Pastorale / Negli anni ho visto ‘cestinare’ numerosi percorsi di pastorale giovanile in nome di un sentimentalismo che in realtà non credo corrisponda al “cuore” di cui parlano il Papa e il suo Vicario

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Con quattro incontri settembrini nella Cattedrale romana di San Giovanni in Laterano, il Cardinal Vicario Angelo De Donatis ha presentato alla comunità ecclesiale le linee guida pastorali che a giugno erano state esposte ai parroci. Ciascun incontro è stato dedicato ad un gruppo di operatori: il primo alle neonate équipe pastorali, poi agli operatori di pastorale giovanile, quindi a quelli di pastorale familiare e infine agli operatori di assistenza ai poveri. Un’organizzazione molto accurata, per rivolgere un chiaro appello alla città: le comunità devono aprirsi all’ascolto del grido proveniente dal territorio.

Personalmente ho assistito il 18 settembre all’incontro dedicato agli operatori di pastorale giovanile e agli insegnanti di religione. Mi aspettavo una sorta di laboratorio di idee e buone pratiche, invece l’incontro era stato organizzato come una grande celebrazione, molto strutturata e certo importante per aprire il cuore all’ascolto dell’azione dello Spirito, ma con poco spazio dedicato all’ascolto di noi operatori. Una decina di minuti per far emergere nei sottogruppi di lavoro alcuni ottimi spunti, ma senza prevedere che qualcuno li raccogliesse o li verbalizzasse.

Seguendo l’indicazione finale del Cardinal Vicario ho approfondito, poi, i documenti del convegno (prodotti tra maggio e settembre) e mi sono reso conto che esprimono un bisogno di cambiamento radicale, che riparta dalle stesse basi della relazione umana e ristrutturi completamente, per i prossimi sette anni, il lavoro pastorale fin qui svolto nelle varie realtà parrocchiali. Quelli di noi che già lavoravano in questa direzione attendevano una simile prospettiva, tuttavia da quanto detto finora traspaiono numerose criticità, che rischiano di essere più sostanziali di quanto possa sembrare e quindi di vanificare, pur senza volerlo, quel lavoro che alcuni di noi già portavano avanti da tempo.

L’ascolto. Un anno fa il prof. Mario Pollo, in collaborazione con l’Area Pace e Mondialità della Caritas diocesana, aveva avviato un programma di monitoraggio capillare dei giovani di Roma. Era accuratamente suddiviso per età e coinvolgeva operatori di una rete di enti (parrocchie, scuole e associazioni) diffusi in tutta la città. Le interviste ai ragazzi si concentravano su temi esistenziali, come la famiglia, le radici, la progettualità, le relazioni, ecc. Tutti elementi essenziali per il lavoro che la Diocesi intende intraprendere. È stato un lavoro complesso ed accurato, con incontri stimolanti e partecipati, poiché i ragazzi hanno risposto con entusiasmo. Tuttavia il progetto si è interrotto per mancanza di ulteriori indicazioni e infatti non ha avuto alcun riscontro nei documenti del convegno. Eppure l’urgenza di una “mappatura del territorio” da avviare a gennaio viene espressa chiaramente dalla Diocesi. Ho la sensazione che, come spesso accade, la mano destra si muova ignorando ciò che fa la sinistra e la tanto auspicata “comunione nella ricchezza delle espressioni e delle sensibilità” sia in realtà stata involontariamente applicata al rovescio, trascurando quei pochi tentativi che erano già in opera. La necessità di trasformazione radicale non ci fa forse correre il rischio di vanificare gli sforzi sin qui compiuti (dagli educatori e, per quanto ho potuto sentire, dagli insegnanti di religione), sia nell’ascolto del territorio, sia nella costruzione di reti tra gli enti in gioco?

L’équipe pastorale. I documenti di giugno non specificavano alcuni dettagli a proposito di questo nuovo organo, perciò il Cardinale è stato più preciso nell’incontro del 16 settembre, spiegando ai membri delle neonate équipe che “si tratta di una figura pastorale ben precisa, distinta dal Consiglio Pastorale”. Quest’ultimo, infatti, avendo in teoria la struttura di un organo democratico, raccoglie (pur con i suoi limiti) i rappresentanti dei gruppi parrocchiali e prende parte alle decisioni del parroco. Da quel che si comprende, l’équipe ha un numero più ristretto di persone (preferibilmente dodici, “è il piccolo gruppo da cui tutto è partito”), ma nei fatti può coinvolgere anche solo pochissimi laici (“tre-cinque”) insieme ai preti, anima il cammino della parrocchia ed è costituito da persone scelte direttamente dal parroco. Si interfaccia, sì, con il Consiglio Pastorale, ma non deve rendere conto ad esso del proprio operato, perché il suo vero interlocutore diretto sono da un lato la curia diocesana e dall’altro lato gli operatori. Con queste premesse mi sembra che si possa correre involontariamente il rischio che, dietro un’apparente condivisione delle responsabilità, si perpetui paradossalmente uno schema di gestione centralistico e clericale, molto poco “sinodale”. Perché questo incarico non è stato dato direttamente ai membri del Consiglio Pastorale? Non era più semplice riformulare la struttura di quest’ultimo, ridefinendone il ruolo e correggendone i limiti? Oppure, perché non si è presa in considerazione una sorta di elezione o indicazione comunitaria dei membri dell’équipe? Perché non sono indicati dei criteri per la scelta da parte del parroco che non la rendano frutto più di una certa discrezionalità che di un vero e proprio discernimento personale e comunitario?

Lo squilibrio. In realtà una generica indicazione è presente nel documento: le persone scelte, “dotate di una certa capacità di discernimento, sanno custodire il senso del cammino”. Nella sua lettera ai parroci, il Cardinale specifica che “non vanno cercate tra coloro che hanno dimostrato di essere prudenti, misurate e circostanziate, ma al contrario, persone fuori dalle righe, gente che lo Spirito Santo ha reso degli appassionati dello squilibrio”. Quest’ultimo concetto richiama le parole di Papa Francesco, quando a maggio invitava a diffidare dell’accomodamento e accettare lo squilibrio come condizione di vita. Se l’immagine del Vangelo come “dottrina squilibrata” e dello Spirito che “dà un calcio al tavolo” è molto significativa da un punto di vista spirituale ed esistenziale, diventa difficile usarla come criterio di discernimento, soprattutto per coloro che sono incaricati di custodire il senso di un cammino “comunitario” e di essere “giunture” tra gli operatori pastorali. Non si è pensato che proprio tale criterio per la nomina dell’équipe, decisamente liquido, possa inavvertitamente condurre un sacerdote a scegliere i suoi collaboratori “come sempre ha fatto”? Ed in effetti perché dovrebbe farlo diversamente se non lo ha mai fatto?

La competenza. Stando alle indicazioni del Cardinale, poi, nell’équipe “non abbiamo bisogno di professionisti competenti e qualificati, quanto piuttosto di cristiani apparentemente come tutti, ma in realtà capaci di sognare, di contagiare gli altri con i loro sogni, desiderosi di sperimentare cose nuove”. In fondo, ci ricorda il Papa, siamo abituati ad abitare la città “con le idee, con i piani pastorali, con le soluzioni prestabilite”, mentre bisogna cominciare ad abitarla “con il cuore”. Il documento ci tiene a sottolineare che “non siamo un’efficiente macchina organizzativa”, anche se francamente molti tra gli operatori che attendavano questa nuova prospettiva pensano che il rischio in cui può incorrere la diocesi di Roma non sia innanzitutto questo. Veramente la vita delle nostre parrocchie è così tanto impegnata nell’organizzazione dei “piani pastorali” da trascurare le persone? Negli anni, in realtà, mi sono sentito ripetere più spesso che basta il “cuore” e non serve la preparazione, vedendo così cestinati numerosi percorsi di pastorale giovanile in nome di un sentimentalismo che in realtà non credo corrisponda al “cuore” di cui parlano il Papa e il suo Vicario.

Perché sembra sempre che la Chiesa, confondendo intellettualismo con intelligenza, tema le persone competenti? Siamo sicuri che questa sia la maniera più efficace per portare avanti un progetto così ambizioso ed articolato, come quello che emerge dalle linee guida? Durante il convegno ci si è chiesti come possiamo rinforzare il nostro atteggiamento di ascolto, ma non ci si è soffermati sulla necessità di individuare strumenti per farlo. Non si riesce infatti ad ascoltare solo perché si ha l’atteggiamento giusto, la voglia reale di farlo. Soprattutto in un territorio complesso come la Diocesi di Roma, in cui vive un intreccio di linguaggi, culture e strutture sociali assai variegate. È necessario invece essere anche operatori formati e competenti per acquisire strumenti di discernimento e di comprensione, se vogliamo ascoltare veramente i giovani ed accompagnarli nel loro cammino di libertà. Altrimenti si corre molto concretamente il rischio di ritrovarsi paradossalmente in quel “gattopardismo” verso cui ci mette in guardia lo stesso Papa Francesco: “voler cambiare tutto perché nulla cambi”.

La Messa del silenzio: il punto di vista dei preti

Alcuni sacerdoti ci mandano le loro considerazioni sulla ‘Messa del silenzio’, tra esigenza di preghiera, bisogni della comunità e armonia liturgica.

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Dopo il mio articolo sulla ‘Messa del silenzio’ ho ricevuto qualche considerazione di alcuni sacerdoti, i quali hanno voluto arricchire il dibattito con il loro punto di vista: un contributo molto utile, soprattutto per il ruolo che il sacerdote riveste nella liturgia, ma anche perché, spesso, sono loro i bersagli primi e forse esclusivi di rimostranze e critiche dei fedeli sul tema delle celebrazioni. Così ritengo sia proficuo darne una sintesi, per avere anche l’opinione di chi ‘sta dall’altra parte’ e vive ogni giorno la liturgia, presiedendola e vivendo a contatto con il popolo di Dio, ma anche attraversando le fatiche e le gioie del ministero ordinato.

I sacerdoti sono di differenti età, con diversi anni di ministero alle spalle (qualcuno è prete da pochi anni, altri da quasi trenta), rivestono ruoli diversi nelle loro comunità e hanno anche chiare sensibilità personali, dando maggiore importanza per formazione, cultura, carisma ad aspetti diversi che sentono come rilevanti per sé e per i fedeli laici.
In fondo, tutti concordano nell’importanza del silenzio e dell’equilibrio.

Così, un parroco si fa sostenitore di omelie chiare e sintetiche, che centrino un punto essenziale, senza eccessiva verbosità (che, confessa, attanaglia non pochi confratelli). Per dare poi spazio alla Parola e al Mistero celebrato, senza dilungarsi inutilmente, ecco che diventa importante ridurre al minimo le parole del sacerdote: nessuna introduzione o monizione, avvisi ridotti all’essenziale. Rimane fondamentale cercare un equilibrio tra le varie parti della Messa, sforzandosi di celebrare per tutti, senza banalizzare, ma senza neppure rivolgersi solo ai colti, ai cristiani più formati, a quanti hanno piena consapevolezza di quello che si celebra.
Qui infatti egli individua un pericolo insito nella ‘Messa del silenzio’: perché la proposta può essere interessante e provocatoria, per rimettere in luce quello che conta (Parola e Eucarestia), ma rischia di essere elitaria.
Allora ecco il consiglio per i fedeli: arrivare per tempo, leggere prima le letture, trovare un momento, magari in settimana, per spendere qualche minuto in vista delle celebrazione domenicale, ‘isolare’ con un po’ di silenzio precedente il momento della Messa.

Un altro parroco mi fa presente che non bisogna ‘concedere una Messa’ per fare silenzio, perché sarebbe preferibile trovare un altro momento ad hoc per vivere distesamente un momento prolungato di silenzio. Certamente, però, si sente l’esigenza, anche per chi celebra, di una liturgia essenziale e armonica, senza che essa sia banale o superficiale. Ma qui scatta una sana provocazione, che è anche un’autocritica: è giusto porre in rilievo e pretendere qualità celebrativa dal presidente, ma è innegabile che la Messa dipende ancora troppo dal sacerdote. Ci sono tanti attori in una Messa, ma essi sono ancora poco valorizzati e coinvolti: quanti sacerdoti formano i laici per vivere bene la liturgia? E quanti laici vogliono impegnarsi per viverla partecipando?

Un terzo sacerdote, giovane, fa presente preliminarmente che celebrare la Messa tutti i giorni è una grazia, anche perché lui, da quando è diacono, predica quotidianamente. E questo è un dono, in quanto, ritiene, è spinto a meditare ogni giorno la Parola per trarne una notizia buona per la sua vita e per quella dei fedeli. 
A riguardo fa un’umana ammissione: non sempre durante la Messa il sacerdote riesce a pregare. Perché magari è distratto da tante attività da fare dopo o fatte poco prima, perché magari ci sono le ‘domeniche insieme’ con i bambini e le famiglie, perché magari è stanco e non ha dormito, perché magari ha un pensiero ascoltato che gira nella testa. 
È bello, aggiungo io, e consolante che anche un sacerdote confessi di non riuscire a pregare sempre, per tanti motivi diversi, che spesso sono gli stessi motivi che vive il fedele laico che si distrae, che si annoia, che non trova il momento per una vera preghiera. Siamo tutti uomini, e tutti viviamo situazioni simili anche nella fatica della preghiera.
Egli fa poi una riflessione opportuna: da sacerdote, soprattutto alla domenica, sente l’esigenza di dover spiegare il rito perché la gran parte dei fedeli ha perso quella grammatica, non trova più il senso di certi gesti. È forse un errore, concede, perché può produrre un eccesso di parola. Ma come fare, si chiede, per un uomo moderno che ha perso il senso del rito? Soprattutto: quando si celebrano Messe per i bambini, sembra che gli adulti vogliano ‘messe-teatro’, spiegate, con la battuta, l’aneddoto, e così via. Si domanda: siamo certi che i bambini vogliono celebrazione così condotte?
Forse è sbagliato pretendere che i bambini capiscano tutto (o quasi); è una richiesta inconscia, che hanno più gli adulti che i bambini. Perché, in fondo, basterebbe anche un’emozione, una parola o un gesto perché il bambino impari qualcosa dalla liturgia.
Non ha una risposta a questi quesiti, ma sono interrogativi che si pone da tempo.

Anche un altro prete ammette che predicare ogni giorno è una grazia, perché si costringe a meditare il Vangelo anche quando non ha voglia (anche questo tratto umano è molto consolante). Tiene a precisare che è importante cercare di capire chi ha di fronte il sacerdote, quale ‘destinatario’ vuole avere la sua omelia. Inoltre, il tutto deve sempre essere equilibrato: non spiegare troppo, dare il giusto spazio a ogni momento della liturgia. C’è anche il problema di sacerdoti che celebrano più Messe in una domenica: come viverle bene?

Tutti e quattro fanno però una sottolineatura importante: è fondamentale riscoprire un’essenzialità della liturgia, sfrondando di troppe parole umane, dando un respiro non frettoloso alla Messa, ma con tempi adeguati. Il che significa anche evitare celebrazioni lunghe, monizioni continue, omelie senza fine. Perché, è innegabile, l’uomo del XXI secolo ha ritmi e tempi di attenzione diversi rispetto a qualche decina di anni fa; soprattutto ha sete del silenzio, ma al tempo stesso ne ha timore e non è abituato a viverlo. Come dunque abitare bene la liturgia nel nostro tempo rimane una domanda aperta anche per loro.
Domande che troppo spesso, però, non trovano risposta nei libri e negli opuscoli dei liturgisti: perché, dicono tutti tra l’ironia e l’amarezza, spesso chi studia e forma alla liturgia non vive la pastorale, e si rischia così di non aver presente la vita concreta di una comunità cristiana, i suoi ritmi, i suoi limiti, le sue ricchezze. Tutti elementi con cui il sacerdote deve fare i conti, con buona pace delle rubriche e della filologia liturgica.

Papa, Vangelo e geopolitica

Settimana News

di: Francesco Sisci

Francesco come global player

In Asia, patria del 60% della popolazione mondiale, fino a poco tempo fa il papa e la Chiesa cattolica erano un’entità esoterica. Maggioritaria solo nelle Filippine, che sono in realtà un’estensione dell’America Latina in Asia, nel resto del continente erano un’entità semi-sconosciuta. Stranieri, collegati a scuole e opere di bene, ed estranei alla vita della stragrande maggioranza della popolazione.

Con l’arrivo di papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, questo sta cominciando a cambiare. Si vede che il papa è attivo su grandi questioni che interessano tutti: povertà, immigrazione, ecologia, dialogo fra le religioni. È presente in grandi partite geopolitiche, come l’apertura della Cina. Le sue dichiarazioni non sono confinate ai bollettini parrocchiali, ma sono frequenti titoli di apertura dei giornali di tutto il mondo. Ha il dono di riuscire a parlare al cuore degli uomini, credenti o meno; la gente si sente toccata da ciò che dice.

Questo che è molto evidente in Asia, pare vero in misura diversa in ogni angolo del pianeta. Bergoglio è il primo papa globale, che è uscito dai confini dei dibattiti cattolici o anche dai dibattiti tra i cristiani o tra religioni monoteistiche. Non bisogna essere battezzati o pregare davanti a una croce per essere interessati alle sue parole. Un successo nella storia della Chiesa che, dopo avere “conquistato” l’impero romano e i barbari del nord Europa, si era progressivamente rinchiusa. Ma qui ci sono anche i problemi presenti e forse anche alcuni futuri.

Il doppio linguaggio

L’interesse per il papa e per tutto quello che dice livella per la prima volta in maniera immediata la comunicazione e il dibattito interno con il dibattito esterno, ciò anche grazie ai nuovi media più universali e immediati. Solo che i due piani, interno ed esterno, sono molto diversi e andrebbero affrontati anche in maniera diversa.

Il papa e la Chiesa affrontano sfide interne.

Da un lato, c’è quello che si potrebbe definire con termini politici il liberalismo. Esso si concentra sulla sfera sessuale, ma non solo. Riguarda il tema delle donne prete, l’omosessualità che vuole maggiore affermazione, il matrimonio dei sacerdoti eccetera.

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D’altro canto, c’è quello che definiremmo il tradizionalismo – il bisogno di conservare la Chiesa del passato e i millenni di continuità culturale.

Entrambe le tendenze, che in alcuni luoghi, come in America vengono tradotti in termini politici di “destra” e di “sinistra”, hanno a che fare con il radicamento della Chiesa nell’occidente e in certi modelli di pensiero occidentali (progressisti o conservatori che siano).

Questi temi erano fino a pochi anni fa praticamente esoterici, curiosità bizzarre, anche perché il dibattito avveniva a colpi di citazioni in latino di testi medievali. Pochissimi oggi riescono a seguirle, e certo non quelli che in tutto il mondo si commuovono per le parole sentite di Francesco sui temi del giorno.

In realtà, però, proprio perché il papa parla a tutti, anche tali vexatae quaestiones (per entrare in tema), che in realtà cominciano dal concilio Vaticano II, diventano di pubblico dominio e attirano, giustamente, l’attenzione generale.

Le cose di tutti

Lo slancio esterno. Oltre alle vicende interne, ci sono quelle esterne. Il papa ha dato un nuovo slancio sociale, mettendo l’accento su ambiente, povertà, migrazioni, sfruttamento del lavoro.

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C’è una sfida geopolitica: dialogo con altri gruppi cristiani (ortodossi e protestanti), con i musulmani (cosa che oggettivamente argina la deriva estremistica, sia del mondo islamico che del mondo cristiano) e verso l’Asia e l’Africa dove il papa era stato per secoli marginale o sconosciuto.

In ciò il contributo della Chiesa alla pace del mondo e alla conciliazione di problemi sociali e politici nel globo è enorme. Questa cosa però crea di fatto frizioni tra la Chiesa e i gruppi di potere di tutti i tipi con agende diverse e concorrenti con quelle del papa.

Ciò può generare un dialogo e un dibattito positivo o, viceversa, creare scontri più o meno palesi in opposizione al papa e alla Chiesa. Questi elementi esterni si mischiano con gli elementi e i dissidi interni di varia natura in una combinazione difficile da seguire e trovano il oro punto di intersezione nella persona del papa, insieme punto di arrivo e di partenza di questioni interne ed esterne.

Due problemi

Ciò porta a due ordini di problemi. La solitudine del papa aumenta se non c’è l’unità della Chiesa con il papa; a quel punto si spacca la Chiesa e si dice addio a duemila anni di tradizione cattolica romana e anche alle prospettive di rinnovamento della Chiesa stessa.

Quindi, ci saranno senz’altro mille motivi teologici per vedere se il papa, nella gestione dei problemi interni o nell’esporsi all’esterno, stia andando fuori dalle righe; e il supporto teologico è fondamentale per la Chiesa.

Ma quello che il papa vede, dice e fa non può essere ridotto entro i confini della teologia, come la fede di Cristo ai tempi di Paolo non poteva essere ridotta entro i confini della tradizione giudaica: attraversava tutte le tradizioni giudaiche e si apriva anche ai non ebrei.

In questo la Chiesa deve ritrovare lo spirito dell’unità con il papa. Inoltre, la Chiesa si deve muovere attraverso una delle sue grandi forze, la sua organizzazione, i sacerdoti, le suore, i fedeli, come ha recentemente sottolineato Francesco stesso.

La Cina ha inventato la burocrazia. Essa, nei suoi eccessi, è certamente una catena al collo per la gente, ma quando funziona è un servizio senza pari, efficiente e positivo. Quindi, è vero che il clericalismo soffoca e uccide la Chiesa ma è vero anche che i sacerdoti, le suore, i laici che lavorano per la Chiesa sono la sua enorme forza. Costoro devono restare uniti al papa; in questo modo devono parlare e in questo parlare affrontano e superano problemi interni e esterni.

Francesco come global player

Inoltre c’è un problema di comunicazione sofisticata. Il papa ha successo perché parla al cuore degli uomini portando in grembo la Chiesa, ma senza averla sulla bocca tutti i minuti. Da questo forse nasce anche un’idea: è estremamente difficile parlare allo stesso modo a credenti e a non credenti. È vero che il nodo è inevitabile, ma forse bisognerebbe pensare di parlare di cose di Chiesa in modo comprensibile per chi non è nella Chiesa, al di là del gergo interno più o meno teologico.

Commando e truppe

Ciò porta a dei rischi per il futuro. Nel ’500 i gesuiti compirono un’operazione strategica straordinaria: ignorarono l’accerchiamento oggettivo di protestanti e musulmani. Quindi, pur essendo spagnoli, si schierarono con il papa e non sempre furono totalmente allineati con il re di Spagna, e arrivarono ovunque nel mondo. Nel ’600 avevano teste di ponte importanti dappertutto, persino nei posti più proibiti. È il caso della famosa missione in Cina iniziata da Matteo Ricci. Nel secolo successivo, nel ’700, i gesuiti furono sciolti.

Ciò accadde certo per l’invidia interna e gli odi esterni ma anche perché essi non erano riusciti a trasformare le teste di ponte in realtà ampie e concrete. In termini militari, che forse sarebbero piaciuti a sant’Ignazio di Loyola, i gesuiti erano dei commando, ma dopo sarebbero dovute arrivare le truppe corazzate, e i fanti, armi diverse con funzioni diverse, per allargare la testa di ponte e anche cambiare la natura della presenza sul territorio.

In altre parole, e in maniera semplicistica, ma utile ai rapidi tweet a cui ci stiamo abituando, Francesco è profetico, ma con lui serve una linea di comando e di organizzazione chiara che comunichi con l’interno (la Chiesa) e con l’esterno (la non-Chiesa) in maniera comprensibile per entrambi, ma distinta. Tale distinzione è fondamentale per “dominare” in maniera laica, nel mondo esterno, la comunicazione e “l’avanzamento del programma”, altrimenti tali agende saranno dominate da agenti esterni che, in buona o cattiva fede, possono spingere la Chiesa in direzioni diverse da quelle volute dal papa.

Francesco come global player

Perciò sembra che, quando il papa parla della sua solitudine, veda un problema reale, non solo umano, esistenziale, da risolvere con la preghiera dei fedeli. Perciò offriremmo al santo padre questa riflessione che non è una preghiera ma vorrebbe essere un’opera di bene.

Lavoro / Iniziativa. Così le ragazze programmano il futuro

Presentata la VI edizione di “Coding Girls”, che coinvolge dal 5 al 22 novembre 10mila studentesse di 14 città

Così le ragazze programmano il futuro

da Avvenire

Nella prima metà dell’800 Ada Lovelace lavorò alla macchina analitica ideata da Charles Babbage e grazie all’algoritmo che sviluppò è spesso ricordata come la prima programmatrice di computer al mondo. Oggi come ieri, le “nuove Ada” fanno fatica a farsi largo in un mondo, quello dell’informatica, dominato dalla presenza maschile. È a loro che è dedicato il programma Coding Girls, nato per diffondere la parità di genere nei settori della scienza e della tecnologia. Questa mattina, nel giorno in cui ricorre l’Ada Lovelace day, è stata presentata la VI edizione dell’iniziativa nella Sala Yung dell’ambasciata degli Stati Uniti a Roma.

«Questo progetto è importante perché in Italia è difficile che le ragazze si interessino a queste materie, specialmente nei primi anni di età – ha detto in apertura Paola Pisano, ministra per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione – ci fanno credere di essere portate per le materie umanistiche, ma io per
esempio sono sempre stata più brava a programmare che a scrivere. Oggi quello dell’inclusione digitale è un grave problema, la popolazione italiana non ha le basi per utilizzare alcuni servizi erogati in forma digitale. Per noi donne conciliare lavoro e famiglia e dare sempre il 100% non è facile. Ma se c’è una politica che supporta questa normalità per noi diventa tutto più semplice. L’apporto che una donna dà sul lavoro è fondamentale. Non importa quale tecnologia ci mettono davanti, noi abbiamo la mentalità per
poterci approcciare a qualsiasi cosa. Per quanto la tecnologia andrà veloce voi ragazze la saprete gestire e riuscirete a creare i vostri progetti all’interno della società. Noi abbiamo bisogno di giovani che hanno voglia di imparare e voi avete bisogno di un paese che vi accolga». 

Coding Girls 
è un’iniziativa promossa da Fondazione Mondo Digitale e Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, con la collaborazione di Microsof Italia. Oggi la fondazione coordina 25 hub nelle scuole e coinvolge studentesse e ricercatrici di 13 Atenei italiani in attività di mentoring e role modelling per le più giovani. Quest’anno il programma coinvolgerà dal 5 al 22 novembre 10mila giovani donne in 14 città italiane, e fino al 20 ottobre le Coding Girls sono protagoniste nelle loro scuole della Code Week

«È necessario che la pubblica amministrazione sostenga iniziative come quella della Fondazione – ha commentato Alessandra Donnini, presidente Fondazione Mondo Digitale, l’organizzazione senza scopo di lucro che dal 2001 si occupa di sviluppare competenze nel mondo digitale, con particolare riferimento alle ragazze. Oggi, infatti, solo il 20% dei lavoratori nella scienza e nella tecnologia è donna. Un gap che, secondo le statistiche del World Economic Forum potrà essere colmato solo tra 108 anni, considerato tutto il mondo, e circa 61 anni considerata la sola Europa occidentale». 

«Un’istruzione di qualità è sinonimo di libertà – ha aggiunto Mirta Michilli, cofondatrice e direttrice generale della Fondazione Mondo Digitale -. Se le donne non saranno in grado di cogliere opportunità di cambiamento il divario di genere è destinato ad aumentare. Oggi le donne sono molto preparate a livello di istruzione, ma il divario salariale è ancora ingente. Un deficit che ci costa parecchio, perché se le donne partecipassero di più, il nostro Paese sarebbe del 7% più ricco». 

«Io mi rivedo molto in voi e mi identifico in questa fase di incertezze – ha concluso Barbara Cominelli, direttrice marketing & operations di Microsoft Italia – avere un programma che vi accende la lampadina vi permetterà di affrontare il futuro con occhi diversi. È vero che siamo indietro, ma qualcosa si muove. Rischiate, buttatevi. Non c’è bisogno di essere perfette su tutto. Lasciate da parte i sensi di colpa e diventate promotrici di voi stesse. E prima o poi riusciremo a cambiare questo Paese».

Fondazione Moressa. La fuga dei giovani costa 16 miliardi di euro

L’Italia registra il tasso di occupazione più basso d’Europa nella fascia 25-29 anni (54,6%, contro una media Ue del 75%). Dai lavoratori immigrati il 9% del Pil

La fuga dei giovani costa 16 miliardi di euro

Da Avvenire

Crollano le nascite e aumentano gli anziani, sempre più giovani cercano fortuna all’estero. Al tempo stesso, da un decennio abbiamo chiuso le porte agli immigrati regolari, nell’illusione che i disoccupati italiani possano svolgere le professioni manuali. Dimenticando che gli oltre cinque milioni di stranieri residenti oggi in Italia rappresentano una forza vitale per il nostro Paese. Sono questi alcuni degli elementi chiave del IX Rapporto annuale sull’economia dell’Immigrazione a cura della Fondazione Leone Moressa, presentato oggi a Roma. 

Il costo della fuga dei giovani
Secondo le elaborazioni della Fondazione su dati Istat, da circa un decennio l’Italia è tornata ad essere terra di emigrazione: in dieci anni abbiamo perso quasi 500mila italiani (saldo tra partenze e rientri di connazionali). Tra questi, quasi 250 mila giovani (15-34 anni). Considerando le caratteristiche lavorative dei giovani in Italia, possiamo stimare che questa “fuga” ci sia costata 16 miliardi di euro (oltre un punto percentuale di Pil): è infatti questo il valore aggiunto che i giovani emigrati potrebbero realizzare se occupati nel nostro Paese. 

Il gap tra giovani italiani ed europei
Tra le cause di questo esodo vi sono sicuramente le (scarse) opportunità occupazionali che l’Italia offre ai propri giovani. L’Italia registra il tasso di occupazione più basso d’Europa nella fascia 25-29 anni (54,6%, contro una media Ue del 75%). Il tasso di disoccupazione italiano (19,7%) è il terzo più alto dopo Grecia e Spagna, dieci punti oltre la media europea (9,2%). Nella stessa fascia d’età, anche il tasso di Neet (chi non
studia e non lavora) è il più alto d’Europa: 30,9%, media Ue 17,1%. Inoltre, il livello d’istruzione dei nostri giovani è molto basso: tra i 25 e i 29 anni solo il 27,6% è laureato, quasi 12 punti in meno rispetto alla media europea. 

Il declino demografico dell’Italia
Secondo il rapporto in Italia si fanno pochi figli (mediamente 1,32 per donna) e il saldo tra nati e morti è negativo da oltre 25 anni. Quindi calano i giovani e aumentano gli anziani: l’Istat prevede che nel 2038 gli over 65 saranno un terzo della popolazione (31,3%). Ciò determinerà squilibri economici e finanziari, dato che proporzionalmente diminuiscono i lavoratori e aumentano i pensionati. 

Identikit degli immigrati in Italia
La presenza straniera nel nostro Paese è stabile negli ultimi anni, con 5,2 milioni di stranieri residenti a fine 2018 (8,7% della popolazione). Il saldo migratorio rimane positivo (+245mila), anche se la composizione dei nuovi arrivi è molto diversa rispetto al passato: prevalgono i ricongiungimenti familiari, si stabilizzano gli arrivi per motivi umanitari, mentre sono quasi nulli gli ingressi per lavoro. Vi è, complessivamente, una lieve prevalenza di donne (52%) e una netta dominanza di paesi dell’Est Europa (oltre il 45% del totale). Le prime nazionalità (23% Romania, 8,4% Albania, 8% Marocco) evidenziano che la maggior parte degli immigrati è qui da oltre dieci anni. 

Il “valore” dell’immigrazione
Nel 2018 i lavoratori stranieri sono 2,5 milioni, pari al 10,6% degli occupati totali. La ricchezza prodotta da questi lavoratori è stimabile in 139 miliardi di euro, pari al 9% del Pil. Gli occupati stranieri si concentrano nelle professioni non qualificate (33,3%), mentre solo il 7,6% svolge mansioni qualificate (il restante 60% si divide quasi equamente tra operai/artigiani e commercianti / impiegati). Il contributo economico dell’immigrazione è inoltre dato da oltre 700mila imprenditori nati all’estero (9,4% del totale) e, a livello fiscale, da 2,3 milioni di contribuenti. Da essi provengono un gettito Irpef di 3,5 miliardi di euro (su un ammontare di 27,4 miliardi di redditi dichiarati) e 13,9 miliardi di contributi previdenziali.

Branduardi canta la spiritualità di Ildegarda di Bingen

ll cantautore e compositore Angelo Branduardi ospite degli studi di Vatican News racconta il suo nuovo album, uscito il 4 ottobre scorso, “Il Cammino dell’anima”, ispirato all’opera visionaria della grande figura femminile della Chiesa e della storia del Medio Evo, Dottore della Chiesa , mistica, filologa e musicista

Nel 2019 Angelo Branduardi festeggia i 45 anni di carriera, una lunga avventura intrecciata alla storia della musica italiana ed europea, con radici nelle tradizioni e nelle forme popolari, che gli hanno attribuito il titolo di “menestrello” italiano.  Oggi, dopo sei anni di silenzio dall’ultimo lavoro  – “Il Rovo e la Rosa” che raccontava storie di uomini e donne vite anche misteriose e che ha avuto un grandissimo successo – torna come negli anni passati a confrontarsi con il sacro.

Per “Il Cammino dell’anima” il nuovo album uscito il 4 ottobre con grande gioia e sorpresa dei suoi ammiratori, ha scelto la figura di Ildegarda di Bingen, monaca benedettina che si distinse “per saggezza spirituale e santità di vita”, come disse nel 2010 Benedetto XVI in una delle due catechesi dedicate alla teologa che lui stesso proclamò Dottore della Chiesa. “C’è molto di Branduardi,  in questo album, ma anche altro, e consiglio, prima di ascoltarlo, di mettersi comodi e chiudere gli occhi per prepararsi a compiere un viaggio…..” . Così il Maestro ospite nei nostri studi ci suggerisce per iniziare a scoprire la Suite di brani strumentali e cantati che vede la partecipazione anche di Cristiano de Andrè e del controtenore Arturo Sorrentino insieme ad una orchestra straordinaria guidata da Stefano Zavattoni.

Al centro, la spiritualità di Ildegarda, dalla Germania di fine XI secoolo, con i suoi mille spunti di riflessione sulle donne, sulla teologia, sulla profezia e sulla mistica ma anche sull’arte, la cucina, la natura, la medicina e la musica, tutte materie di cui è riuscita ad occuparsi negli 81 anni della sua movimentata esistenza . Una “figura difficile da contenere” per quanti interessi ha avuto e che ha segnato profondamente il Maestro Branduardi per la notevole produzione musicale cui questa monaca benedettina, dall’intelligenza superiore, diede vita e per il lavoro interiore che la creazione artistica ha generato nel compositore milanese. 

“ La musica è terapeutica, ma l’ispirazione può essere tormentata ”

Sul patrimonio di questa “profetessa che parla con grande attualità anche a noi”, come non si stancava di ripetere Benedetto XVI, Branduardi ha indagato a lungo anche in Germania, lavorando – ci sottolinea più volte –  accuratamente, con “rispetto e correttezza”. Alle spalle dell’album c’è infatti uno lungo studio filologico – ci spiega –  poi un’attenta procedura di traduzione da una sorta di “volgare tedesco” ossia un latino che già era fortemente influenzato dal parlato e che Ildegarda usava nei suoi testi, e poi c’è la struttura musicale “tutta orizzontale” che si arricchisce di una verticalità moderna, sconosciuta nell’anno mille. 

La copertina del nuovo album

La copertina del nuovo album

L’album vanta spunti preziosi: il Preludio, brano di apertura, è una eleborazione del coro della Basilica Ortodossa di Mosca, “lavorato alterando le tonalità…una cosa che sembra molto naturale ma è piena di effetti particolari….”. La musica ortodossa è “bellissima” confessa il Maestro e “l’atmosfera che crea è quella giusta per avviare il racconto dell’album: dà un senso di riposo”. Poi uno ad uno i brani strumentali e cantati che raccontano il cammino dell’anima perduta, ma salvata poi dalla “virtù”.  “Lei era una musicista formidabile” – ci spiega – “la sua musica è avanti di 300 anni: io ho solo appoggiato alcuni accordi, ho cercato le cose più divulgabili in modo bello e ricco…”.

La cosa più bella che la vita e l’opera di Ildegarda le ha comunicato? Alla domanda, Angelo Branduardi fa difficoltà a scegliere e poi cita una frase che lo ha colpito nel profondo, premettendo però che è passato ancora troppo poco tempo dalla creazione, c’è bisogno di meditare su quanto prodotto. Ma la frase che il Maestro ci riporta di Ildegarda – confessa- ha dentro tutto: “Guardati: dentro di te c’è il cielo e la terra”. 

Forte la carica teatrale che l’album porta con sè e che non è detto non abbia un seguito appunto sulle scene come accaduto con enorme successo, in passato, con la vita e l’opera di san Francesco, altro santo che ha appassionato Angelo Barnduardi portandolo ad un capolavoro come L’Infinitamente Piccolo. Anche l’incontro con san Francesco come con Ildegarda è stato casuale: ” Il lavoro su san Francesco”- dice – me lo hanno chiesto i giovani francescani ma resta una delle cose più belle che ho fatto”.E poi c’è la grande sorpresa che ci attende nel 2020: 70 anni di Angelo Barnduardi coincideranno con un bel progetto musicale su cui c’è il massimo riserbo e che si accompagnerà con l’uscita di una trilogia in vinile, dei lavori più amati. Arriverà infatti un cofanetto contentente “Futuro antico I “, “L’infintamente Piccolo” e “Ildegarda”.

“ La musica è volare sopra le cose, è vedere l’invisibile, è guardare al di là della porta chiusa ”

E prima di salutarci il Maestro ci rivela qualcosa del momento creativo di un artista, di cui di solito si è tanto gelosi:  la “musica è una visione” – dice -“a volte dolorosa”. “La musica ti dà tanto e ma ti prende tutto. L’ispirazione non è sempre una cosa allegra anzi molto spesso parte da uno stato di sofferenza e attraverso la sofferenza arriva alla creazione. Nella maggior parte dei musicisti è cosi. In me è così. Poi però si sta bene, perchè la musica è terapeutica, ma la creazione è tormento. Tormento e estasi.  

vaticannews