Compassione

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Faccio lo psichiatra da quasi 40 anni, psichiatra di strada, direi da marciapiede, essendomi avviato su questo cammino proprio all’interno di un movimento di restituzione della follia ai luoghi della vita, a quella società che aveva scelto di liberarsi del male volgendo lo sguardo altrove, confinando la follia in cupi contenitori di disperazione.

Mi sto avviando a concludere il mio percorso istituzionale e un brusio accompagna i frequenti risvegli notturni che questa impegnativa stagione della vita mi sta regalando. Il brusio condensa l’affollarsi di tanti incontri, storie, volti, riflessioni, strampalate quanto irriducibili declinazioni del vivere che la professione mi ha dato il privilegio di incrociare.

C’è un’efficace espressione dialettale che rappresenta questo pastoso fluire della memoria: sono le “messe basse”, il brusio del mondo dolente, i racconti sommessi dei disperati, interrotto da inaspettati alleluia, da risate contagiose: “Mondo di sofferenza: eppure i ciliegi sono in fiore”, diceva il poeta giapponese.

L’assidua frequentazione di persone sofferenti mi ha insegnato che i modi di narrare la sofferenza, per chi sceglie – o è talvolta costretto – a raccontare i propri guai ad uno psichiatra, dissimulano spesso il cuore dei problemi, quasi che un’eccessiva trasparenza possa assomigliare da subito a una resa.

Ho pertanto sviluppato una sorta di trucco, specie nei primi colloqui, che consiste nell’abbassare l’attenzione (e con quella il pregiudizio che proviene dal fin troppo facile riconoscimento deipattern sindromici) per lasciare che i guizzi di senso che riescono a sfuggire alle mimetizzazioni del dolore possano arrivarmi e gettare una prima luce, per quanto fioca, sul sentiero, spesso angusto, della ricerca di un incontro con l’Altro. Tali lampi di senso si danno talvolta quasi come aporie del discorso, come scarti che non infrequentemente compaiono sulla porta, al momento del commiato: «… ah dottore, dimenticavo…».

Ho pertanto iniziato a leggere il bellissimo libro di Erminio Gius con questa disposizione, lasciandomi trasportare dalla sua voce riflessiva, dalle sue discese a corda doppia negli anfratti della profondità, senza troppo fermarmi ad ogni abbassamento dell’altimetro, così da evitare l’angoscia ma anche per mettere a frutto questa sorta di “trucco del mestiere”.

Così un primo soprassalto della coscienza l’ho avvertito quando, a pagina 16, il professor Gius ci confessa il desiderio (la necessità?) di «abitare nel silenzio» «la soggettiva inquietudine esistenziale».

Lo ringrazio per questa confessione, senza la quale, credo, avrei fatto molta fatica a procedere, per almeno tre motivi:

  1. Per il timore (rivelatosi poi del tutto infondato) di trovarmi di fronte ad un testo di psicologia del profondo, timore che si collega ad una sempre più consistente resistenza a dedicarmi a letture che si avvitino in psicologismi intimistici, a riflessioni teoriche che pretendano di esaurire il senso della complessità con ingrandimenti focali su particolarismi scarsamente illuminanti.
  2. Per un bisogno, di direzione quasi opposta e sempre più presente in questa fase della vita, di ricondurre le tante esperienze, i tanti incontri, i tanti frammenti di senso, all’interno di un orizzonte che restituisca a questi valore di essenza, sguardo ampio, visione di sintesi, non per chiudere nuovamente il senso dentro confini sia pure più ampi, ma per rispondere a domande che mi porto dietro da sempre, domande che hanno continuamente rimbalzato sulle pareti di un esercizio provvisorio dell’incontro con l’Altro: per chi? Dentro quale orizzonte di senso? O, più politicamente: «al servizio di quale re, briccone?» (Shakespeare,Enrico IV).
  3. Terzo, e non ultimo. Ho affrontato questo compito, questa gentilissima quanto inaspettata richiesta del prof. Gius con un timore reverenziale, direi, senza tanti giri di parole, con un vissuto di inadeguatezza. Il prof. Gius non ha bisogno di presentazioni, è uomo di grande cultura ed esperienza, terapeuta e profondo conoscitore delle dottrine psicoanalitiche, raffinato teologo, uomo di scienza e uomo di fede.

Io no, non sono nulla di tutto ciò, sono, come dichiarato in premessa, uno psichiatra di strada, un frequentatore assiduo di poveri cristi.

Quella confessione iniziale, quell’ammissione di «inquietudine esistenziale», quella necessità di «abitare il silenzio» me lo ha fatto sentire vicino, fraterno, perché, come diceva Saba, «… il dolore è eterno, ha una voce e non varia» e in essa «si querela ogni altro male, ogni altra vita».

Forse per questo, mi sono detto, il professor Gius mi ha chiesto di presentare la sua ultima fatica, una fatica che assomiglia a un testamento.

Forse la sua generosa richiesta sottende il bisogno di chiedermi: “Torna?”, “Ci può stare?”, “È compatibile con l’esperienza di uno psichiatra di strada?”.

So che l’idea di rivolgersi al sottoscritto gli è venuta ascoltando la presentazione che alcuni mesi fa ho fatto del bel libro del comune amico Fabio Cembrani. Forse, mi sono detto, ha avvertito che quell’inquietudine esistenziale, quel bisogno di abitare il silenzio, ci accomuna.

In questo orizzonte mi sono mosso nella lettura di queste pagine profonde, dense, illuminanti ma a tratti anche difficili per chi, come me, non sempre ha gli strumenti per apprezzarne sino in fondo i rimandi teorici.

Non importa mi sono detto, forse non è questo che chiede a me.

Il tema è sempre, inevitabilmente, quello dell’incontro con l’Altro, con i suoi volti che narrano del destino di noi uomini, gettati in uno spazio e in un tempo, capaci di compassione ma anche di fare il male, costretti a subirlo e capaci di ripararlo, attraverso processi analoghi a quello mirabilmente rappresentato nella parabola del Figlio prodigo, alla quale egli dedica la prima parte del libro. In questa, com’è noto, il figlio minore viene riaccolto dal padre/madre in un abbraccio ad occhi chiusi, così come rappresentato nel celebre e più volte evocato dipinto di Rembrandt, icona dello ”spazio mentale dell’alterità”, metafora della potenza dell’atto riparativo.

L’incontro c’è dove c’è silenzio interiore, dove i nostri apparati percettivi, motori di distrazione, lasciano spazio ad una prossimità che richiama la fusione uterina senza per questo rieditarla. Zona fragile, delicata, quasi pericolosa, come più volte richiamato nel testo. Spazio in cui occorre sapersi muovere all’interno di un paradosso: vicinanza prossima alla fusione che deve riuscire però a marcare una differenza, a innescare un processo riparativo che non può che essere relazionale (trinitario nella parabola del figlio prodigo e nelle successive riflessioni che l’autore fa sul tema dei processi di individuazione dell’adolescente e sulle dinamiche del distacco dalla coppia genitoriale).

In gioco, ovviamente, non c’è solo l’Altro, c’è anche l’Altro che è in noi, c’è la nostra storia, il nostro dolore, la nostra resistenza ad affidarci, le nostre angosce e le nostre contraddizioni, consce e inconsce. «Perdere se stessi per l’altro, permettendo che questi abbia a non essere la conferma di noi stessi, il premio del nostro atto di donazione, costituisce lo spazio psicologico dell’alterità, della dialettica amorosa e, quindi, della bellezza estetica del dono che salva». E’ Gius che parla.

Questo esercizio dell’atto riparativo, compassionevole, ha radici profondamente viscerali, emotive e, nel contempo, richiede una capacità di muoversi in quei territori senza farsi travolgere. «Bella gratitudine per te – dice il pappagallo a Mary Poppins –. non ti hanno neppure salutato». E Mary Poppins, in uno slancio erotico davvero intramontabile, risponde: «Le persone praticamente perfette non si lasciano confondere dai sentimenti».

Mi perdonerete per aver citato un’icona pop in un contesto così serio, ma, come vi ho detto in premessa, ho frequentato tutta la vita poveri cristi e la mia è necessariamente una sensibilitàpop; d’altro canto, occorre riconoscere che questo celebre finale del film di Disney dice una cosa molto importante, che a mio avviso traduce perfettamente ciò che Erminio Gius affronta con grande profondità, spingendosi addirittura a indagare i lati oscuri della compassione, tema fondamentale in relazione ai percorsi formativi degli aspiranti terapeuti.

L’autore avvia infatti questa complessa e delicata indagine con una citazione di Nietzsche, che recita: «Nella dorata guaina della compassione si nasconde talvolta il pugnale dell’invidia» e non credo che la citazione sia stata scelta con leggerezza. Due elementi linguistici colpiscono subito: l’uso insolito del termine “guaina” e la parola “invidia”.

Il termine guaina (buccia, rivestimento esterno) segnala molto efficacemente un rischio immanente alle professioni di aiuto e più in generale – mi sia concesso dirlo – ai professionisti della compassione. A questi Erminio Gius si riferisce indagando con rispetto ma anche con precisione le derive «tossicomaniche» (il termine, efficacissimo, è suo) dell’esercizio della compassione.

Il termine “invidia” viene indagato dal professor Gius con grande precisione e conoscenza dei meccanismi psicodinamici che la sottendono. Lo fa con garbo ma anche con determinazione, consapevole, credo, che il rovescio interrato della compassione è l’ostilità che scaturisce dalla disidentificazione che la prossimità con l’Altro provoca in noi e altrettanto consapevole dei risvolti autoriparativi di ogni intenzione di cura: se il mondo interno (del terapeuta in questo caso) è troppo devastato, l’atto compassionevole dev’essere reiterato in una sorta di coazione all’eroismo poiché la riparazione non può mai essere risolutiva una volta per tutte. Proprio questo mondo interno piagato (del terapeuta) impedisce a questi di provare gioia trasformando l’impulso a gioire in un pericoloso agguato della vita che chiede di dispiegarsi trascinandolo in territori incerti, non controllati. L’invidia riguarda la capacità dell’Altro di utilizzare la sofferenza come deterrente alla gioia, e l’identificazione proiettiva (sempre del terapeuta) tenderà dunque a consegnare il paziente alla necessità di patire.

Questo è a mio avviso un tema cruciale, troppo poco indagato o affrontato non solo all’interno di percorsi individuali di formazione/terapia ma più in generale rispetto alle questioni politiche, globali, che interrogano le coscienze di chi non ha ancora deposto le armi del pensiero rispetto all’inflazione dei paradigmi semplificati.

A proposito di questa dimensione globale, politica, direi antropologica, che spesso emerge dalle dense pagine del libro, mirabili mi sono parse le riflessioni sui processi di differenziazione/individuazione – sempre in riferimento alla parabola del figlio prodigo – che il professor Gius dipana rispetto alla figura del figlio maggiore, da egli definito «attore principale» della stessa.

Il figlio maggiore, quello che con la sua condotta iperadattiva riteneva di aver diritto ad una considerazione speciale del padre, quello che reagisce con fastidio, ostilità, all’accoglienza che quest’ultimo riserva al ritrovato figlio minore.

Questi, avendo dissipato tutte le sostanze con prostitute, non meritava, a dire del fratello maggiore, di essere riaccolto nell’abbraccio amoroso e compassionevole del padre.

Il figlio maggiore, dipinto da Rembrandt nella penombra, con fissità attonita, livido e imbalsamato nella sua «coesione difensiva all’ordine familiare», diviene metafora illuminante di processi, oggi drammaticamente attuali, di forte e ricercata appartenenza ad un gruppo in grado di costellare una sorta di unità superindividuale, un baluardo alla percepita minaccia all’integrità delle persone che lo compongono.

È il pensiero stereotipato che appiattisce le coscienze, il bisogno di dipendenza che si traduce in ricerca di una benevolenza che diviene legalismo: quel “legalismo” – afferma Gius – che «… ipostatizza il soggetto all’interno di una realtà autoreferenziale che non ha aperture per il desiderio».

Interessante appare il gioco etimologico: la considerazione (cum-sidera) da parte del padre al posto del desiderio (de-sidera). Da una parte, la triste certezza di un futuro già scritto nelle stelle. Dall’altra, la vaga inquietudine della notte senza stelle che dispiega il desiderio.

In queste brevi note, che hanno l’unico scopo di sollevare interesse e curiosità rispetto a un testo che merita di essere letto e riletto, ho arbitrariamente raccolto solo alcune piccole tracce all’interno dell’immenso patrimonio di ricerca e approfondimenti che il professor Gius ci regala. Ciò è in parte legato al setting di una presentazione ma anche, e forse soprattutto, alla mia dichiarata difficoltà a seguirlo in ogni luogo, troppo spesso per personali lacune teoretiche che non ho difficoltà ad ammettere.

Nell’ultimo capitolo, quello che sembrerebbe condensare una sorta di lascito spirituale, egli riesce a disegnare lo scenario di un orizzonte futuro, una riflessione sulla responsabilità rispetto ai destini del pianeta, un grido di dolore rispetto ai tanti poveri, emarginati, extracomunitari, profughi, minoranze culturali, linguistiche e religiose che presentano il volto di una sofferenza universale e chiedono aiuto, compassione.

Questa riflessione fa esplicito e frequente riferimento alle prospettive espresse dal teologo tedesco Metz e, in particolare, alla sua proposta, eversiva per questi tempi, di attribuire a coloro che soffrono ingiustamente il valore di Autorità nella quale radicare un “ethos globale”: la pluralità e la complessità delle relazioni umane in vece del consenso universale, un’antropologia “fragile” in grado di contrastare il potere erosivo della tecnica rispetto all’etica, un’epistemologia “debole” in cui la compassione assurgerebbe ad autorità politica mondiale.

Pagine illuminanti, coraggiose, pregne di una visionarietà che non rinuncia a prefigurare nel u-topos dell’utopia la terra promessa che può salvarci.

Erminio GiusCompassione. Bibbia e psicanalisi per uno studio della società, EDB, Bologna 2019, pp. 224, € 18,50. ISBN 9788810560198

“Quantunque…”. Storia del matrimonio cristiano

Settimanan News

matrimonio

Quantunque, sebbene: questo è il nome (in latino Tametsi) del decreto di riforma che il Concilio di Trento approvò l’11 novembre 1563 (sessione XXIV), e che costituisce la più importante decisione mai presa in merito al matrimonio nell’ambito della cristianità occidentale. Si colloca a valle di un dibattito secolare dai toni molto più accesi e dalle implicazioni molto più ampie di quanto comunemente si immagini; e si colloca a monte della disciplina ecclesiale (e in parte anche sociale) del matrimonio che noi conosciamo. Per questo vale la pena di considerarlo il perno del nostro discorso, prima per comprendere perché si giunse ad una decisione così rivoluzionaria e sofferta (un quarto dell’assemblea conciliare votò contro); poi per comprendere quale deriva abbia portato fino alla situazione che conosciamo, in vista di ulteriori possibili modifiche. Mi soffermerò soprattutto sul contenuto che è stato dato al concetto di “matrimonio” e al rapporto tra “sacralità” e “profanità” in quest’ambito; l’ottica sarà prevalentemente storica, lasciando sullo sfondo sia le implicazioni di carattere teologico, sia le questioni più specificamente giuridiche.

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1.

In modo non particolarmente originale, una rapida rassegna sul tema può iniziare con un celebre testo redatto intorno all’anno 200.

«I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. … Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi» (Lettera a Diogneto, V,1.6-10).

Con queste parole l’ignoto autore della Lettera a Diogneto sintetizzava l’atteggiamento dei cristiani, nei primi secoli della Chiesa, nei confronti della legislazione romano-imperiale. Questa non era percepita, sotto questo aspetto, tale da interferire con la fede. «Nuptiae sunt coniunctio maris et feminae, consortium omnis vitae, divini et humani iuris comunicatio», dettava il giurista romano Marcellino nel III secolo, tracciando un perimetro (monogamia, mutuo aiuto e riconoscimento di un comune rango sociale, inserimento in una condizione di diritto pubblicamente riconosciuta) nel quale i cristiani non avevano difficoltà a riconoscersi (e infatti «si sposano come tutti», «obbediscono alle leggi stabilite»). Al centro di questo perimetro, il consenso (con la suggestiva formula nuziale ubi tu Gaius, ego Gaia), per cui la volontà di vivere nel matrimonio era considerato elemento necessario e sufficiente a costituire quell’unione coniugale secondo le esigenze del diritto. La differenza tra il matrimonio e qualunque altro genere di unione o convivenza stava dunque nell’intenzione dei coniugi, non in un particolare rito, sociale o cultuale che fosse.

La Lettera a Diogneto, come in altri testi dei primi secoli, considerava il matrimonio un bene in quanto iscritto nel disegno divino (cf. anche 1Timoteo 4,1-5), andando in questo contro correnti spiritualiste estreme; c’era peraltro la consapevolezza del fatto che il messaggio evangelico aveva introdotto una morale più impegnativa rispetto a quanto presente nelle culture dell’epoca (a cominciare dalla sostanziale indissolubilità: Matteo 5,32, 19,9; Marco 10,11; Luca 16,18) e soprattutto un riferimento simbolico estremamente importante. Nel quinto capitolo della lettera di Paolo agli Efesini l’Apostolo delle genti aveva costruito un complesso parallelismo tra marito/Cristo e moglie/Chiesa, giungendo infine ad affermare: «Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (Efesini 5,32). Il termine greco mysterion fu tradotto in latino con sacramentum (che di per sé indicava il giuramento militare): una scelta destinata a condizionare durevolmente l’immagine del matrimonio e la sua considerazione come uno di quelli che (poi) furono considerati i segni e gli strumenti dell’intervento divino, anche al di là dell’intenzione dell’Apostolo (che peraltro aggiungeva, quasi a prevenire fraintendimenti: «lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!»).

Quando il cristianesimo divenne la religione dell’Impero, la Chiesa cominciò a gettare le basi del proprio diritto, entrando in rapporto con quello romano. Si volle difendere, in particolare, la stabilità del vincolo: la centralità del consenso non fu più intesa in riferimento alla “durata” del matrimonio (per cui il matrimonio esiste finché c’è l’intenzione di farlo esistere), ma in riferimento alla scelta definitiva per esso (la promessa vale per la vita). La legislazione civile ne fu però condizionata solo parzialmente; nonostante le opposizioni dei Padri rimase infatti lecito il divorzio, sia pure a determinate condizioni; furono invece progressivamente superati i divieti relativi al matrimonio tra appartenenti a stati sociali diversi.

Si hanno svariate notizie dell’esistenza, fin dalla tarda antichità, di benedizioni rivolte agli sposi, o per meglio dire alla sposa: colei che, in vista della maternità e dei rischi connessi, era al centro dei riti pagani, rimaneva al centro anche di quelli cristiani (la parte della benedizione rivolta anche allo sposo comparirà per la prima volta verso il 950). Tali benedizioni si inserivano però, molto semplicemente, in un più generale processo di sostituzione/adattamento degli “elementi accessori” del rito pagano (a cominciare dalla velatio, l’imposizione del velo alla promessa sposa, operazione che fu ora affidata al sacerdote). Si trattava di modalità, formule e gesti che erano raccomandati, ma non richiesti per la perfezione del vincolo; la loro assenza non incideva sulla validità, nel momento in cui veniva espresso il consenso. Per papa Leone I (440-461) la sposa legittima era la donna di condizione libera, con regolare dote e «onorata da nozze celebrate pubblicamente».

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Nello stesso periodo in cui il cristianesimo cominciava il lungo cammino di condizionamento della legislazione civile, si affacciavano sulla scena nuovi attori: i popoli barbarici e le loro consuetudini, diverse anche per quanto riguardava le questioni matrimoniali. Una diversità che si poneva a più livelli. Essi conoscevano un “percorso nuziale” più complesso di quello romano, fatto di fasi diverse (la consegna di doni alla sposa precedeva nel tempo la “consegna” della sposa allo sposo). L’unione carnale era considerata parte integrante di questo percorso: in assenza di essa il matrimonio non era completo e risultava quindi invalido. Ma soprattutto, mentre il diritto romano esaltava la volontà dei singoli, considerando determinante il consenso dei due sposi, il matrimonio barbarico era prima di tutto un accordo tra clan, in cui la donna era lo strumento atto a costruire l’alleanza, rimanendo in ciò sottoposta alla volontà del padre o dei familiari più prossimi; decisiva era quindi la sua “consegna” allo sposo da parte del padre o del tutore (il termine inglese wedding deriva da wed, dono).

Il cristianesimo non percepiva come aliene almeno alcune di queste preoccupazioni, e ciò avveniva anche perché si trattava di elementi presenti pure nel matrimonio ebraico e giudaico. Agostino ragionava in questi termini: se la prole è il primo fine del matrimonio, il matrimonio non consumato non poteva essere considerato tale (d’altronde, anche il testo sacro non aveva dubbi nel definire marito e moglie «una sola carne»: Genesi 2,24; Matteo 19,5-6; Marco 10,7-8; Efesini 5,31). In Agostino il rapporto sessuale era legittimato anche dal rapporto sociale che creava: il matrimonio era allora uno strumento di carità, atto a portare alleanza tra famiglie diverse. La condanna all’endogamia che ne derivava avrà, nel medioevo, molta fortuna, portando ad una definizione di incesto eccezionalmente larga.

Questi due modelli (che grossolanamente potremmo definire “romano” e “barbarico-agostiniano”) non sono, in linea puramente teorica, compatibili: la storia successiva è la storia della loro difficile coabitazione.

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L’estendersi della cristianizzazione e la grave crisi che colpì le strutture pubbliche nel primo medioevo accrebbero il condizionamento ecclesiastico sulla legislazione civile, che divenne in qualche misura indistinguibile da quella canonica (e del tutto indistinguibile nella materia matrimoniale). I secoli che vanno dall’XI al XV sono quindi considerati quelli dell’“apogeo” della capacità della Chiesa di condizionare la materia: all’interno della Cristianità al potere sacro fu riconosciuto il diritto e il dovere di dettare norme e di dirimere contese. Se ne occuparono i concili e le decretali pontificie, spesso dovendo rispondere ai casi concreti che venivano presentati; se ne occuparono i tribunali vescovili, dove la materia matrimoniale acquistò un posto quantitativamente e qualitativamente privilegiato (e tale impegno tenne conto, a seconda dei casi e non senza discussioni e incoerenze, delle esigenze dell’uno o dell’altro modello matrimoniale).

Tra le conseguenze di ciò vi fu, come detto, la lotta contro l’incesto, inteso in un’accezione molto ampia; la “sparizione” di forme diverse di unione, meno impegnative ma fino ad allora non per questo clandestine o disonorevoli; ma soprattutto vi fu un più convinto sostegno all’indissolubilità, per cui venne esclusa la possibilità del divorzio, vietato da Cristo stesso e quindi improponibile. All’atto pratico, molti videro però un surrogato del divorzio nella possibilità (che la Chiesa rivendicava) di poter dichiarare l’insussistenza del vincolo (annullamento).

Il punto centrale, a mio parere, è però questo: la Chiesa rimase fedele al principio che il matrimonio era fatto essenzialmente dal libero consenso degli interessati. In questo modo la volontà degli sposi prevaleva perfino sulla materia sessuale; il sacramento era fatto più dallo scambio del consenso che dalla coniunctio corporum, anche se quest’ultima era stata spesso indicata come allegoria dell’unione tra Cristo e la Chiesa (questa seconda tesi era però ostacolata dal fatto che ciò avrebbe, tra l’altro, messo in dubbio la validità del matrimonio di Maria e Giuseppe!). Questa la conclusione secondo Ugo da San Vittore (+ 1141): «hanno il sacramento del matrimonio coloro che con un consenso reciproco sono d’accordo su questa società che Dio ha istituito tra l’uomo e la donna per mantenerla tra loro indivisa».

Il matrimonio fu esplicitamente citato come uno dei sacramenti fin dalla costituzione Ad Abolendam di Lucio III (1184), contro le convinzioni delle sette eretiche, come i catari, che invece insistevano per la totale condanna della carnalità ed erano persino ostili alla procreazione. Il concilio Lateranense IV (1215) ricordò che «gli sposi sono chiamati alla beatitudine eterna come coloro che sono votati alla verginità». Il II concilio di Lione (1274) lo contò infine tra i sette sacramenti, da allora anche numericamente definiti.

Benedizioni e preghiere crebbero in ampiezza e complessità: ma queste formule, per quanto elaborate, non venivano affatto considerate condizioni per la validità del vincolo; i riti (anche quando vedevano il clero come attore) servivano solo ad assicurarne la notorietà. Così si esprime il Messale di Rennes, all’inizio del XII secolo (uno dei testi più antichi di questo tipo):

«innanzitutto il sacerdote si rechi davanti alla porta della chiesa, rivestito del camice e della stola, con l’acqua benedetta. Dopo aver asperso gli sposi, li interrogherà con prudenza per sapere se vogliono sposarsi conforme alla legge; si informerà se non sono parenti e insegnerà loro come debbono vivere insieme nel Signore.

Dopo ciò, dica ai genitori, secondo il costume, di dare la loro figlia allo sposo e a questi di dare alla sposa la dote, di cui farà leggere lo scritto dinnanzi a tutti i presenti; la faccia sposare a lui con un anello, benedetto nel nome della SS. Trinità, da mettere nella mano destra, e lo sposo le faccia dono di qualche moneta d’oro o d’argento secondo le proprie possibilità. In seguito il sacerdote imparta la benedizione che è indicata nei libri.

Terminata questa, entreranno nella chiesa, dove il sacerdote incomincerà la Messa. Ora gli sposi porteranno nelle mani ceri accesi. Ne faranno offerta durante la Messa all’offertorio. Prima che sia detto “Pax Domini”, si veleranno secondo la consuetudine e riceveranno la benedizione nuziale. Al termine, lo sposo riceverà il bacio di pace dal sacerdote e lo darà alla sposa».

È piuttosto evidente che il prete non sta celebrando o conferendo alcunché ma sta controllando l’adeguato svolgimento di un’operazione sociale. Si trattava di quello che i giuristi hanno definito matrimonio “aformale”: qualunque espressione esterna, religiosa o profana, familiare o pubblica che fosse, era considerata accessoria, secondaria ed anzi ininfluente rispetto all’espressione del libero consenso degli interessati. Poteva andar bene una celebrazione religiosa (era tra l’altro una delle poche occasioni in cui ci si comunicava); aristocratici e borghesi si rivolgevano più spesso ad un notaio, presso il quale si potevano definire anche i risvolti di carattere economico (carte di dote). Quel consenso liberamente espresso, secondo la Chiesa, aveva valore sacramentale, rendeva presente la grazia divina.

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Le novità tardomedioevali sono due, solo apparentemente distinte. Da un lato cresce la presenza clericale nella celebrazione: la benedizione è sempre più richiesta, anche con funzioni scaramantiche. In un’epoca così assetata di contatto con il sacro, a tutti i livelli, anche i riti matrimoniali si nutrivano di una dimensione a metà tra il religioso e il magico-superstizioso. Il demonio era sempre pronto ad intervenire a danno degli uomini, figuriamoci in una materia così delicata come i rapporti coniugali; una benedizione ricevuta presso la chiesa (e solitamente presso una specifica porta), oltre a dare la pubblicità eventualmente richiesta all’atto, poteva proteggere.

Il prete guadagnava spazio anche per un altro motivo: egli era la persona “pubblica” di fronte alla quale si poteva esprimere liberamente un consenso controverso. I contesti familiari e sociali potevano infatti ostacolare le nozze in nome del fatto che il matrimonio era prima di tutto il risultato di un accordo tra clan (tradizioni germaniche); e/o in nome del fatto che quel matrimonio avrebbe portato discordia, e non pace, tra le famiglie di partenza (Agostino). Ebbene, quelle stesse nozze invece la Chiesa continuava (qualcuno diceva: si ostinava) a proclamarle valide, in quanto frutto del libero consenso degli sposi. Il consenso “faceva” il sacramento anche contro il volere delle famiglie e le convenienze sociali, anche in assenza di riti sociali e anche in assenza di documentazione scritta (si trattava di quelli che erano chiamati “matrimoni clandestini”, che la Chiesa considerava peccaminosi, ma non invalidi). Il prete poteva dunque e anzi doveva – anche contro il proprio personale parere! – sostituire il notaio, il quale si sarebbe invece rifiutato di ratificare un contratto che considerava sconveniente o inopportuno. Non è un caso che la traditio puellae (la “consegna” della sposa dal genitore allo sposo) scompaia, in quest’epoca, dai rituali; e che i canonisti siano giunti ad approvare il ratto consensuale (la “fuitina”!), nel momento in cui questo serviva ad aggirare il dissenso dei genitori.

D’altro canto, cresceva l’interesse per la materia da parte delle autorità civili, che sempre più frequentemente ritenevano fosse di loro pertinenza anche la materia matrimoniale, per lo meno nei suoi risvolti sociali e patrimoniali. Era inoltre essenziale evitare la confusione che derivava a tutti i livelli dai matrimoni contratti in clandestinità, senza formule fisse e senza idonea documentazione. Stati nazionali e regionali, repubbliche e monarchie, comuni e signorie ritenevano inoltre che la Chiesa, legittimando il matrimonio fondato soltanto sul consenso, stesse sbagliando tutto, perché sottovalutava l’impatto che poteva suscitare un matrimonio “sbagliato” sugli assetti familiari e sociali.

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2.

Nel corso del XVI secolo i nodi vennero al pettine. Nel momento in cui si ribellava allo strapotere del papato della sua epoca e ne rifiutava la mediazione in vista della salvezza, Lutero toglieva il matrimonio dalla lista dei sacramenti, dichiarandolo materia profana nella quale era l’autorità civile a dover legiferare (su questo punto anche Erasmo la pensava come lui), e sottolineando l’importanza del consenso dei genitori (la tradizione agostiniana!…). Gli Stati protestanti ebbero nel giro di pochi anni una legislazione matrimoniale civile: consenso familiare e pubblicità divennero quindi rapidamente necessari per dare validità al contratto matrimoniale, che pure poteva venir ratificato di fronte ai ministri del culto, incaricati di ascoltare il consenso e di usare la formula dichiarativa: «ciò che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi» (Matteo 19,6; Marco 10,9).

Tale soluzione era gradita alle autorità politiche e ai padri di famiglia di tutta Europa, tanto che lo stesso re di Francia, nel 1556, tentò di legiferare nella stessa direzione, rendendo obbligatoria la diseredazione dei maschi sotto i 30 anni e delle femmine sotto i 25 che avessero contratto matrimonio senza il consenso dei genitori.

In quegli stessi anni si riteneva possibile anche il passaggio alla Riforma di tutta la Chiesa francese: e la disciplina matrimoniale avrebbe pesato nel determinare la scelta per un campo o per l’altro da parte dei vescovi (i quali, non dimentichiamolo, erano nominati dal re). È dunque comprensibile che le discussioni sul tema, nella terza fase del Concilio di Trento (1562-63), siano state particolarmente accese. Bisognava trovare una formula che salvasse contemporaneamente (a) la sacramentalità del matrimonio, cui era connessa la necessità della libertà del consenso (era in questione, altrimenti, il libero accesso alla grazia sacramentale e, tra l’altro, anche il diritto dei singoli di seguire la propria vocazione, anche religiosa; (b) le pressanti richieste civili e/o le legittime preoccupazioni pastorali in ordine al fatto che non potevano essere considerati validi quei matrimoni che, per aggirare il consenso familiare, erano privi di pubblicità (come giudicare le cause matrimoniali in assenza di documentazione? come distinguere fidanzamento, matrimonio e concubinato?). Queste seconde istanze vedevano tra i propri sostenitori soprattutto i vescovi francesi e spagnoli, mentre gli italiani sembravano piuttosto fermi nella linea che intendeva affermare l’impossibilità, per la Chiesa, di intervenire una materia di “diritto divino positivo”; i matrimoni clandestini si potevano condannare e vietare, potevano essere considerati un peccato, ma non si potevano annullare; dichiarare invalido il contratto matrimoniale significava intervenire con una legge sul sacramento, e ciò la Chiesa non lo poteva fare. Non pochi, entro l’assise conciliare, vedevano inoltre di buon occhio i matrimoni clandestini, che potevano anzi essere considerati le uniche unioni validamente contratte: «se si abolisse il matrimonio clandestino, si abolirebbero i matrimoni che vengono fatti liberamente e spontaneamente, e di conseguenza si proibirebbe la vera amicizia tra i coniugi» (così il vescovo di Cava Tommaso Caselius).

Si giunse quindi all’approvazione di un canone di riforma che iniziava con la parola tametsi, “quantunque”. Si apriva in questo modo:

«Quantunque non si debba dubitare che i matrimoni clandestini, celebrati con il libero consenso dei contraenti, siano rati e veri matrimoni, almeno fino a che la chiesa non li abbia dichiarati invalidi – e che, quindi, a buon diritto debbano condannarsi (come il santo sinodo in realtà condanna) quelli che negano che essi siano veri e rati e chi falsamente afferma che i matrimoni contratti dai figli senza il consenso dei genitori siano nulli, e che questi possano invalidarli o annullarli – tuttavia la santa chiesa di Dio li ha sempre, per giustissimi motivi, detestati e proibiti».

Il ponte tra esigenze sacramentali e richieste civili (e pastorali), indubbiamente di difficile costruzione, fu gettato su questa base: la Chiesa che non poteva dichiarare nullo il matrimonio basato sul libero consenso, poteva però dichiarare le singole persone inabili a contrarre matrimonio, nel momento in cui queste intendevano farlo in segreto e al di fuori di una specifica modalità. Dal matrimonio informale si passava quindi al matrimonio formale, per cui solo una determinata forma di celebrazione poteva essere considerata valida.

«Quelli che tenteranno di contrarre matrimonio in maniera diversa da quella prescritta, e cioè presente il parroco o altro sacerdote, con la licenza dello stesso parroco o dell’ordinario e con due o tre testimoni, il santo sinodo li rende assolutamente incapaci a contrarre il matrimonio in tal modo e dichiara nulli e vani questi contratti; e col presente decreto li rende vani e li annulla».

In questo modo la Chiesa veniva incontro alle richieste della società dell’epoca, ma senza rinunciare a considerare il matrimonio un sacramento e senza arretrare – almeno in linea di principio – sul fatto che il matrimonio era fondato sul libero consenso degli interessati. I Padri conciliari che modificavano così sostanzialmente la prassi matrimoniale non la consegnavano agli Stati, ma la ponevano sotto il controllo della Chiesa; ciò fu reso esplicito negli altri canoni sul sacramento, riassunti nel dodicesimo e ultimo: «Se qualcuno dirà che le cause matrimoniali non sono di competenza dei giudici ecclesiastici, sia anatema».

Adesso per sposarsi serviva davvero il prete – anzi, il proprio parroco: egli controllava l’“abilità a contrarre” degli interessati, fissava i tempi e gli spazi dell’unica celebrazione possibile, testimoniava e custodiva il consenso che andava ora registrato per iscritto (libri parrocchiali), era autorizzato a pronunciare non la citazione biblica «quod Deus coniunxit, homo non separet», ma il molto più impegnativo «ego vos in matrimonium coniungo». Quest’ultima formula, che pure il Concilio non imponeva come esclusiva, era comunque tanto impegnativa da far dubitare che il consenso fosse ancora centrale e tale da far invece ritenere che nella celebrazione del matrimonio la “materia” fosse ora la presenza del prete e tutto ciò che vi era connesso. Ascoltiamo il grande detrattore del Concilio, Paolo Sarpi:

«Comunque questo fosse – dicevano – il decreto non esser fatto per altro se non per far fra poco tempo un articolo di fede che quelle parole dal paroco pronunciate siano la forma del sacramento … fu sostituito [stabilito invece] che, senza la presenza del prete, ogni matrimonio fosse nullo, cosa di somma esaltazione dell’ordine ecclesiastico, poiché un’azzione tanto principale nell’amministrazione politica et economica, che sino a quel tempo era stata in sola mano di chi toccava, veniva tutta sottoposta al clero, non rimanendo via né modo per far matrimonio, se doi preti, cioè il paroco et il vescovo, per qualche rispetto interessati, ricuseranno di prestar la presenza».

Questo invece il più recente giudizio di John Bossy, autore di una fortunata sintesi sulla Cristianità tra tardo medioevo e prima età moderna:

«La proposta fu accettata – era l’unica che potesse conciliare le parti – e divenne legge. Se pure era stata in qualche modo prefigurata dalla precedente storia della materia, fu comunque un fulmine a ciel sereno, e non è ben chiaro in quale misura il Concilio fosse consapevole di aver imposto alla Cristianità una vera e propria rivoluzione. Cancellando la dottrina canonistica in base alla quale il contratto di sponsali seguito dalla copula carniscostituiva matrimonio cristiano, spazzando via il vasto corpus di riti e assetti consuetudinari in quanto privo di potenza sacramentale, si trasformava il matrimonio da processo sociale garantito dalla Chiesa a processo ecclesiastico dalla Chiesa amministrato».

Non fu casuale che a questa “rivoluzione” abbia fatto seguito lo spostamento del rito dalla soglia della chiesa all’altare (1612).

Sarpi non è affatto una fonte imparziale, ma il suo parere è comunque prezioso, perché rappresenta il parere di quell’“altra cristianità” che si pose in una linea diversa da quella del Concilio di Trento, e che riaffiorerà nelle tendenze giurisdizionaliste settecentesche. Resta evidentemente la possibilità di non essere d’accordo con lui: una qualche regolamentazione della materia era necessaria. Una formalizzazione del consenso era indispensabile per superare le discussioni che nascevano di fronte alla diversa interpretazione del grado di impegno che uno dei partner poteva attribuire a una parola o a un gesto, e al caos che ne nasceva quando ci si doveva rivolgere a un giudice. Se non l’avesse promossa la Chiesa con l’accordo degli Stati l’avrebbero redatta gli Stati anche contro la Chiesa. Quest’ultima imponeva se stessa come il gendarme del matrimonio per conto della società, oppure difendeva gli spazi di libertà dell’individuo, per quanto le era possibile? La risposta non è facile.

***

3.

Molti degli stati cattolici accolsero i decreti del Concilio di Trento nella loro legislazione civile (ma non tutti: la Francia con molta fatica e gradualità). La storia moderna – fino alle codificazioni di età napoleonica e successiva – vede però una lenta e progressiva erosione della giurisdizione ecclesiastica nelle cause matrimoniali, in parte legittimata dalla stessa Chiesa, la quale riconosceva al potere civile il diritto di legiferare in materie quali le doti, le successioni, le eredità. Talvolta lo Stato interveniva nel momento in cui poteva configurarsi il reato di stupro: anche per questo la Chiesa spinse ad evitare la coabitazione prematrimoniale, cosa altrimenti semplicemente raccomandata dal Concilio di Trento.

In generale la questione si è posta, da allora, in questi termini: la Chiesa ha continuato a proclamare la sacramentalità (e dunque l’intoccabilità) del matrimonio fondato sul consenso, ma ha considerato come unica forma possibile di esso quello canonico, all’interno del recinto tracciato dal Tametsi, rivendicandolo alla propria esclusiva competenza; il “resto” è stato a lungo considerato non solo come non-sacramento, ma proprio come non-matrimonio, «scandaloso concubinato». Dal momento in cui, nel XVIII secolo, gli Stati vollero porre più o meno direttamente il matrimonio sotto la giurisdizione civile (volendo regolamentarlo come altri aspetti della vita associata quali l’attività ospedaliera o quella educativa), la Chiesa percepì tutto ciò come un attacco intollerabile all’essenza stessa del sacramento.

Comunemente la rivoluzione francese (con la legge del 1791) e il codice napoleonico (1804) sono considerati i momenti in cui nacque il matrimonio civile moderno. Ciò è vero molto parzialmente, prima di tutto perché si dimentica che i cattolici viventi in Olanda e in Inghilterra furono i primi a vivere il matrimonio come rito (anche) civile (rispettivamente dal 1580 e dal 1653), ma soprattutto perché vi furono Stati dell’area cattolica che prevennero i rivoluzionari francesi: il Regno di Napoli (1767), l’Impero d’Austria (1783: l’imperatore Giuseppe II riconobbe al clero la funzione di ufficiale pubblico), la Francia stessa (1787: si trattava della normativa che concedeva uno stato civile anche ai non-cattolici, che potevano ora ricorrere al giudice civile per le pubblicazioni). Superata la Restaurazione, nella seconda metà dell’Ottocento quasi tutti gli Stati legiferarono in materia (l’Italia nel 1865, la Svizzera nel 1874, la Germania nel 1875 in pieno Kulturkampf, l’Ungheria nel 1894, il Belgio, i Paesi Bassi, il Portogallo). Il matrimonio civile divenne così, nella maggior parte dei casi, l’unico riconosciuto dallo Stato, e fu tolto valore giuridico a quello religioso (anche se il divorzio fu generalmente ammesso, in questa fase, solo negli Stati protestanti).

Di fronte a queste innovazioni (percepite come attacchi alla giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio), la Chiesa contemporanea ha riaffermato ripetutamente la propria fedeltà alla disciplina tridentina, protestando la propria competenza nelle cause matrimoniali. Il Sillabo di Pio IX (1862) è al riguardo molto esplicito, negando validità a frasi quali:

«73. In virtù del contratto meramente civile può aver luogo tra cristiani il vero matrimonio; ed è falso che, o il contratto di matrimonio tra cristiani è sempre sacramento, ovvero che il contratto è nullo se si esclude il sacramento.

74. Le cause matrimoniali e gli sponsali di loro natura appartengono al foro civile».

Anche Leone XIII e Pio X si esposero più volte in tal senso. Il Codice di Diritto Canonico del 1917, da questo punto di vista, non portò alcuna innovazione, ma piuttosto delle conferme; si può al più rilevare che tra le conferme vi è quella relativa al fatto che sono gli sposi i ministri del matrimonio, che viene contratto «alla presenza» del parroco e non da lui; l’età minima, prima fissata a 14 e 12 anni, viene ora innalzata a 16 e 14.

Data questa situazione, non stupisce di trovare la materia matrimoniale tra gli oggetti dei Concordati, che spesso portarono al riconoscimento degli effetti civili del matrimonio religioso (quello con l’Italia del 1929 ebbe come conseguenza l’abolizione del matrimonio civile, sarebbe stato poi disciplinato dal codice civile del 1942). Nell’enciclica Casti connubii, un anno dopo la Conciliazione (1930), Pio XI denunciava:

«… insegnano che il matrimonio è cosa totalmente e tutta puramente civile e in nessun modo da demandarsi alla società religiosa, cioè alla Chiesa di Cristo, ma soltanto alla società civile; e soggiungono inoltre che il legame nuziale dev’essere affrancato da ogni legame d’indissolubilità, col tollerare e addirittura col sancire per via di legge le separazioni, ossia i divorzi dei coniugi; e così il matrimonio, spogliato di ogni santità, è incluso fra le cose profane e civili. … Come prima e principale cosa stabiliscono che l’atto civile sia da ritenersi quale vero contratto nuziale (e lo chiamano comunemente “matrimonio civile”); l’atto religioso poi sia una pura aggiunta, o al più da permettersi al popolo superstizioso. …» (§§ 80, 81)

L’enciclica è ferma anche nella convinzione che i poteri civili non possano neppure permettere il divorzio ai loro sudditi non credenti:

«… contro tutte queste stoltezze sta immobile, venerabili fratelli, la legge di Dio, da Cristo molto ampiamente confermata, e che non può venire smossa da nessun decreto degli uomini, opinione di popoli o volontà di legislatori: “Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non separi”. E se l’uomo ingiuriosamente tenta di separarlo, il suo atto è del tutto nullo, e resta immutabile quanto Cristo apertamente confermò: “Chiunque rimanda la moglie e ne sposa un’altra, è adultero, e chi sposa la rimandata dal suo marito, è adultero”. E queste parole di Cristo riguardano qualsiasi matrimonio, anche quello soltanto naturale e legittimo; giacché ad ogni vero matrimonio spetta quella indissolubilità, per la quale esso è sottratto, quanto alla soluzione del vincolo, sia all’arbitrio delle parti che ad ogni potestà laicale» (§ 90).

Se guardiamo ad un testo ancor più noto e recente, la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II, troviamo certamente toni molto diversi e la rinuncia a una condanna esplicita del matrimonio civile, ma contenuti non dissimili:

«… il Concilio, mettendo in chiara luce alcuni punti capitali della dottrina della Chiesa, si propone di illuminare e incoraggiare i cristiani e tutti gli uomini che si sforzano di salvaguardare e promuovere la dignità naturale e l’altissimo valore sacro dello stato matrimoniale. … L’intima comunità di vita e d’amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dall’alleanza dei coniugi, vale a dire dall’irrevocabile consenso personale. E così, è dall’atto umano col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono, che nasce, anche davanti alla società, l’istituzione del matrimonio, che ha stabilità per ordinamento divino. In vista del bene dei coniugi, della prole e anche della società, questo legame sacro non dipende dall’arbitrio dell’uomo. Perché è Dio stesso l’autore del matrimonio, dotato di molteplici valori e fini: tutto ciò è di somma importanza per la continuità del genere umano, il progresso personale e la sorte eterna di ciascuno dei membri della famiglia, per la dignità, la stabilità, la pace e la prosperità della stessa famiglia e di tutta la società umana» (§§ 47, 48).

Il Codice di Diritto canonico del 1983 non modifica certo queste posizioni: cambia solo un poco la terminologia (invece del vecchio termine contractus viene usato foedus, “patto”) e riscopre quella formula di matrimonio come consortium omnis vitae di vecchia derivazione romana.

«Can. 1055 – §1. Il patto matrimoniale con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole, tra i battezzati è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento. §2. Pertanto tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento.

Can. 1056 – Le proprietà essenziali del matrimonio sono l’unità e l’indissolubilità, che nel matrimonio cristiano conseguono una peculiare stabilità in ragione del sacramento.

Can. 1057 – §1. L’atto che costituisce il matrimonio è il consenso delle parti manifestato legittimamente tra persone giuridicamente abili; esso non può essere supplito da nessuna potestà umana. §2. Il consenso matrimoniale è l’atto della volontà con cui l’uomo e la donna, con patto irrevocabile, danno e accettano reciprocamente se stessi per costituire il matrimonio».

Dio è il fondatore del matrimonio; lo stato matrimoniale ha un valore sacro; si basa sul consenso; ha valore di fronte alla società; non dipende dall’arbitrio dell’uomo. Credo che la continuità con una lunga tradizione sia ampiamente visibile, ma è una continuità che trascina con sé anche tutte le difficoltà e le ambiguità che questa tradizione ha cercato di affrontare, ma non ha certo risolto una volta per tutte.

***

La mia conclusione approda ad un argomento che avrebbe potuto legittimamente porsi anche all’inizio: quello della terminologia. La parola “matrimonio”, che comunemente usiamo, ha infatti una sua etimologia e delle implicazioni che sarebbe un errore sottovalutare.

Il termine usato in latino e in italiano (e anche in inglese e in francese), lungi dal definire una parità, cita solo uno dei due partners – la donna – e le assegna un ruolo preciso: quello di essere madre (matris munus, “dovere della madre”). Alla donna è dunque affidato il compito di gestire le dimensioni della sessualità e della successione; si esprime una differenza, in un senso che è difficile intendere in chiave non maschilista (il matrimonio è l’atto con cui l’uomo prende una donna perché procrei, cosa ben diversa dal “dovere del padre”, il patrimonio!).

La maggior parte di noi non accetta una tale interpretazione; e nei secoli non l’hanno accettata molti altri che hanno dato alla parola matrimonio un significato piuttosto diverso, rifiutando la subordinazione strumentale dell’una all’altro, o negando che il divenire madre sia di per sé un fatto costitutivo del matrimonio stesso; in qualche modo tradisce dunque ciò che intendiamo esprimere. Se poi guardiamo all’ambito ecclesiale, è evidente che dal Tametsi in poi la Chiesa ha reso questo termine, di derivazione extrareligiosa e dal forte contenuto profano, inscindibile da un significato religioso che gli dà sì un’eccezionale dignità, ma porta pure con sé una serie di problemi ormai quasi insolubili, in un’epoca secolarizzata che vede l’ampia commistione di persone di fedi diverse e la presenza di ampie masse di battezzati che non hanno con la Chiesa istituzionale alcun rapporto.

Certo, sono tante le parole che nei secoli cambiano significato, e noi le usiamo senza preoccuparcene. Però da questa riflessione terminologica discende, a mio parere, qualcosa di più impegnativo. Una stessa parola è stata ed è usata per indicare una scelta libera o il risultato di un accordo sociale; un patto tra eguali o una subordinazione dell’uno all’altro; una società finalizzata alla procreazione e una finalizzata al mutuo aiuto; uno stato voluto come permanente o una scelta sentita come reversibile; il risultato dell’espressione verbale di una sillaba o una lunga e complessa procedura; una realtà puramente profana e secolarizzata e una essenzialmente (e tremendamente) sacrale. Come pensare che il dialogo su questo tema non sia condizionato da queste molteplici possibilità interpretative? Non è che dovremmo cominciare a pensare a parole nuove, che esprimano in modo meno imperfetto ciò che intendiamo?

La comunità civile sta faticosamente costruendo queste “parole nuove” (nuove fino a un certo punto, dato che nel passato forme diverse di unione esistevano – nel bene e nel male, ovviamente – e godevano di particolari profili giuridici). La Chiesa è invece ancora ferma nel difendere l’orizzonte (mentale, prima ancora che giuridico) determinato dal Tametsi, dove esiste una solapossibilità di unione, stabile in quanto sacra e sacra in quanto stabile, profana e sacramentale al tempo stesso anche al di là dell’intenzione degli interessati/celebranti. Tale difesa assume talvolta le sembianze della protezione di un copyright contro chi tenta di proporre sul mercato nuovi prodotti, ritenuti simili a quello per cui si detiene (o si pretende di detenere) il brevetto. Eppure, dopo che nel XVI secolo era divenuta insostenibile una rigida difesa della validità del matrimonio puramente consensuale, oggi è l’orizzonte “tridentino” ad apparire incomprensibile ai più.

Non si tratta di negare che le comunità di vita e di affetti facciano parte del piano divino: anzi, la Chiesa dovrà annunciare che dovunque le persone scelgono di stringere legami, a qualunque forma giuridica o tradizione culturale e religiosa facciano riferimento, Dio misteriosamente è presente, ed è presente in modo tanto più forte quanto più queste unioni nascono dal libero consenso, sono improntate al rispetto e all’aiuto reciproco, danno seguito alla benedizione divina pronunciata nel giardino dell’Eden. D’altra parte, se non vuole cadere nelle trappole della “religione naturale” (e diventare insignificante) o della “religione civile” (e diventare instrumentum regni), la Chiesa dovrà definire senza possibilità di dubbi che è segno profetico dell’unione tra Cristo e la Chiesa solo quel legame che vuole rispecchiare tra gli uomini – quale città sul monte –quell’unione, il “grande mistero” della Lettera agli Efesini. È ora insomma che la Chiesa prenda sul serio, più di quanto abbia dimostrato di fare in questi ultimi anni, ciò a cui il sacramento del matrimonio misteriosamente rinvia.

Ho utilizzato soprattutto A.G. Martimort, La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, Roma 1963; J. Gaudemet, Il matrimonio in occidente, ed. it. Torino 1989; J. Bossy, L’occidente cristiano 1400-1700, Torino 1990; G. Zarri, Il matrimonio tridentino, in Il Concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, Bologna 1996, pp. 437-483. IlCodice di Diritto canonico, le encicliche e i documenti conciliari sono tratti dal sito www.vatican.va. Ringrazio per i suggerimenti il prof. Andrea Nicolussi.

Salmo 143(142): un peccatore nelle tenebre

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Salmo 143(142): un peccatore nelle tenebre

22 settembre 2019/ Nessun commentodi: Giovanni Giavini

penitente

Mario Sironi, La penitente (MART, Rovereto)

Come al solito, ci chiediamo: chi parla in questo Salmo che leggiamo ancora nell’ultima versione della CEI?

Un ebreo prima di Cristo, dell’antica Giudea, cosciente di essere in peccato e quindi tremante all’idea del giudizio di Dio che, in qualche modo, potrebbe avere il suo “avvento”, ha nemici odiosi che l’accusano ai sacerdoti del tempio e ai magistrati, anzi l’hanno già anche condannato alletenebre di un carcere con il rischio di finire nella fossa dei morti da gran tempo e senza speranza in una vita oltre la morte. Ovviamente lui è costernato, atterrato, angosciato, senza respiro, col cuore al gelo, si sente come terra assetata senz’acqua (pensiamo alle terre assetate dell’Asia o dell’Africa).

In questa situazione egli pensa alle proprie opere di povero peccatore e disperato per la prospettiva dell’imminente sentenza giudiziaria che, il mattino dopo l’apertura del tempio e del tribunale, sacerdoti e magistrati avrebbero sanzionato contro di lui; ma quel giudizio umano gli richiama quello di Dio stesso. E ne trema.

Ma un’ispirazione gli squarcia le tenebre: Dio è diverso dagli uomini, le sue opere – nella creazione nella storia – infondono speranza: ricordo i giorni passati, ripenso a tutte le tue azioni, medito sulle opere delle tue mani e quindi a te protendo le mie mani come terra assetata ma che scopre una sorgente vitale, quasi come Israele quando trovava acqua nel deserto.

Giudizio o giustizia di Dio?

Ecco allora la sorprendente supplica di un peccatore: Signore ascolta la mia preghiera! Per la tua fedeltà, per la tua giustizia rispondimi. Non entrare in giudizio con il tuo servo: davanti a te come giudice nessun vivente è giusto: nessuno uscirebbe giusto-assolto-giustificato-salvato! Ma la tua giustizia e fedeltà, una giustizia quindi diversa da quella del giudice e dei giudici umani, può riaprire le porte alla speranza: perché tu sei fedele alle promesse di salvare un peccatore pentito e che confida in te. Il tuo volto e il tuo Spirito (ossia la tua forza) parlano di bontà e di misericordia, benché quest’ultima parola qui non ci sia. Buona novella, Evangelo sorprendente e gioioso per tutti.

Oltre all’esclusione del giudizio, quel povero e angosciato peccatore chiede anche che il Signore ispiri una sentenza benevola ai giudici subito al mattino e quindi la liberazione dal carcere e dalla morte, la possibilità di un nuovo cammino in una terra piana sulla quale fare la tua volontàdi giustizia, fedeltà, bontà. Tutto perchépur peccatore di fronte alla tua legge e al tuo giudizio, io sono tuo servo: riconosco quello che sono io, povero peccatore, e chi sei tu, quindi in te mi rifugio. Riconosco me e riconosco te: ma quale dei due riconoscimenti è il più difficile oggi?…

E i nemici? Quelli non godano della tua giustizia, anzi sterminali! In Salmi come il 22 (Dio mio, perché mi hai abbandonato?) e il 51 (Miserere) mancano invocazioni dure contro i nemici; in questo invece, come in altri, la si trova, sia pure assai ridotta. La giustizia di Dio e la sua gloria sembravano esigere anche la condanna inesorabile dei nemici: è un limite della preghiera e della mentalità del tempo prima di Cristo (ma non del tutto morta anche dopo…).

L’avvento di Cristo e san Paolo

Con Gesù invece? Evidentemente la Buona novella già presente nel Salmo 143 viene portata a compimento straordinario da lui: la misericordia anche con peccatori, lebbrosi, paralitici, ebrei e stranieri, uomini e donne, bambini e odiosi pubblicani, pecore smarrite e figli prodighi lo testimoniano. Particolarmente interessante la parabola del fariseo e del pubblicano in Lc 18: il pubblicano prega umile e pentito e ne esce «giustificato», a differenza dell’orgoglioso e sprezzante fariseo ricco di meriti per le sue opere.

Anche l’evangelista Matteo commenta l’opera di Gesù citando un testo del profeta Isaia circa il misterioso Servo di JHWH: «Porrò – dice Dio – il mio Spirito su di lui e annuncerà anche alle nazioni straniere la giustizia… finché non abbia fatto trionfare la giustizia (di Dio) e nel suo nome tutte le genti spereranno» (Mt 12,18-21).

Sulla scia di Gesù e della fede in lui si colloca san Paolo, con una decisione e coerenza superiori a quelle di altri apostoli, Pietro compreso. Egli cita e allude più volte al Salmo 143, in particolare in Gal 2,16: «Anche noi giudei abbiamo creduto in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della legge, poiché per le opere della legge non verrà mai giustificato nessuno»; e nella lettera ai Romani: «Nel Vangelo si rivela la giustizia di Dio… per la salvezza di chiunque abbia fede… In base alle opere della legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della legge si ha (solo) la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio… Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente, per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù» (Rom 1,16-17; 3,21-24); cf. anche lo stupendo annuncio in Rom 5,1-11 sull’amore di Dio anche per empi e nemici.

Pur riconoscendo valori anche nella legge (comandamenti e precetti vari), Paolo però vede – forse anche un po’ sbrigativamente – tutta l’umanità, da Adamo in poi, nella signoria della forza del peccato e della morte e non salvabile veramente dalla legge, ma solo per la fede nelle opere di Dio, in primis in quell’Opera di Dio Padre che è Gesù Cristo e il suo amore. Quindi, speranza per tutto il mondo peccatore! E con questa speranza le strade del vero amore per ognuno nel suo contesto vitale.

Con Paolo nel nostro oggi

Alla luce di tutto ciò, come possiamo vivere oggi il nostro mondo? Che esso sia solcato da tanti mali, cattiverie indicibili, soprusi, egoismi, tradimenti, imbrogli, guerre e violenze sui più deboli… è innegabile. Insieme ci sono anche cuori animati dallo Spirito di Dio, in particolare tra i credenti in Cristo; a costoro compete il prezioso compito di annunciare con forza, pur nei sentieri del reale, la speranza della «giustizia di Dio», quella già intravista dal Salmo 143 e più ancora presente nel Cristo dei Vangeli, nel suo avvento dentro la nostra povera storia umana – continua a dirlo anche papa Francesco –. Ma a partire, appunto, da quella fede; scarsa questa in noi, il mondo rimane più povero.

Ricordiamo che anche per il cristiano restano nemici ostili da combattere: Satana, i nostri istinti egoistici, le nostre passioni a volte travolgenti. Perciò anche noi preghiamo che Dio Padre non ci lasci soli e disarmati nelle tentazioni, anzi ci liberi dal Male (e dal Maligno) per poter camminare nella carità come il buon samaritano.

A questo punto, converrà rifugiarci nella rilettura completa e serena del Salmo 143, con il cuore dell’antico salmista arricchito dalla luce del Vangelo. E se volessimo aggiungere un’invocazione a Maria come «rifugio dei peccatori»? Liberi di farlo, con il rispetto dell’analogia tra soggetti diversi (Dio Padre, Gesù e Maria) e senza devozionismi fuorvianti e antiecumenici.