale, culturale e soprattutto ecclesiale. Le parole del Santo Padre hanno segnato l’inizio di un’epoca nuova nel cui cielo brilla la figura di Livatino, che ventinove anni dopo ricorda ai cristiani e non solo a essi, quale sia il vero approdo cui tendere: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».

da Avvenire