L’episcopato brasiliano riunito a Belém. Allarme per l’Amazzonia

L’Osservatore Romano

Mentre le fiamme continuano a divorare la foresta (il fumo ha addirittura raggiunto l’Uruguay e l’Argentina), i vescovi brasiliani dell’Amazzonia hanno deciso di riunirsi da oggi fino al 30 agosto a Belèm, capoluogo dello stato di Pará, sia per rispondere all’emergenza incendi sia per preparare il sinodo per l’Amazzonia che si svolgerà a ottobre in Vaticano. L’assemblea è promossa dalla Commissione episcopale speciale per l’Amazzonia della Chiesa brasiliana, insieme alla Rete ecclesiale panamazzonica del Brasile e alla Regionale Nord 2 della Conferenza episcopale. Partecipano i vescovi delle cinquantasei circoscrizioni ecclesiastiche del territorio amazzonico brasiliano.
Nei giorni scorsi l’episcopato aveva già fatto sentire la propria voce attraverso un messaggio nel quale si ritiene «urgente che i governi dei paesi amazzonici, in particolare il Brasile, prendano serie misure per salvare una regione chiave nell’equilibrio ecologico del pianeta». Dopo una serie di «incomprensioni e scelte sbagliate», affermano i presuli, è necessaria una grande sensibilizzazione di fronte alla «gravità della tragedia e ad altre situazioni irrazionali e avide, con grandi impatti locali e planetari». Solo sabato scorso è scattato il piano del governo per fermare i roghi con il dispiegamento di oltre 44.000 soldati affiancati da mezzi aerei, navali e terrestri. E sullo sfondo dei 72.000 roghi di quest’anno (+84 per cento rispetto al 2018) resta la pressante minaccia della deforestazione, usata per conquistare nuovi terreni coltivabili. Il Mato Grosso, dove sono stati segnalati oltre 45.000 focolai di incendio, è la regione più colpita. «Se non si prenderà questo impegno — è il monito — tutti subiranno perdite irreparabili». Il popolo brasiliano, i suoi rappresentanti e i suoi servitori, afferma la presidenza dell’episcopato, sono «i primi responsabili della tutela e la protezione dell’intera regione amazzonica».
Ma tutti i vescovi sudamericani alzano la voce: La nostra casa comune va a fuoco è il titolo del documento pubblicato dalla Chiesa boliviana a conclusione della recente assemblea pre-sinodale dedicata all’Amazzonia. Nel testo, i presuli si dicono «costernati, indignati e quasi impotenti» di fronte ai roghi divampati nel paese, soprattutto nelle zone orientali della Chiquitanía e del Chaco. «Circa un milione di ettari della nostra foresta amazzonica si consuma sotto le fiamme degli incendi; i danni sono enormi, ancora incalcolabili, e colpiscono la salute umana, le forme di vita delle comunità indigene, la biodiversità, le risorse ambientali», sottolineano accusando che «questa catastrofe è il risultato dell’azione umana».
La dichiarazione cita tra l’altro il recente decreto 3973 del governo di Evo Morales che nel luglio scorso ha autorizzato «incendi controllati» di terreni, per favorire l’avanzata degli spazi per l’allevamento, dando così ulteriore fiato ai roghi illegali. Nonostante l’orientamento del governo, i partecipanti all’assemblea affermano che anche nel loro paese si obbedisce alla «logica imperante» del «capitalismo tecnocratico e aggressivo con la sorella madre terra e di un modello di sviluppo consumista e depredatore della natura, che si manifesta in grandi progetti idroelettrici e di sfruttamento di idrocarburi, nell’ampliamento delle zone agricole, della costruzione di strade a forte impatto ambientale, e della vecchia logica estrattivista». Scelte che «attentano ai diritti dei popoli indigeni». Il documento dell’episcopato boliviano si conclude annunciando che la Chiesa intende «unirsi nella solidarietà», anche con aiuti materiali e donazioni alle popolazioni coinvolte negli incendi, mentre si chiede al governo di destinare risorse per spegnere gli incendi ed evitare che le fiamme si amplino.
In questo contesto, il ruolo del prossimo sinodo dei vescovi sull’Amazzonia, in programma a ottobre, rappresenta «un segno di speranza e una fonte di importanti indicazioni rispetto al dovere di preservare la vita, a partire dal rispetto del creato. Costruiamo insieme — concludono — un nuovo ordine sociale e politico, alla luce dei valori del Vangelo di Gesù, per il bene dell’umanità, della Panamazzonia, della società brasiliana, in particolare dei poveri di questa terra».
L’appello alla protezione della foresta è stato inoltre lanciato dai vescovi peruviani riuniti in assemblea plenaria fino a ieri: «Siamo preoccupati per l’Amazzonia, fonte di vita che comprende due terzi del territorio nazionale», sostengono i presuli, auspicando che il sinodo di ottobre in Vaticano «dia importanti apporti per scoprire nuovi cammini per un’ecologia integrale». Anche i vescovi argentini e paraguayani sono intervenuti nel dibattito, sostenendo le posizioni prese recentemente dal Consiglio episcopale latinoamericano ed esprimendo vicinanza alle popolazioni colpite dalle devastazioni degli incendi che, secondo i presuli, stanno procurando danni di dimensioni planetarie. In particolare i vescovi in Paraguay ricordano il peso che ha sul nostro pianeta la cultura dello scarto: «Crediamo — concludono in una nota — come le autorità del Celam che l’unità e la solidarietà dei governi dei paesi amazzonici, soprattutto del Brasile e della Bolivia, delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, debbano prendere misure urgenti per salvare il polmone del mondo».
Dal Messico, infine, la Commissione per la pastorale sociale della Conferenza episcopale esorta a «unire gli sforzi» e sottolinea come il disastro in Amazzonia ci ricorda «che il nostro territorio è in pericolo, perché nella nostra casa comune tutto è interconnesso». Da qui un appello accorato al mondo intero a «correggere gli atteggiamenti egoistici e distruttivi» legati al modello tecnocratico.
L’Osservatore Romano, 28-29 agosto 2019

Altri 32 chilometri di barriere mentre altri fondi saranno stornati dalle emergenze ambientali per rimpatriare i richiedenti asilo. Si allunga il muro voluto da Trump

Stati Uniti

L’Osservatore Romano

Il muro voluto da Donald Trump al confine con il Messico si allunga. L’amministrazione ha infatti comunicato al giudice a cui fanno capo le varie azioni legali avviate contro la barriera che costruirà altri 32 chilometri di barriera in Arizona e in California. A finanziare la costruzione saranno i fondi avanzati dai precedenti lavori per il muro, costati meno del previsto.
Ieri l’amministrazione ha anche reso noto che 155 milioni di dollari del fondo di emergenza per catastrofi naturali sono stati destinati all’esecuzione del provvedimento che prevede il ritorno in Messico dei richiedenti asilo che attraversano il confine senza permesso.In particolare, 116 milioni saranno destinati ad aumentare il numero di posti letto nei centri di detenzione per immigrazione gestiti dal Servizio immigrazione e controllo doganale, secondo quanto riferito dal locale dipartimento per la sicurezza. Al momento, il servizio immigrazione gestisce circa 54.000 immigrati privi di documenti, secondo quanto ha rivelato il Washington Post, per lo più adulti appena arrivati negli Stati Uniti, la cui unica colpa è stata l’attraversamento irregolare del confine. I 155 milioni, nelle intenzioni, saranno utilizzati per «stabilire e gestire (…) strutture temporanee pubbliche lungo il confine meridionale».
La decisione dell’amministrazione Trump arriva proprio mentre negli Stati Uniti è alta l’allerta in vista dedella stagione degli uragani e del già annunciato arrivo della tempesta tropicale Dorian sull’isola di Puerto Rico.
In una dichiarazione inviata all’emittente televisiva Cnn, lo stesso Fondo di emergenza per le catastrofi naturali ha comunque precisato che, nonostante lo storno dei fondi e in considerazione dell’andamento storico delle spese, è anocra presente una somma di denaro «sufficiente a soddisfare le esigenze operative» e ha affermato che il recente provvedimento non influenzerà neanche gli sforzi per la ripresa a lungo termine dell zone degli Stati Uniti colpite da eventi catastrofici l Paese.
La decisione riguardante lo storno dei fondi è stata fortemente criticata dall’opposizione democratica. Il piano dell’amministrazione Trump di dirottare denaro dal Fondo di emergenza per le catastrofi naturali proprio all’inizio della stagione degli uragani, «per continuare a separare e imprigionare le famiglie di migranti è crudele», ha dichiarato il leader della minoranza democratica in Senato, Chuck Schumer. «Prendendo questi fondi», ha aggiunto Schumer, «fondamentali per la prevenzione delle catastrofi e gli sforzi di ricostruzione minaccia la vita e indebolisce la capacità del governo di aiutare gli americani».
L’Osservatore Romano, 28-29 agosto 2019.

Gli invitati alle Nozze. Il vangelo della XXII domenica del tempo ordinario

«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto».

Questo Vangelo è certamente una chiamata all’umiltà, ed è una luce sempre imprescindibile nella nostra avventura di cristiani: ma questo tema lo troviamo anche nella bellissima prima lettura della liturgia; e forse possiamo permetterci di andare a un livello ulteriore.

Noi cristiani sappiamo che le vere nozze sono quelle dell’Agnello — la liturgia originariamente direbbe: «Beati qui ad Cenam Agni vocati sunt», con riferimento alla grande scena delle nozze dell’Agnello con la sua sposa, la Chiesa, di Ap 19,7.9.

Invitati a queste Nozze che sono il Regno di Dio, noi siamo la Sposa dell’Agnello. Tale invito implica uno stile: in queste Nozze si entra senza mettersi al primo posto.

Abbiamo pensato spesso che il nostro compito fosse farci avanti, mostrarci, sottolineare la nostra presenza, proporci e avere un ruolo importante. Ma san Paolo dice: «Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini» (1Cor 4,9).

A ben vedere il vero problema qual è? Né il primo né l’ultimo posto, ma quello che ci assegna il Padre!

Ci scervelliamo per essere visibili, ma questo è affar Suo. Non c’è da salire sul pinnacolo del tempio, ma se siamo la luce che deve splendere davanti agli uomini, è lui che la accende e la mette sul candelabro (Mt 5,15s).

San Massimiliano Kolbe, posto sul candelabro ad Auschwitz, entrò nelle Nozze diventando una carne sola con lo Sposo, dando spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini.

Quando iniziamo a lasciarci assegnare il posto, sperimentiamo la creatività del Padre che fa le sue scelte sorprendenti e salva il mondo per mezzo di ciò che è stolto, debole, ignobile e disprezzato (1Cor 1,27s).

Allora capiamo perché è opportuno invitare alla cena «poveri, storpi, zoppi, ciechi». Sono coloro a cui si annunzia la Buona Novella. Questi ci faranno entrare «nella resurrezione dei giusti».

di Fabio Rosini – Osservatore Romano

La liturgia non è un “fai-da-te” ma l’epifania della comunione ecclesiale

da Osservatore Romano

“La liturgia non è il campo del ‘fai-da-te’, ma l’epifania della comunione ecclesiale”. Queste parole di Papa Francesco sono al centro del messaggio – a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin – ai partecipanti alla settantesima settimana liturgica nazionale, che si apre nel pomeriggio di lunedì 26 agosto a Messina con i vespri presieduti dal vescovo Claudio Magnano, presidente del Centro di azione liturgica. “Il Santo Padre – scrive tra l’altro il porporato – auspica che dalle celebrazioni e dalle riflessioni della Settimana maturi la consapevolezza che la liturgia è luogo privilegiato in cui la santità di Dio ci attira a sé con la sua bellezza, la sua verità e la sua bontà”. Da questa coscienza, prosegue, deriva il compito “prezioso” affidato dal Papa ai convegnisti: “diffondere nel Popolo di Dio lo splendore del mistero vivo del Signore, che si manifesta nella liturgia, con una formazione liturgica protesa a far prendere coscienza a tutti del ruolo insostituibile della liturgia nella e per la Chiesa”.

Il Magnificat e l’arte del rammendo

Con una riflessione su «La sua misericordia di generazione in generazione. Il Magnificat di Maria, uno sguardo nuovo su Dio e sul mondo» — della quale pubblichiamo quasi per intero la parte conclusiva — il predicatore della Casa Pontificia apre nel pomeriggio del 24 agosto, nella basilica di Collemaggio, il programma religioso della 725ª Perdonanza Celestiniana.

da Osservatore Romano

Bradi Barth, «Visitazione»

Sarebbe un fraintendere completamente il Magnificat se lo confinassimo solo nell’ambito delle cose che la Chiesa e il credente devono predicare al mondo. Qui non si tratta di qualcosa che si deve solo predicare, ma di qualcosa che si deve anzitutto praticare. Maria può proclamare la beatitudine degli umili e dei poveri perché è lei stessa tra gli umili e i poveri. Il rovesciamento da lei prospettato deve avvenire anzitutto nell’intimo di chi ripete il Magnificat e prega con esso.

Dio — dice Maria — ha rovesciato i superbi «nei pensieri del loro cuore». Di colpo, il discorso è portato da fuori a dentro, dalle discussioni teologiche, in cui tutti hanno ragione, ai pensieri del cuore, in cui tutti abbiamo torto. L’uomo che vive “per se stesso”, il cui Dio non è il Signore, ma il proprio “io”, è un uomo che si è costruito un trono e vi siede sopra dettando legge agli altri. Ora Dio — dice Maria — rovescia questi tali dal loro trono; mette a nudo la loro non-verità e ingiustizia. C’è un mondo interiore, fatto di pensieri, volontà, desideri e passioni, dal quale — dice san Giacomo — provengono le guerre e le liti, le ingiustizie e i soprusi che sono in mezzo a noi (cfr. Gc 4, 1) e finché nessuno comincia con il risanare questa radice, nulla cambia veramente nel mondo e se qualcosa cambia è per riprodurre, di lì a poco, la stessa situazione di prima.

Come ci raggiunge da vicino il cantico di Maria, come ci scruta a fondo e come mette davvero «la scure alla radice»! Che stoltezza e incoerenza sarebbe la mia se ogni giorno, ai Vespri, ripetessi, con Maria, che Dio «ha rovesciato i potenti dai troni» e intanto continuassi a bramare il potere e imporre la mia volontà su chi mi sta intorno; se ogni giorno proclamassi, con Maria, che Dio «ha rimandato i ricchi a mani vuote» e intanto bramassi senza posa di arricchire e di possedere sempre più cose e cose sempre più raffinate, magari ottenute con mezzi disonesti. Che stoltezza sarebbe la mia se continuassi a ripetere, con Maria, che Dio «guarda verso gli umili», che si accosta a loro, mentre tiene a distanza i superbi e i ricchi di tutto, e poi fossi di quelli che fanno esattamente il contrario.

Così facendo, Maria ci esorta, con dolcezza materna, a imitare Dio, a far nostra la sua scelta. Ci insegna le vie di Dio. Il Magnificat è davvero una meravigliosa scuola di sapienza evangelica. Una scuola di conversione continua. Come tutta la Scrittura, esso è uno specchio (cfr. Gc 1, 23) e sappiamo che, dello specchio, si possono fare due usi molto diversi. Lo si può usare rivolto verso l’esterno, verso gli altri, come specchio ustorio, proiettando la luce del sole verso un punto lontano fino a incendiarlo, come fece Archimede con le navi romane, oppure lo si può usare tenendolo rivolto verso di sé, per vedere in esso il proprio volto e correggerne i difetti e le brutture.

Il Magnificat inizia e termina con la parola misericordia. Dio, dice nell’ultimo versetto, «si è ricordato della sua misericordia». La parola misericordia ricorre nella Bibbia in due contesti e con due significati diversi, anche se interdipendenti. Nella prima e originale accezione, esso indica il sentimento che Dio nutre verso le sue creature; nella seconda, indica il sentimento che le creature devono nutrire le une verso le altre. Dalla misericordia come dono si passa alla misericordia come dovere.

Quello che si dice della misericordia si applica, allo stesso titolo, alla parola Perdonanza. La Perdonanza concessa da Papa Celestino consisteva anzitutto nel perdono di Dio, nella remissione dei peccati; offriva quella stessa indulgenza plenaria per ottenere la quale i cristiani del tempo erano costretti a recarsi in pellegrinaggio in Terra santa o ad altri santuari. Ma perdonanza implicava anche il perdono reciproco, la riconciliazione tra le opposte fazioni, tra famiglie e persone. Non possiamo terminare senza parlare anche di questa misericordia “orizzontale” che è la conseguenza diretta del perdono di Dio. «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro celeste», «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia», ci dice Gesù.

La parabola dei due servitori (Mt 18, 23ss) è la chiave per interpretare correttamente il rapporto tra la misericordia di Dio e quella dell’uomo. Quello che Gesù ha voluto dirci è che dobbiamo essere misericordiosi, non per ottenere misericordia, ma perché abbiamo ottenuto misericordia; dobbiamo perdonare, non tanto perché Dio perdoni noi, ma perché Dio ha perdonato e perdona continuamente a noi. La misericordia di Dio è senza condizioni, ma non è senza conseguenze!

Tali conseguenze consistono, concretamente, nelle opere di misericordia. La Chiesa inculca sette cosiddette “opere di misericordia corporale” che sono poi le stesse elencate da Gesù nel Vangelo: «dar da mangiare agli affamati; dar da bere agli assetati; vestire gli ignudi; alloggiare i pellegrini; visitare gli infermi; visitare i carcerati, seppellire i morti. A queste opere di misericordia corporale, corrispondono altrettante “opere di misericordia spirituale”: consigliare i dubbiosi; insegnare agli ignoranti; ammonire i peccatori; consolare gli afflitti; perdonare le offese; sopportare pazientemente le persone moleste; pregare Dio per i vivi e per i morti.

Queste liste, come sempre, sono indicative, non esclusive. Esse, anzi, andrebbero aggiornate e adattate ai tempi e alle nuove miserie corporali e spirituali dell’umanità. Alle opere di misericordia corporale, per esempio, oggi si dovrebbe aggiungere: «prendersi cura degli anziani» e alle opere di misericordia spirituale: «educare i propri figli», non permettere che i loro soli maestri siano gli estranei o i mezzi di comunicazione sociale.

Ma non si tratta soltanto di aggiungere alcune nuove opere di misericordia a quelle antiche. A conclusione dell’anno giubilare della misericordia papa Francesco scrisse una esortazione apostolica intitolataMisericordia et misera. Il titolo allude all’incontro tra la «misericordia» che è Gesù e la «misera» che è l’adultera del vangelo; in altre parole, l’incontro tra la misericordia di Dio e la miseria umana. In essa il Papa scrive tra l’altro: «Siamo chiamati a far crescere una cultura della misericordia, basata sulla riscoperta dell’incontro con gli altri: una cultura in cui nessuno guarda all’altro con indifferenza né gira lo sguardo quando vede la sofferenza dei fratelli. Le opere di misericordia sono “artigianali”: nessuna di esse è uguale all’altra; le nostre mani possono modellarle in mille modi, e anche se unico è Dio che le ispira e unica la “materia” di cui sono fatte, cioè la misericordia stessa, ciascuna acquista una forma diversa […] La cultura della misericordia si forma nella preghiera assidua, nella docile apertura all’azione dello Spirito, nella familiarità con la vita dei santi e nella vicinanza concreta ai poveri. È un invito pressante a non fraintendere dove è determinante impegnarsi. La tentazione di fare la “teoria della misericordia” si supera nella misura in cui questa si fa vita quotidiana di partecipazione e condivisione».

Non solo dunque “opere di misericordia”, ma una cultura di misericordia! Sono ben note le parole che lo scrittore russo Dostoevskij pone in bocca a uno dei personaggi a lui più cari: «Il mondo sarà salvato dalla bellezza». Ma, a quella affermazione, egli fa seguire subito una domanda: «Quale bellezza salverà il mondo?». È chiaro, anche per lui, che non ogni bellezza salverà il mondo; c’è una bellezza che può salvare il mondo e una bellezza che può perderlo. Di qui la sua conclusione: «Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello, il Cristo, e l’apparizione di questo essere infinitamente bello è di certo un infinito miracolo». La bellezza di Gesù è la sua misericordia ed è essa che salverà il mondo. Non dunque l’amore della bellezza, ma la bellezza dell’amore.

La misericordia che salva il mondo, salva anche la cosa più preziosa e più fragile che c’è in questo momento nel mondo, il matrimonio e la famiglia. Avviene, nel matrimonio, qualcosa di simile a quello che abbiamo visto è avvenuto nei rapporti tra Dio e l’umanità. Non per nulla la Bibbia descrive questo rapporto con l’immagine di uno sposalizio. All’inizio di tutto, dicevamo, c’è in Dio l’amore, non la misericordia; questa interviene soltanto dopo la creazione e la ribellione umana.

Qualcosa del genere, dicevo, avviene nel matrimonio. All’inizio non c’è, tra marito e moglie, la misericordia (guai a sposarsi per misericordia!); c’è l’amore, e un amore spesso travolgente. Ma poi, dopo anni, o mesi di vita insieme, emergono i limiti reciproci, i problemi, di salute o di finanze, interviene l’abitudine. Quello che può salvare un matrimonio dallo scivolare in una china senza risalita è la misericordia, intesa nel senso pregnante della Bibbia, e cioè non solo come perdono delle offese, ma anche come compassione e tenerezza. All’eros si aggiunge l’agape, all’amore erotico, l’amore di dedizione e di sofferenza, senza, tuttavia che vada perduto l’eros che dovrebbe perdurare sempre tra gli sposi. San Paolo dava queste raccomandazioni che valgono in modo speciale per i coniugi: «Rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro» (Col 3, 12-13).

La misericordia, come si vede, non si esaurisce nel perdono degli sbagli altrui; indica tutto un insieme di atteggiamenti fatto di pazienza, di comprensione, e soprattutto di tenerezza.

Il matrimonio risente oggi della mentalità corrente dell’“usa e getta”. Se un apparecchio o uno strumento subisce qualche danno o una piccola ammaccatura, non si pensa a ripararlo (sono scomparsi ormai quelli che facevano questi mestieri), ma si pensa subito a sostituirlo. Si vuole la cosa nuova di zecca. Applicata al matrimonio, questa mentalità risulta del tutto errata e micidiale. Il matrimonio non è come un vaso di porcellana che si può solo sciupare con il passare del tempo, mai migliorare, e una volta che ha avuto un piccolo screzio, anche se incollato, perde quasi tutto il suo pregio.

Il matrimonio appartiene all’ambito della vita e ne segue la legge. La vita non si mantiene come sotto una campana di vetro, al riparo da urti, cambiamenti e agenti atmosferici? La vita è fatta di continue perdite che l’organismo impara a riparare quotidianamente, di attacchi di agenti e virus di ogni tipo che l’organismo prevede e sconfigge, facendo entrare in azione i propri anticorpi. Almeno finché esso è sano. Il matrimonio dovrebbe essere come il vino che, invecchiando, migliora, non peggiora.

Solo la misericordia reciproca è capace di operare questo miracolo. Che cosa suggerire allora ai coniugi che vorrebbero almeno tentare questa strada? Una cosa semplicissima: riscoprire un’arte dimenticata in cui eccellevano le nostre nonne e mamme: il rammendo! Alla mentalità dell’“usa e getta” bisogna sostituire quella dell’“usa e rammenda”. Non c’è bisogno di spiegare cosa significa rammendare gli strappi nella vita di coppia. San Paolo dava ottimi consigli a questo riguardo: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira e non date occasioni al diavolo», «sopportatevi a vicenda, perdonandovi se qualcuno abbia di che lamentarsi dell’altro», «portate i pesi gli uni degli altri» (cfr. Ef 4, 26-27; Col 3, 13; Gal 6, 2).

Non bisogna permettere che il nemico inserisca un cuneo tra sé e l’altro. Si dice: «L’amore non è bello se non è litigarello». Attenti però a non ingannarsi. Questo può essere vero se i piccoli litigi vengono subito superati e ci si riconcilia, altrimenti si trasforma in una lite permanente. La “perdonanza” deve cominciare dentro casa, tra marito e moglie, tra genitori e figli. Se no è solo folklore!

Gesù fece il suo primo miracolo, a Cana di Galilea, per salvare la felicità dei due sposi. Cambiò l’acqua in vino, e tutti alla fine si trovarono d’accordo nel dire che il vino servito per ultimo era stato il migliore. Credo che Gesù sia pronto anche oggi, se lo si invita alle proprie nozze, a operare questo miracolo e far sì che il vino ultimo — l’amore e l’unità degli anni della maturità e della vecchiaia — sia migliore di quello della prima ora.

di Raniero Cantalamessa

M5S ANNULLA IL VERTICE COL PD DELLE 11, ‘PRIMA SÌ A CONTE’

STOP DI DI MAIO, ZINGARETTI RINVIA A DOMANI LA DIREZIONE DEM Si inceppa la trattativa M5s-Pd per il governo. I Cinque Stelle annullano il vertice con i Dem previsto per le 11. ‘Inutile vedersi senza pèrima un sì ufficiale a Conte premier’, fanno sapere dal MoVimento e Di Maio, ai suoi, dice di essere ‘stanco di giochini’. Lettura opposta dal Nazareno, dove non commentano la nota grillina e Zingaretti è riunito con i big del Pd per valutare la situazione: sarebbero le divisioni tra i 5S a frenare il negoziato. Per questo è stata rinviata a domattina alle 10 la Direzione Dem prevista per le 10. Il senatore pentastellato Paragone fa sapere che non voterà la fiducia a un governo giallo-rosso, se dovesse nascere. I mercati, invece, credono al governo: lo spread è in deciso calo a quota 187, Milano guida le Borse europee con +0.5%.

ansa