Il Sud non può rassegnarsi alla «fuga» dei suoi giovani

I flussi in uscita denunciati dal rapporto Svimez sono un sintomo grave. È indispensabile sfidare il pessimismo
Il Sud non può rassegnarsi alla «fuga» dei suoi giovani

Se non conoscesse – tragicamente – quelli veri, si potrebbe dire che il Mezzogiorno è colpito a ondate da terremoti di cifre di cui, con largo anticipo, è possibile prevedere il segno e l’intensità. C’è solo una caratteristica che li distingue: le analisi e i rapporti sul Meridione d’Italia appartengono quasi in ugual misura sia alle scienze economiche che alla letteratura. Quando i conti non tornano, i numeri non possono far altro che chiedere soccorso alle parole. Si spiega anche così la consistenza letteraria della ‘questione meridionale’ che, a partire dal nome e per l’usura del tempo, evoca più archivi e scaffali che una vera e propria emergenza sociale, quale da tempo è.

Mediaticamente adagiata sul quieto vivere, e in coincidenza con appuntamenti programmati – quello recente del Rapporto Svimez è tra i più importanti –, la ‘questione’ è presa da un sobbalzo, un sisma d’avvio seguito da tante repliche, proprio come in un sommovimento di terra e di pietre. Si tratta in questo caso di parole, in un certo senso la somma spuria di cifre che danno conto di una condanna aggravata e continuata. Sotto processo è il Mezzogiorno, la sua politica di governo e la politica di governo in generale, l’inerzia, i ritardi, quel passo lento diventato insopportabile perché – ci si accorge – i danni non sono soltanto per il Sud ma arrivano a spalmarsi e a intaccare anche le aree forti, tanto da indurle a reclamare, a propria difesa, forme di autonomia regionale più accentuata. Quando ciò accade, e cifre alla mano è un dato che può essere accertato, ecco che anche la vecchia e mai doma ‘questione’ ritorna in primo piano. E ogni rapporto, a cominciare da quello della Svimez, si legge con la sirena d’allarme azionata a tutto volume.

Sono anni che non le cifre ma la realtà di un Meridione che ha spalancato in uscita le sue porte di casa offre al Paese lo spettacolo triste di un popolo in fuga. Certo, è un esodo di cui è difficile accorgersi tra i tanti altri, segnati quasi tutti da tragedie, che attraversano questo tempo di grandi e piccole migrazioni. Ma almeno questa frontiera di casa già spalancata negli anni del boom e dello sviluppo industriale verso il triangolo del Nord produttivo aveva tutto il diritto di restare sbarrata; di essere protetta e magari perlustrata a vista per mettere un argine a questa seconda e più massiccia trasmigrazione. Qui sì che occorrevano, metaforicamente, porti (e aeroporti) chiusi e l’energia positiva e non gradassa – quindi scelte, progetti, provvedimenti – per rimandare indietro (nel senso di tenerla stretta a sé) un’ondata che andava a delocalizzare in altre aree troppo di ciò che per il Mezzogiorno è tuttora necessario: giovinezza, energia, vitalità, competenza, inventiva, insieme al naturale apporto di speranza e coraggio.

Non era possibile non accorgersi di ciò che stava avvenendo poiché gli stessi dati che sulla base delle cifre (il Pil per l’anno in corso col segno negativo – meno 0,3 per cento al di sotto della già asfittica media nazionale –, la spaventosa cifre dei 2 milioni di migranti negli ultimi 15 anni) tratteggiano a tinte fosche il futuro del Mezzogiorno, anche se lasciano per altri versi intravvedere non solo ‘isole’ ma territori interi di vera e propria eccellenza che testimoniano potenzialità altissime e concrete. S ono dati da ultima spiaggia, eppure non corrispondenti a una realtà che i numeri non riescono a leggere. Solo la politica – tutta, purtroppo, la vecchia e la nuova – non ha avuto occhi per vedere i segni di trasformazione e magari incoraggiarli, come largamente ha fatto invece la società civile, con le comunità ecclesiali in prima linea.

Non è un caso che tra i testi fondamentali del meridionalismo occorra citare ancora oggi la famosa Lettera collettiva dei Vescovi del Mezzogiorno del 1948, più volte ripresa, aggiornata e fatta propria dall’intera Chiesa italiana negli ultimi anni. Il Sud trattato come terra di conquista elettorale non poteva che dare il risultato di mettere alla porta – espellere, di fatto – una moltitudine di giovani che, quasi tutti con la laurea in tasca, hanno fatto le valigie. Non quelle di cartone, di altre generazioni, da caricare sui treni della speranza, ma computer e viaggio aereo come segno di una modernità che non rende certo più lieve la sottrazione di futuro inflitta alla terra di origine.

Per il Sud è stato come essere colpito al cuore: nessun indice è più spietato di quei milioni di migranti per lavoro che, inevitabilmente, lasciano pensare, più che al loro singolo futuro, a ciò che lasciano dietro: una terra bruciata, cosparsa dalle rovine di un colossale incendio doloso, continuamente alimentato dai tizzoni accesi di uno spopolamento a vista d’occhio. Le cifre del rapporto Svimez indicano solo parzialmente le dimensioni del disastro, proprio perché ai numeri serve poi la parola per esprimersi a fondo. Non possono dar conto, da soli, di quanta speranza e quanto coraggio venga sottratto a una terra vissuta di questo. Non esiste infatti – perché si misura unicamente coi parametri della vita vera – il Pil di quell’umanità piena e vitale di cui il Meridione, con tutte le sue contraddizioni, è terra di nascita e di adozione.

Qui si entra tuttavia nel primato delle parole, nel versante letterario di quell’antica ‘questione meridionale’ che – occorre riconoscerlo – con i suoi testi e i suoi orientamenti ha dato per tempo (e in largo anticipo anche rispetto agli istituti di ricerca) l’allarme su ciò che si preparava. Nessuna antologia è più ricca di voci dell’anima di quella che ha accompagnato negli anni gli stenti e i Il Pil inferiore persino a quello già flebile del Paese non deve impedire di vedere territori interi con vere eccellenze che testimoniano potenzialità di sviluppo passi avanti, la fiducia e il pessimismo di una parte del Paese gravata anche dal peso di una diffusa rassegnazione. Innanzitutto la propria, poiché in ogni onesto discorso sul Meridione nessuna dose di autocritica sembra mai eccessiva. E chi, accanto alle straordinarie risorse, non tiene conto dei micidiali contrappesi di una criminalità sempre più spietata e di un tasso di clientelismo che spalanca la strada a ogni forma di corruzione non gioca certo a suo favore.

A fronte della vastissima produzione letteraria, tra romanzi, commedie, rappresentazioni di ogni tipo, e il corredo di ponderose analisi, studi e rapporti di natura tecnica, pirandellianamente il Sud continua essere «uno, nessuno e centomila» e a sottrarsi così al processo intentato dai numeri a carico. Sono numeri di condanna, nessun dubbio. Ma sono anche numeri che danno alibi a chi ormai pensa che il Mezzogiorno sia perduto e che occorra guardare oltre, senza preoccuparsi più di tanto se l’ultimo vagone della fila rischia di deragliare. Basta che il treno vada… (ammesso che sia vero). È la filosofia – oltre che la politica corrente – di stretta marca ‘primatista’. Prima gli italiani, in senso generale. Prima i numeri, quando si tratta non di risolvere ma di schivare un problema.

da Avvenire

La crisi. Mattarella: nuove consultazioni martedì, ma occorre decidere in fretta

Per il Presidente l’Italia non può attendere: o c’è una maggioranza parlamentare chiara o si va al voto.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (Ansa)

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (Ansa)

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è stato chiaro: il Paese non può aspettare, occorrono tempi brevi, o c’è un accordo chiaro parlamentare oppure si torna alle urne. Lo ha affermato alle 20, al termine della seconda giornata di consultazioni con i partiti al Quirinale.

E poiché da parte delle forze politiche ascoltate è stato fatto presente che è in atto un confronto che potrebbe portare a un’intesa supportata da una maggioranza parlamentare, Mattarella ha deciso di dare alcuni giorni di tempo ai partiti. Appuntamento quindi a martedì prossimo, 27 agosto, per un secondo giro di consultazioni.

Retroscena. Le partite parallele dei tre leader. Sfida a scacchi per un governo

da Avvenire

Il segretario del Pd Zingaretti preoccupato per i conti. Di Maio tace, ma non chiude al Carroccio. Salvini cerca di riaprire al M5s. Il nodo del nome del premier
Tra i nodi da sciogliere il nome del premier che verrà dopo Conte (nella foto Ansa)

Tra i nodi da sciogliere il nome del premier che verrà dopo Conte (nella foto Ansa)

Alla chetichella, con passo felpato, gli uomini di Zingaretti sono sbarcati a Roma per aiutare il “capo” a fare il punto. E il segretario dem ha messo sotto il naso dei suoi pontieri di fiducia un documento che fonti vicine al Tesoro gli hanno preparato: una vera e propria “due diligence” sui conti pubblici in vista della manovra che ha spaventato, e non poco, il governatore del Lazio. È il documento che fa dire a Zingaretti, durante la Direzione dem, che «abbiamo davanti una manovra mostruosa». Mostruosa, non difficile. Roba da stomaci forti. Già, ma ce ne sono in giro? C’è un premier per un’impresa del genere? E potenziali ministri con alto profilo politico e istituzionale, se ne vedono da una parte e dall’altra? Zingaretti non nasconde un filo di scetticismo e ammette che al momento l’unico “orizzonte” che tiene in piedi il negoziato con M5s è la necessità di allontanare Salvini da Palazzo Chigi. È poco, lo sa bene il leader dem e soprattutto lo ha detto chiaramente il capo dello Stato alle prime delegazioni salite al Colle.

I timori del segretario, il pressing dei gruppi
Il giorno decisivo per la trattativa tra dem e pentastellati è oggi. Zingaretti farà un altro passo avanti chiedendo un tavolo ufficiale. Sembra anche pronto a rimuovere il veto su Conte, ma il problema, ora, è che il premier dimissionario si è preso dei giorni di silenzio e riflessione che preoccupano molto anche M5s. Sembra provato dalla fine clamorosa dell’esecutivo con la Lega, il presidente del Consiglio dimissionario, e non è convintissimo delle prospettive che si aprono. È rimasto colpito anche dalla velocità con cui il Movimento ha fatto filtrare la voce per cui lui sarebbe “sacrificabile” nei nuovi scenari, anche se poi la voce è rientrata e ora c’è un pressing dell’intero M5s – a partire da Di Maio – perché dia la disponibilità a concedere un “bis” a Palazzo Chigi o quantomeno si faccia indicare come commissario a Bruxelles.

Ma il fatto che l’unico nome per la casella di premier sia quello di Conte dice la difficoltà di Pd e M5s ad aprire una fase nuova. Fico non convince. Poi ci sono ipotesi: Cantone, Giovannini, Cottarelli. C’è anche la consapevolezza, fronte dem, che bisogna allargare la cintura protettiva del possibile esecutivo, coinvolgere istituzioni di garanzia (Bankitalia, ad esempio) e pezzi di Paese (imprese, sindacati, terzo settore). Ma il tempo stringe e Mattarella non sembra voler fare sconti né mettere mano a uno “scouting” per conto dei partiti. Pur consapevole di queste difficoltà, Zingaretti (che non entrerebbe nella squadra di governo) è quasi costretto a proseguire nel negoziato per non essere scavalcato e delegittimato dai gruppi parlamentari, che vogliono un esecutivo e non molleranno.

Le telefonate di Salvini: lasciate tutto aperto…
Tra una conferenza stampa e l’altra, Salvini ha l’orecchio attaccato al telefono. Ha incaricato i fedelissimi di tenere aperti i canali di M5s. «Vogliono tornare indietro? – chiede a uno degli sherpa che sembra portargli buone notizie –, ma come fanno, dai… dopo tutto quello che hanno detto! Però porte aperte, mi raccomando, sino alla fine…». Difficile decriptare il senso di questo atteggiamento apparentemente ondivago. La prima sensazione è che Salvini voglia riempire di mine e depistaggi la strada che fa incrociare M5s e Pd. Addirittura, fonti leghiste affermano che almeno 15 parlamentari pentastellati sarebbero disponibili a sostenere in questa legislatura un governo di centrodestra. La seconda sensazione è che il capo della Lega davvero preferirebbe riprendere il cammino con il Movimento almeno per qualche mese. La sua strategia è un rebus.

Di Maio tace ma non chiude del tutto al Carroccio.

A fronte di una Lega aggressiva che prefigura scissioni in M5s, il Movimento fa trapelare altre liste di responsabili (di estrazione forzista) per appoggiare un nuovo esecutivo. È una guerra di nervi. Ma ufficialmente Di Maio è nel silenzio più totale. Non vuole compromettersi. Vuole vedere le carte dem. Fosse ancora il capo indiscusso, sceglierebbe la “catarsi” del voto. Ma anche lui ha gruppi che non vogliono andare a casa. Il che vuol dire due cose, una successiva all’altra: prima si parla con il Pd. Poi si prenderebbe in considerazione la proposta indecente di tornare con la Lega. Ma senza Conte, che non ne vuole più sapere. E non è affare da poco.

TOTO PREMIER La «buona politica» di Marta Cartabia, che cita papa Francesco

Il nome della vice presidente della Corte costituzionale circola nella lista dei possibili candidati alla presidenza del Consiglio. Nella prefazione al libro di padre Occhetta c’è qualche “indizio” della sua visione politica

di Francesca Milano

«L’urgenza della buona politica: non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza delle fazioni, delle ideologie o dei centri di interessi, o addirittura preda della corruzione; ma della buona politica, che è, cioè, capace di includere, che sa essere coraggiosa e prudente allo stesso tempo, responsabile, collaborativa, disposta a lasciare le sue buone idee, senza abbandonarle, per metterle in discussione con tutti nella ricerca del bene comune».

Sta in questa frase – inserita nella prefazione al libro di padre Francesco Occhetta “Ricostruiamo la politica. Orientarsi nel tempo dei populismi” – il pensiero di Marta Cartabia, vice presidente della Corte costituzionale dal 2014 e oggi tra i nomi papabili per la presidenza del Consiglio, che proprio in queste ore si trova sul Gran Paradiso con marito e figli.

Cartabia ha 56 anni ed è professore ordinario di diritto costituzionale all’Università Bicocca di Milano. È nata a San Giorgio su Legnano e si è laureata con lode in giurisprudenza all’Università degli Studi di Milano nel 1987 con una tesi dal titolo «Esiste un diritto costituzionale europeo?».

Già lo scorso anno il nome di Marta Cartabia era comparso nella lista dei possibili premier e anche lo scorso 13 agosto – come riportato dal Sole 24 Ore – si era tornati a fare il suo nome.

«Marta Cartabia potrebbe essere un’ottima candidata a Palazzo Chigi, attuale giudice costituzionale, docente universitario, persona colta, fidabile e affidabile, non appartiene a partiti ma ha ampia visione politica», scrive su Twitter proprio padre Occhetta, autore del libro per il quale Cartabia ha scritto una prefazione che va da papa Francesco a Carl Schmitt, il filosofo che ha teorizzato la politica dell’amicus-hostis.

All’idea di una società fondata sull’ostilità e sulla costante ricerca di un nemico («L’identificazione di un nemico, la sua distruzione e la contrapposizione frontale con tutte le sue proposte e, infine, la guerra sono le caratteristiche ricorrenti nella storia di ogni agire politico che si fa assoluto, che pretende di collocare il cielo in terra», scrive Cartabia) la candidata premier contrappone una politica “francescana” basata sulla «concordia polifonica dei diversi».

Riferendosi al papa, la vice presidente della Corte costituzionale scrive che «il suo è un pensiero della riconciliazione» e, riferendosi al libro di padre Occhetta, scrive che «il primo merito di questo volume è anzitutto quello di raccogliere il richiamo del Pontefice a non trascurare la dimensione pubblica della vita di fede».