Giovani / Non fatevi rubare i sogni, sono il futuro

Settimana News

Riprendiamo di seguito il testo dell’intervento tenuto dal presidente della CEI al Meeting di Rimini lo scorso lunedì 19 agosto 2019 (dal sito della conferenza episcopale italiana).

bassetti

Cari amici e care amiche,

rivolgo un saluto affettuoso agli organizzatori, ai volontari e a tutti i presenti. Vi ringrazio di cuore per l’invito che mi avete fatto. Un invito che ho accolto con gioia perché per me è sempre un piacere e un onore venire al Meeting.

“Non fatevi rubare i sogni, sono il futuro”. È un bellissimo titolo quello che avete scelto per questo incontro. Un titolo che rappresenta una sfida perché oggi parlare di “sogni” e di “futuro”, soprattutto se riferito ai giovani, potrebbe far pensare superficialmente ad una prospettiva di spensieratezza oppure alla dimensione della carriera. Ma non è così. Ben più alta è la meta a cui i nostri giovani sono chiamati. Una meta di cui si possono trovare le coordinate nell’Esortazione post-sinodale Christus vivit. Voglio iniziare questo mio breve intervento citandone un piccolo passo:

Se hai perso il vigore interiore, i sogni, l’entusiasmo, la speranza e la generosità, davanti a te si presenta Gesù come si presentò davanti al figlio morto della vedova, e con tutta la sua potenza di Risorto il Signore ti esorta: «Ragazzo, dico a te, alzati!» (Lc 7,14).

Si tratta di un passaggio importante perché mette in evidenza almeno tre elementi importanti: la speranza, lafede e la concretezza. Da ormai molti decenni, nel discorso pubblico, è usuale parlare dei giovani attraverso un linguaggio denso di retorica e buoni sentimenti, ma con poca attenzione alla vita concreta dei ragazzi e soprattutto con un discutibile senso di responsabilità verso di loro. Quando parlo di vita concreta mi riferisco ovviamente ad una vita piena in cui la dimensione spirituale ha un peso importante. Una dimensione spirituale che non cancella né la capacità di sognare e né la volontà di aiutare l’altro.

Vorrei ricordare, a questo proposito, la figura di una donna che ci ha lasciato pochi giorni fa, ma che ha incarnato la dimensione della fede, la capacità di sognare e la capacità concreta di aiutare le giovani donne e i piccoli. Mi riferisco a Paola Bonzi, la fondatrice del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli di Milano che è stata capace di “ridare il sorriso alle mamme” e di dare la vita a migliaia di bambini. A Paola che ha dedicato la sua vita interamente ai giovanissimi vorrei dire, a nome mio e della Chiesa italiana, grazie per tutto quello che hai fatto.

La concretezza di andare verso il prossimo, dunque, non è in contrapposizione con la capacità di sognare. Anzi, sono due dimensioni intimamente legate e tenute assieme dalla gioia di seguire Gesù abbandonando le sicurezze del mondo. Il desiderio di successo personale, di farsi dio di se stessi e di possedere somme ingenti di denaro rappresentano i grandi miti della nostra società. Più di ogni ideologia politica, le giovani generazioni rischiano di essere attratte da un materialismo nichilista senza alcuna cura verso l’altro che sta nella sofferenza e senza uno slancio autentico verso il futuro.

Oggi, molti giovani, condizionati da una società edonista che troppo spesso banalizza le amicizie e i rapporti umani, conducono una vita individualistica che non permette di apprezzare, fino in fondo, il senso del “vivere insieme”. Questo è a mio avviso uno snodo decisivo: occorre restituire il significato profondo del concetto direlazione. Perché è solo attraverso la relazione con gli altri che un giovane può diventare parte di un corpo vivo: di una famiglia, di una comunità cittadina, di una scuola, di un’associazione e di una comunità ecclesiale.

Quando parlo del concetto di relazione mi riferisco ad almeno tre dimensioni. Innanzitutto, la relazione con il corpo. È la prima forma di relazione che abbiamo con noi stessi e poi con gli altri. Attraverso il corpo impariamo a conoscerci ma anche a conoscere chi ci sta di fronte. Conosciamo la fisicità, la limitatezza e le differenze tra i corpi: la differenza tra maschile e femminile, e la differenza morfologica, come ad esempio il colore della pelle. La dimensione della corporeità è oggi una delle dimensioni più importanti e al tempo stesso più banalizzate dei giovani nel mondo contemporaneo.

Il corpo, infatti, ha fatto irruzione nella società di massa con tutta la carica simbolica impressagli dalla rivoluzione sessuale nel XX secolo. Una rivoluzione che è stata soprattutto giovanile e femminile. Ma il corpo oggi assume anche la carica drammatica delle guerre o delle morti di massa, come le morti dei migranti, trasmesse in video dai mass media. Questo è un punto su cui riflettere a fondo: è fondamentale riattribuire alla relazione con il corpo un significato autentico, combattendo ogni banalizzazione e ogni deriva ideologica. Da questo punto di vista, la riflessione sul corpo di Giovanni Paolo II è di grande importanza.

In secondo luogo, le relazioni interpersonali. Attraverso le relazioni con gli altri, ogni persona diventa un membro di un corpo vivo: è parte di una famiglia, di una comunità cittadina, di una scuola, di un’associazione, di una comunità ecclesiale. “Nessun uomo è un’isola, in sé completa” scriveva Thomas Merton ma “ognuno è un pezzo di un continente, una parte di un tutto”. Le parole del monaco trappista statunitense ci esortano a riconoscere, dunque, che ogni uomo o donna, per l’amore di Dio che opera nella vita di ogni persona, non è mai solo ma è parte dell’umanità intera.

Eppure proprio oggi questa dimensione dei rapporti interpersonali tra i giovani è una delle questioni più controverse della società attuale. C’è chi ha parlato di liquidità dei rapporti umani e chi ha evocato una società in polvere. Vorrei sottolineare oggi soltanto due aspetti: innanzitutto, la dimensione spersonalizzante di moltissimi giovani che vivono sia nelle grandi metropoli che nelle periferie abbandonate delle nostre città; in secondo luogo, la dimensione di amicizia superficiale e di solitudine delle giovani generazioni che quotidianamente vivono gran parte delle loro relazioni sul web attraverso i telefoni o i computer. I numeri della pornografia su internet, per esempio, sono impressionanti e preoccupanti. Non si può guardare con superficialità a queste problematiche. Occorre fornire una risposta alta e concreta, al senso di spaesamento che respirano i nostri giovani nelle città, e al senso di confusione e di permissivismo che vivono su internet.

E infine, la relazione con il trascendente e con la Chiesa. Ho volutamente richiamato per ultimo quello che è ovviamente la grande questione dei tempi moderni: il rapporto con Dio, con la fede e con la Chiesa in una società secolarizzata. Il rapporto tra i giovani e la Chiesa risente ovviamente del clima sociale ma è senza dubbio un rapporto complesso e non certo univoco: a tratti intenso, a volte intimo, spesso incostante e di breve durata.

Molte volte abbiamo dei giovani che dalla tenera età fino al matrimonio crescono e rimangono all’interno di gruppi ecclesiali. Il più delle volte, però, ci troviamo di fronte dei giovani che hanno un “rapporto a tempo” con la Chiesa: con l’arrivo dell’età adolescenziale questo rapporto in molti casi si incrina fino a rompersi. Spesso seguendo un percorso biografico comune, segnato da un rapporto con il corpo e con gli altri banalizzato, oppure perché scandalizzati dai peccati della Chiesa.

Tutto questo, ci deve far riflettere profondamente e porre più di un interrogativo come pastori, come famiglie e come laici. C’è infatti alla base una grande e irrisolta questione educativa: un’educazione alla fede, al valore della vita e al saper abitare la comunità. Mai come oggi, dunque, siamo chiamati ad essere Chiesa in uscita verso i giovani e penso che siano straordinariamente attuali le parole di Paolo VI quando disse che “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.

A questo proposito, penso che sia estremamente utile un mio ricordo personale che ho già avuto modo di raccontare per la canonizzazione di Paolo VI. Nei primi anni Settanta – in un periodo in cui il rapporto tra la Chiesa e le nuove generazioni era fortemente incrinato – accompagnai in Vaticano, in qualità di Rettore del seminario minore, circa 400 giovani dei Villaggi della Gioventù di Pino Arpioni. Giorgio La Pira guidava il gruppo di giovani pellegrini delle Chiese toscane.

Il Papa rimase piacevolmente colpito da quella presenza giovanile, quasi ammutolito dalla presenza numerosa dei ragazzi. Ad un certo momento si rivolse direttamente all’ex sindaco di Firenze, che conosceva bene e stimava, chiedendogli quali fossero i contenuti della formazione che venivano impartiti a questi giovani. La Pira con il suo solito eloquio appassionato gli rispose che a quei giovani – che vivevano un mondo dove soffiava forte il vento della secolarizzazione – si parlava senza difficoltà di Cristo, della purezza di Maria, stella polare della Chiesa, e della barca di Pietro il cui nocchiero era il Papa.

A quella risposta così inconsueta, seguì una sorta di dialogo pubblico tra La Pira e Montini. Il Pontefice prima sottolineò l’importanza della responsabilità dei maestri verso i propri scolari, e subito dopo pronunciò a bassa voce una sua riflessione sul futuro della Chiesa: “io mi domando spesso”, disse Montini, “cosa diranno gli uomini del futuro della Chiesa dei nostri tempi. Mi augurerei che potessero dire: era una Chiesa che soffriva ma che con tutte le sue forze amava l’uomo”.

In queste parole pronunciate davanti ai giovani pellegrini toscani si può cogliere il senso della sfida odierna del rapporto tra gli adulti e i giovani perché, da un lato, rimanda alla credibilità della testimonianza cristiana e dall’altro lato, evoca la centralità della dimensione della responsabilità nei rapporti umani.

Credibilità e responsabilità che a mio avviso si possono sintetizzare in due parole di straordinaria importanza per le giovani generazioni: vocazione e talenti. Ogni ragazzo, infatti, ha nel suo cuore una vocazione e alcunitalenti e, diciamo pure, di sogni. E ce li ha, non per un particolare capacità umana, ma per un atto di donazione gratuito e unilaterale. Un dono d’amore del Padre. Spetta ad ogni giovane, nella libertà, saper riconoscere questi doni per poi utilizzarli sapientemente nel corso della vita.

Gli adulti hanno però un compito importante: quello dell’annuncio. E in particolare saper annunciare ai nostri giovani che ogni vocazione è “una chiamata d’amore”. Una chiamata a vivere un’esistenza bellissima, che vale la pena di essere vissuta in pienezza. Senza scorciatoie e compromessi. Senza cedere alle lusinghe effimere della società e senza inginocchiarsi ai falsi idoli del mondo. La vita vera è infatti una vita di incontro e non di divisione; una vita di carità e non di potere; una vita di amore e non di sentimenti. Perché saremo giudicati sull’amore. E sull’amore siamo chiamati a discernere la nostra vocazione.

La seconda parola su cui vorrei invitarvi a riflettere è talenti. Una parola importantissima che, purtroppo, è drammaticamente bistrattata. I giovani che io conosco – e che ho conosciuto in molti anni di sacerdozio – sono infatti giovani ricchi. Anzi, ricchissimi. Non di denaro ma di talenti. Nella maggioranza dei casi, però, questitalenti non vengono riconosciuti. Rimangono sepolti nel deserto o, forse dovrei dire, nella palude della nostra società. Ho purtroppo la netta sensazione che il nostro Paese non riesca minimamente a valorizzare i talenti, le capacità e le attitudini dei nostri giovani.

In moltissimi casi, infatti, ci troviamo di fronte a delle persone che vivono un profondo “non senso” esistenziale perché non riescono ad intravedere il futuro. È triste quel Paese che non sa dare speranza ai propri figli! È triste quel Paese che non sa progettare il futuro, che non riesce a sanare le ferite della propria storia.

In questi anni, ho incontrato e conosciuto moltissimi ragazzi che hanno voglia di mettersi in gioco, che hanno desiderio di mostrare le proprie capacità e di applicare quello che hanno studiato, ma hanno perso la speranza di trovare un ruolo e un posto in questa società avida e arida. Hanno perso cioè speranza di trovare un lavoro degno che non sia fatto solo di precarietà e umiliazioni quotidiane. E ormai da tempo si è sviluppato un fenomeno di cui si parla poco sui media: l’incremento costante dell’emigrazione dei giovani italiani all’estero.

Perché è accaduto questo? I motivi sono molti ed estremamente complessi. Quello che però ho visto negli ultimi anni – come Pastore e non certo come analista – è lo sviluppo progressivo di una società vecchia e immobile. Vecchia non solo per l’età quanto per lo spirito. Uno spirito di corporazione e conservazione che fa sopravvivere consorterie e oligarchie, amicizie e spirito di clan.

Ma di fronte a tutto questo, ecco che tornano le parole che ho letto all’inizio. Gesù che dice di fronte al giovane morto: “Ragazzo, dico a te, alzati!”. Ai giovani e alle loro famiglie oggi dico anche io: ragazzi alziamoci, facciamolo insieme, senza paura, con coraggio e gioia pura. Perché, come  ripete spesso Papa Francesco: “non lasciatevi rubare i sogni”; essi non sono pure evasioni, ma fondamento di un futuro tutto da creare con coraggio e con la forza dello Spirito.

Diaconi: missionari delle periferie. Rinnovare la pastorale della carità

diaconi

Il 27° Convegno della Comunità del diaconato in Italia (Vicenza,  31 luglio – 3 agosto 2019) è frutto della efficace sinergia con la Pia Società san Gaetano, che ricorda il 50° della prima ordinazione diaconale, e della collaborazione con Caritas italiana. Un percorso avviato già con gli organismi CEI col Convegno a Cefalù, con l’Ufficio della pastorale della salute.

Una fruttuosa sinergia

Questa intesa nasce anche dal fatto che ormai in Italia un discreto numero di diaconi ricoprono l’incarico di direttori degli uffici della pastorale della salute e delle Caritas diocesane. Una illuminata scelta di diversi vescovi che hanno voluto scommettere su questo ministero. Collaborazione che si è consolidata con la Caritas in occasione di un seminario di studio su Diaconato e carità che si è tenuto presso la Basilica di San Lorenzo Fuori le Mura a Roma, Sede della Comunità, per i diaconi impegnati presso le Caritas diocesane e parrocchiali.

Pertanto, in continuità con questo percorso, la riflessione del Convegno di quest’anno è stata su “Diaconato – Periferie – Missione. Diaconi dispensatori di carità, custodi del servizio”. Giornate, articolate in tre sessioni:diaconia e carità, diaconia e santità, diaconia e missione.

La scelta del tema si colloca dentro il progetto di Chiesa che papa Francesco sta costruendo con fatica e anche in relazione a quanto i vescovi italiani chiedevano già nel ’93: «Il diaconato può dare i suoi frutti migliori nel contesto di progetti pastorali improntati a corresponsabilità chiamato ad animare e a guidare – non a sostituire – la vivacità degli impulsi che lo Spirito suscita nel popolo di Dio» (ON n. 9).

“In uscita” con fiducia

Francesco vuole una Chiesa povera per i poveri, direi “diaconale”. Una Chiesa in uscita. E, per il papa. “uscire” è più un movimento che una dotazione; non costituisce un’attività particolare accanto ad altre, bensì rappresenta lo “stile”, perciò per i diaconi l’uscire dev’essere la forma unificante del loro ministero. Una provocazione, pervenuta dalle relazioni e dai laboratori, che ci aiuta a cogliere il rapporto di reciprocità e lo stretto legame che esiste tra il ruolo del diaconato e la missione globale della Chiesa.

A detta del card. Bassetti (messaggio ai convegnisti), «il ruolo, la funzione e la figura del diacono sono essenziali, sono al fondamento della nostra comunità ecclesiale; sono la base, direi, del nostro stesso vivere civile. […] Il diacono, mescolandosi alla gente in una miriade di situazioni, è la prima linea della carità, quando si manifesta in gesti concreti di accoglienza e dono, ma è anche la retrovia, quando servire significa rendersi invisibile tra gli invisibili».

In queste parole del presidente della CEI, troviamo per i diaconi una precisa indicazione, un grande compito per il nostro tempo. Si apre, così, una prospettiva nuova per il ministero diaconale: si può uscire con fiducia; si trova l’audacia di percorrere le strade di tutti.

È l’invito carico di forti immagini e suggestioni usato dal card. Tagle, presidente di Caritas internationalis, per spiegare il senso dell’annuncio cri­stiano. «La porta – dice l’arcive­scovo di Manila nel suo intervento – unisce il fuori con il dentro ma, allo stesso tempo, distin­gue il fuori dal dentro. Attraverso di essa la Chiesa diffonde la grazia e fa conoscere Gesù al mondo; ma da lì riceve le istanze dei poveri». E ancora: «La Chiesa è rinnovata quando il Vangelo della carità, il servizio umano e il grido dei poveri si incontrano alla sua porta. Poi c’è la tavola. Mangiare non è solo una questione di cibo, è riunirsi in una comunità, in famiglia. La tavola è completa quando è imbandita con cibo e storie umane. Una Chiesa rinnovata può essere paragonata ad una grande tavola, dove c’è posto per tutti, dove le ri­sorse della terra vengono condivi­se, specialmente con le “periferie”. A quella tavola la gente che non ha niente da mangiare, può sedersi con dignità. I poveri non sono i beneficiari del nostro servizio, han­no tanti doni da offrirci». Questo è il “sogno” di papa Francesco, un “sogno” che i diaconi devono fare diventare realtà.

Il papa ci invita, inoltre, ad essere custodi del servizio. Il sottotitolo del tema prende anche ispirazione dal documento dei vescovi italiani su Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà. Un documento troppo presto dimenticato. I presuli scrivono che «bisogna moltiplicare i soggetti, i contenuti e gli spazi per una “ministerialità” di servizio e di liberazione».

Periferie, missione e carità

Per dare compimento a questa ministe­rialità i diaconi devono essere dispensatori di carità.

Periferie, missione e agape hanno costituito l’orizzonte del Convegno. Ed è attorno a queste tre dimensioni proprie di un ministero diaconale incarnato nel nostro tempo e nei diversi luoghi del vissuto umano che bisogna sviluppare in futuro la riflessione e il confronto, esplorando le potenzialità che il diaconato ha all’interno della Chiesa, nelle comunità.

Però è necessario un cambiamento di mentalità. Occorre una conversione per il compimento di una Chiesa “diaconale”, perché «non possiamo ignorare, soprattutto nel contesto metropolitano odierno, le innumerevoli sfide che vengono quotidianamente sottoposte ai nostri occhi in termini di solitudine, di malattia, di abbandono, di povertà materiale e spirituale, di degrado culturale e, talvolta, di violenza; in queste periferie, nascoste spesso nell’anonimato, tanti nostri fratelli e sorelle attendono segnali di vicinanza e di sostegno, in modo particolare, dai diaconi» (messaggio del card. Stella, prefetto Congregazione clero).

Missione impossibile? Non una missione impossibile, ma una missione diaconale indispensabile. Una missione da realizzare attraverso progetti ad gentes che sono stati proposti ai diaconi e alle loro famiglie da Caritas italiana. «Si tratta, per voi diaconi (ndr) – scrive il card. Turkson – di rendere un servizio integrale della carità teso a ridare dignità alla persona, al di là delle emergenze, secondo una giusta antropologia fondata sui valori evangelici e sulla sana dottrina del magistero. Uomo: corpo e anima, carne e spirito, materiale e spirituale, immanente e trascendente». Per questo «ringrazio in modo particolare i miei fratelli diaconi per il servizio che rendono al popolo di Dio». Una missione per un cammino di inculturazione in un tempo in cui il dolore e le povertà delle periferie dell’esistenza sono sempre più acuti e drammatici e – come denuncia papa Francesco – trasformano milioni di vite in “scarti”.

Rinnovare la pastorale della carità

La diaconia al prossimo, dunque, è chiamata a maturare sempre più la consapevolezza di essere, nel mondo e nelle circostanze attuali, sale della terra e luce del mondo, voce di profezia che, a partire dalle periferie, proclamano la novità del Vangelo (papa Francesco, messaggio al Convegno).

Pertanto, i diaconi devono lasciarsi scuotere da una sana inquietudine, e con essa contagiare gli ambienti in cui vivono e operano anche con le spose e le famiglie, per rinnovare con realismo creativo la pastorale della carità delle comunità e la presenza nella società.

Infine, i diaconi devono guardare il futuro con speranza, per fare della diaconia la via alla santità e dell’appartenenza ecclesiale la forza che apre all’ascolto, all’accoglienza e al dialogo con tutte le identità religiose e sociali.

Accogliamo, dunque, l’esortazione del cardinal De Donatis: «Abbiate sempre a cuore che il vostro servizio ecclesiale trova il suo principale radicamento nella persona e nel ministero del vescovo, chiamato più di qualsiasi altro membro del popolo di Dio a identificarsi con Cristo servo, al servizio della sua Chiesa».

Settimananews

L’ingresso di don Ubaldo e l’ingresso del Cristo

processione iniziale

Settimana News

Don Ubaldo è timido, odia tutte le pomposità, lascia le grandi cerimonie al vescovo. Esce timidamente dalla sacrestia e velocemente appare sull’altare come la Madonna di Lourdes. Questa della processione d’ingresso è una pratica da risolvere rapidamente. Giusto per la Prima comunione dei bambini, su pressione dei genitori, accetta di percorrere tutta la navata della chiesa: è convinto così di essere semplice.

L’ingresso del Cristo

Il problema sta nel fatto che l’ingresso non è quello di don Ubaldo, e nemmeno la sfilata dei bambini per la gioia dei loro genitori, ma è l’ingresso di Cristo, morto e risorto. Le vesti liturgiche che avvolgono don Ubaldo, trasfigurano la sua persona e durante la celebrazione egli agisce in persona Christi.

Così, la processione di ingresso è il rito che visivamente permette ad un gruppo di persone convocate da varie realtà, di diventare il corpo stesso del Capo, l’assemblea che è resa “uno” da Cristo stesso che l’attraversa.

La costruzione delle sacrestie a lato del presbiterio è diventata la scusa per entrare subito sull’altare e privare i fedeli di questo primo gesto così evocativo e confortante: essere attraversati e raccolti da Lui; resi in comunione fra noi non perché ci conosciamo, ci vogliamo bene, andiamo d’accordo, ma solo perché Lui è in mezzo a noi.

Essere assemblea non è un dato sociologico: la domenica non è la festa della comunità, ma il giorno del Risorto nel cui nome i cristiani sono generati e si ritrovano.

Il simbolo disatteso

Tra l’altro, ormai, il segno della porta è totalmente disatteso: ne rimane qualche vestigia nella Veglia pasquale, nel Rito di ammissione al catecumenato, nei Riti di accoglienza per il Battesimo degli infanti, nei Riti di introduzione del Matrimonio, nel rito delle Esequie.

La porta è uno dei simboli di Gesù Cristo che ha detto: «Io sono la porta delle pecore… se uno entra attraverso di me, sarà salvo» (Gv 10,9ss). Questo varcare la soglia, dietro la Croce e il libro dei Vangeli, ci introduce in una realtà in cui siamo assemblea liturgica non per virtù nostra, ma perché generati dall’alto: seguiamo Cristo e siamo protesi verso il centro spaziale dell’aula liturgica che è l’altare, simbolo di Cristo, e da lì attendiamo ogni grazia per essere generati dal Risorto.

evangeliario

Come sarebbe bello che almeno in quelle occasioni, e non solo nella Veglia pasquale, tutti passassero attraverso la porta che è segno di Lui: gli sposi, i genitori, i catecumeni dietro al Sacerdote/Cristo, attraverso la porta/Cristo, per arrivare all’altare/Cristo.

Nella Liturgia, i riti di Introduzione possono essere definiti proprio i “riti della soglia”, perché ci trasportano da una situazione ad un’altra, ci fanno entrare nella celebrazione, ne sono una sorta di inaugurazione e questa è la loro funzione: portarci dentro il Mistero che dobbiamo celebrare.

Lo scopo dei “riti della soglia”

La storia di questi riti è molto complessa e ha causato nei secoli un affastellamento di elementi che provengono da molte tradizioni liturgiche diverse.

Il Messale precisa che: «Scopo di questi riti è che i fedeli, riuniti insieme, formino una comunità, e si dispongano ad ascoltare con fede la parola di Dio e a celebrare degnamente l’Eucaristia».

E aggiunge, presentando l’introito: «Quando il popolo è riunito, mentre il sacerdote fa il suo ingresso con i ministri, si inizia il canto d’ingresso. La funzione propria di questo canto è quella di dare inizio alla celebrazione, favorire l’unione dei fedeli riuniti, introdurre il loro spirito nel mistero del tempo liturgico o della festività, e accompagnare la processione del sacerdote e dei ministri».

Quale meraviglia è questo passaggio

Da questo vediamo che la Messa inizia quando il popolo è radunato, è lì, non disperso ma raccolto nell’anima, nel cuore, nella fede, proteso verso Gesù Cristo. Siccome siamo esseri umani non possiamo passare improvvisamente da una situazione all’altra senza l’aiuto di segni sensibili.

incenso

I Riti di Introito sono proprio come una camera iperbarica di decompressione. Ci aiutano a raccoglierci attorno al Risorto, e questi segni devono essere molteplici, visibili, udibili, respirabili, percepibili: canto, movimento, profumo di incenso, colori, Evangeliario, croce astile, sacerdote, ministri, assemblea, ecc.

Il significato del saluto e del segno di croce consiste nel prendere atto che siamo in Cristo e da lui generati come Chiesa. La prima consapevolezza è proprio questa: essere stati generati dal Risorto come Chiesa, attraversati da Lui. Noi siamo nell’aula liturgica non per sentir la predica del parroco o una buona parola o per dire le preghiere della domenica, ma perché Cristo è risorto. Non c’è altro motivo. E se siamo lì, è perché Lui è vivo sulla morte e sul peccato ed è Lui che ci rende Chiesa. “Dominus vobiscum”, cioè “Il Signore (sia) con voi” vuol dire: il Signore è vivo! Il Risorto che abita in voi, è presente in voi e voi siete il segno del Risorto.

Quale meraviglia in questo semplice passaggio da una situazione all’altra, in questo inizio della Liturgia, caro don Ubaldo!

Elide Siviero collabora con il Servizio diocesano per il catecumenato della diocesi di Padova. È autrice di Ore di vetro. Il mistero della fragilità (San Paolo, 2016) e Donne di Dio. Scorci biblici con Antonella Anghinoni (San Paolo, 2016).

In Honduras una campagna lanciata da World Vision assieme alla Caritas. Tutelando i minori si cambia il futuro

L’Osservatore Romano

(Rosario Capomasi) Una campagna lanciata in tutto l’Honduras nel tentativo di arginare la diffusione del lavoro minorile che affligge un Paese dove circa 400.000 bambini e adolescenti di età compresa tra i 5 e i 17 anni sono impiegati principalmente nel lavoro agricolo. È ciò che ha fatto World Vision, organismo cristiano internazionale che si batte per la tutela dei diritti dei minori, utilizzando media e social network per sensibilizzare l’opinione pubblica su tale fenomeno.

Speranza e futuro per i giovani

CEI

Spesso i talenti dei giovani “non vengono riconosciuti”, rimangono “sepolti nel deserto” o “nella palude della nostra società”. È l’amara constatazione del Card. Gualtiero Bassetti, Presidente della Cei, che nella mattinata del 19 agosto è intervenuto a Rimini alla 40° edizione del Meeting per l’amicizia tra i popoli.  “Ho purtroppo la netta sensazione che il nostro Paese non riesca minimamente a valorizzare i talenti, le capacità e le attitudini dei nostri giovani”, ha lamentato il Card. Bassetti