FESTA DELL’ASSUNTA IN CATTEDRALE: riflessioni di Mons. Caprioli

MARIA CONTEMPORANEA A TUTTI

Il racconto evangelico della visitazione di Maria alla cugina Elisabetta – proclamato il giorno di Ferragosto, festa di Maria Assunta, nella solenne concelebrazione presieduta in Cattedrale dal vescovo emerito Adriano – contiene tre importanti spunti di riflessione. Innanzitutto, mons. Caprioli ha fatto nell’omelia un parallelo tra il “sì” pronunciato dalla Vergine all’annuncio dell’angelo e il “sì” del parroco che accoglie la destinazione stabilita dal suo vescovo in una parrocchia, comunità di persone e di famiglie. Altra caratteristica del comportamento della Madonna è stata la “fretta” con cui da Nazareth si è diretta a Aim Karim dalla cugina per arrivare  in tempo ad assisterla: padre Turoldo definì Maria, proprio per questo, “la frettolosa”. Infine il lungo tempo che la Vergine ha riservato ad Elisabetta fermandosi tre mesi nella sua casa. Mons. Caprioli al riguardo ha ricordato come durante la visita pastorale alle parrocchie della montagna abbia visto tante donne, provenienti da vari Paesi, assistere – nelle loro case piene di ricordi – persone anziane soprattutto donne – anch’esse emigrate in giovinezza a Milano e a Genova per trovare lavoro. Altro tema affrontato dal vescovo Adriano è stato quello degli educatori dei giovani, negli oratori: impegno di una Chiesa, popolo di Dio in cammino. E ha concluso l’omelia richiamando un testo del vescovo Tonino Bello che definisce Maria  “contemporanea a tutti”.

Mercoledì 14 agosto in Santa Teresa mons. Caprioli aveva ricordato nella concelebrazione eucaristica vespertina il dodicesimo della scomparsa di Giovanna Gabbi, insegnante, dirigente di Azione Cattolica, prima consacrata nell’Ordo Virginum, sottolineandone la profonda fede, l’intensa spiritualità, la lettura e la meditazione orante della parola di Dio, la preghiera silenziosa davanti al tabernacolo.

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Europa Per una patria europea. Un intenso saggio dell’arcivescovo Bruno Forte

L’Osservatore Romano

(Michele Giulio Masciarelli) Sempre più ricco e vivace si va facendo il dibattito sull’Europa che comprende anche il problema di come chiamarla. Va da sé che non si tratta di un problema nominalistico, ma dello sforzo di trovare, oltre l’attuale nome di Unione, il nome più giusto, più promettente e più adatto per indicare quello che essa può, vuole e potrebbe saggiamente diventare.
Perché non proporsi una patria europea?
Interviene da ultimo, nell’interessante dibattito sull’Europa, l’arcivescovo Bruno Forte, adottando un titolo per un suo aureo libretto: la definizione che Alcide De Gaspari, sessantacinque anni fa, diede per l’Europa come sua auspicabile forma politica. Nella Conferenza parlamentare europea del 21 aprile 1954, egli chiamò il suo intervento: «La nostra patria europea». Sostanzialmente questo titolo è stato scelto da Forte per il suo recente scritto La patria europea (Brescia, Morcelliana, 2019, pagine 41, euro 7).
L’autore si pone sulla scia di Papa Francesco nel sottolineare la dignità dell’uomo su cui la patria europea deve costruirsi. Come il Papa insiste sul fatto che l’Europa non possa ridursi a un insieme di regole da osservare o a un prontuario di procedure da seguire, mentre «ha sottolineato come lo spirito di servizio e la passione politica dei Padri fondatori dell’Europa unita nascessero da una precisa e condivisa consapevolezza». Forte sottolinea soprattutto come dai discorsi di Papa Francesco venga, di fatto, l’indicazione e l’invito a percorrere le strade miti della cultura, dell’educazione delle migliori tradizioni religiose per continuare quello che più serve: offrire forti motivazioni al desiderio da suscitare di costruire la patria europea.
“Patria europea” non in senso populista

Forte sviluppa sua riflessione partendo, in sostanza, da due domande sottintese: se esista, almeno a livello tendenziale, una comunità di europei (politica, culturale), oltre quella economico-finanziaria che ne è la figura almeno predominante; se la prospettiva di una patria europea sia realisticamente proponibile. Il suo argomentare, in favore di questa prospettiva si misura, poi, con le obiezioni contrarie o con l’indifferenza a tale prospettiva.
L’onda populista, che poco ha a che vedere con il corredo di sensi implicato nell’espressione “Europa dei popoli”, è connotata da correnti gelide pericolose: anzitutto, muta la giusta atmosfera che serve all’attuale discorso sulla casa “comune europea”, come pure spesso ci si esprime; inoltre, nasce un grave problema circa l’alterazione della forma democratica di società, che finora è stata la saggia scelta ed era il felice destino dell’Europa, a motivo di un etnicismo mitizzato e ideologizzato (paurosa eco di terribili ideologie del Novecento di mezzo), che opta per la cosiddetta «democrazia organica» poggiata su un fondamento etnico rigidamente omogeneo (cfr. Alain de Benoist, Democrazia, il problema, Roma, Editrice Pagine, 2017).
Il mondo cristiano non può non turbarsi dinanzi a un simile scenario che vede un’opposizione all’idea umanistica di democrazia cristianamente ispirata che, come è noto, si basa invece su diritti umani pre-statali, germinati dalla realtà della persona umana e ancorata alla sua singolarità, all’apertura all’altro e alla comunità di uomini liberi (cfR. J. Maritain, Cristianesimo e democrazia, Vita e Pensiero, 1977). Questa idea di società civile e politica basata sulla persona era matrice ispirativa nell’Ottocento europeo, quando s’è presa a elaborare l’idea di patria. In quei decenni il cattolico Antonio Rosmini Serbati offriva l’idea più personologica all’idea di società, affermando che la persona non ha diritti, ma è «lo stesso diritto sussistente» (“ipsum ius subsistens”).
Le insidie del “tempo liquido” per la “patria europea”
Il libro di Forte mira a riportare alla saggia soglia delle intenzioni dei padri dell’Europa. La volontà è quella di risvegliarle e di ritornare alle pacate e profetiche parole di De Gasperi che, nella ricordata Conferenza parlamentare europea, indicavano nell’unità-diversità dell’Europa la condizione necessaria per il suo futuro: pace, progresso e giustizia sociale. La ripresa di quegli ideali è passata già attraverso il nome di “Unione europea”, ma oggi, sotto la pressione paradossale di un contesto liquido (e dunque debole), si sente il bisogno di legarli a un nome più impegnativo ed esigente: la Patria europea.
Più di una generica crisi dell’Europa, è urgente affrontare i problemi che pone il contesto specifico della “liquidità” in cui l’Occidente vive. È quello che fa Bruno Forte ponendosi il problema di come pensare la possibilità della patria europea «nell’era delle appartenenze fluide». Egli ricorda che nella “modernità liquida” i modelli sociali sono mutevoli e volubili; in più, paiono essere troppi, in contrasto stridente fra loro e con le matrici ispiratrici. La “liquidità”, come è noto, è la metafora e forse il simbolo scelto dal sociologo-filosofo polacco Zygmut Bauman per rappresentare e interpretare le attuali forme dell’antropologia, delle visioni della vita, delle grandi intraprese umane (cultura, politica) e perfino dei fondamentali sentimenti umani, come l’amore).
La metafora-simbolo di Bauman pervade l’intera esistenza, che è pertanto segnata da condizioni di continua incertezza, come mostra nei suoi libri (cfr. Modernità liquida, 2002; Paura liquida, 2008; Vita liquida, 2008; Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, 2009). Tutto questo qualifica anche le configurazioni sociali e politiche, come pure, almeno sulle prime, crea problemi sulla ricerca della ricerca identitaria dell’Europa e del suo poter diventare una patria.
Tuttavia, la «liquidità», per Forte, dissolve concezioni anchilosate di patria, ma lascia aperta la possibilità di una patria diversamente pensata: «Se si va diluendo il concetto ristretto di patria, caro alle forze in gioco nel secolo scorso, è allora legittimo chiedersi in che misura possa esserci ancora una valenza dell’idea di patria e in particolare se e in che misura quest’idea possa essere applicata alla “casa comune europea”».
Una risposta resiliente al “tempo liquido”
I dubbi restano, tante domande incalzano. Come può essere possibile pensare, progettare, costruire una “patria europea” nel mezzo di processi sociali cangianti, deboli, contradittori, come quelli che caratterizzano la Babele post-moderna così frastornante e frivola, così gassosa, sfuggente e “liquida”? Come ci si può impegnare in una intrapresa politico-culturale-giuridica così complessa e faticosa, quando si è in un “tempo liquido” nel quale tutto nasce facilmente e tutto facilmente si rompe e finisce? Come non considerare come “impedimenti dirimenti” (direbbe un canonista cattolico) le conseguenze che un simile tempo comporta: la labilità dei propositi, dei rapporti, delle decisioni di chi dovrebbe compiere tale impresa colossale?
Insomma, la possibilità di una nuova patria è davvero nella condizione di realizzarsi o è destinata a spegnersi dentro il perimetro del desiderio? Anche la risposta a questa domanda per Forte non è solo positiva, ma caratterizzata da vincente resilienza: «La risposta mi sembra non possa essere che positiva, a condizione di riconoscere la forza dei cambiamenti avvenuti e di rimodulare il concetto stesso di patria su nuovi orizzonti e più vasti confini. Due livelli vanno messi in evidenza: il primo è quello universale del “villaggio globale”, cui tutti apparteniamo». Forte completa la sua risposta in una prospettiva esplicitamente cristiana e teologica. «Si tratta di sviluppare e alimentare — scrive — in ognuno un respiro universale, “cattolico” nel senso originario di questo termine (dal greco kath’ólou: «secondo il tutto», «conforme alla totalità»), e dunque una coscienza alta e profonda di appartenere tutti a un destino comune, in cui nessuno potrà essere indifferente agli altri o irrilevante per loro».
Una conclusione triadica
Dinanzi alla domanda che tormenterà, ancora a lungo e molti, circa la possibilità di fare dell’Europa una patria, non dovrà mai essere chiuso lo spazio della speranza. In concreto questa si articola in pochi tracciati comportamentali.
1. Curare le “radici cristiane”. Forte avverte che parlare di “radici cristiane” dell’Europa potrebbe diventare «un richiamo generico e perfino meramente ideologico, se non si spinge lo sguardo fino alla più originaria novità cristiana, che è quella dell’inaudito avvento di Dio nella storia degli uomini, come inizio e fondamento di una speranza capace di cambiare il mondo e la vita». Evidentemente questo è un richiamo valevole prevalentemente per i cristiani, la cui testimonianza, però, potrà avere influenze anche fuori della comunità credente.
2. Non perdere il centro. Il centro del discorso societario, politico, giuridico e di quello sulla Patria europea è la persona. «L’idea di “persona”, che è alla base di ogni affermazione del valore assoluto dell’essere umano unico e singolare, la concezione della storia come aperta verso un progresso possibile e orientata verso una meta sperata, la fondazione dell’etica in una rete di relazioni di reciprocità, che partono da quella col Dio personale, sono senza dubbio frutto dell’ingresso del Vangelo nel tessuto vitale dei popoli europei, valori che hanno così permeato l’ethos dell’Occidente da caratterizzarlo inconfondibilmente».
Come Forte, anche un altro teologo conchiude il suo discorso sull’Europa con un approdo al Vangelo, anzi col riferirsi a una delle sue pagine più alte: «Se (…) dovessimo scegliere una delle Beatitudini, quella più adatta al lavoro per un’Europa riconciliata e dinamica, sceglierei volentieri la beatitudine della mitezza: “Beati i miti perché erediteranno la terra”. La mitezza, in effetti, viene da una lotta determinata e tranquilla contro tutte le violenze. (…) Il Vangelo ci annuncia che questa determinazione dolce ci garantirà il possesso per eredità della terra: non un possesso sul quale mettere le mani ma una signoria che mette tutto a disposizione di tutti. Una Europa vera sarebbe, dunque, una Europa della mitezza» (Ghislain Lafont, Il futuro è nelle nostre radici. La novità del Vangelo nell’Europa del terzo millennio, 2005).
3. Aprirsi alla “Tenda planetaria”. L’Europa è una patria, ma non l’unica né la più grande. Dall’Europa si va alla Tenda planetaria: «Ritrovare l’amore alla “casa comune” europea e avvertirne il fascino e il conseguente compito non solo verso i cittadini europei, ma anche verso l’umanità intera, cui l’Europa ha offerto concetti e valori fondamentali come quelli di “persona” o di “progresso”, è urgenza che deve vederci impegnati tutti, nessuno escluso. La “patria” europea ci chiama a un rinnovato impegno al servizio della pace e della giustizia per l’intero pianeta».
Il breve e intenso testo di Bruno Forte (i libri non si valutano a peso di carta), come è ben’apparso, ha suscitato la spinta per un’articolata riflessione, per così dire ha portato lontano, facendo riflettere anche su una lontananza amara: è apparso chiaro che negli ultimi decenni ci si è allontanati dalle matrici umanistiche e cristiane (storicamente innegabili), perdendo, così, una fonte sapienziale importantissima nel pensare, nel decidere, nell’operare di un’Europa che avrebbe avuto più fortuna e dignità se avesse cercato d’impegnarsi in qualcosa di più alto e promettente che non fosse soltanto un set minimo di valori universali (cfr. Joseph H. Weiler, Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, 2003).
Ma non c’è da scorarsi. Quello che non è stato, può accadere ancora, magari in forme diverse e in quelle possibili per il tempo presente. Questo l’insegna la storia e l’intuisce la speranza.
L’Osservatore Romano, 14-15 agosto 2019

Per la festa dell’Assunzione di Maria

L’Osservatore Romano
(Carolina Blázquez Casado) Il mistero della Glorificazione di Maria in anima e corpo in cielo è stato l’ultimo dogma mariano proclamato solennemente — nella data relativamente recente del primo novembre 1950, per opera di Pio XII — ma la certezza che il corpo di Maria, la Madre di Gesù, non sperimentò la corruzione e perciò gode in pienezza, come prima creatura e anticipo del nostro destino, dei frutti della Risurrezione di suo Figlio nella totalità della sua umanità, è antichissima e risale agli inizi del cristianesimo.
Il primo scritto cristiano che affronta questo tema è datato tra IV e V secolo, ma contiene esso stesso materiale più antico, elaborato, secondo alcuni studiosi, già nel II secolo. Stiamo parlando dell’apocrifo intitolato il Transito di Maria e attribuito per secoli a Melitone di Sardi per la sua forte impronta teologica della tradizione antiochena. Questa scuola patristica era caratterizzata da un pensiero profondamente semitico, lontano dai paradigmi filosofici greci, e in aperta polemica con le tesi gnostiche, al punto tale da elaborare un’interessantissima teologia della carne, ovvero quella che oggi chiameremmo un’antropologia “a partire dal corpo”, sottolineando come, in virtù del Mistero della creazione in Cristo e dell’Incarnazione del Verbo, la materia — e in concreto la carne dell’uomo — sia stata scelta da Dio come spazio teologico per eccellenza, in cui depositare e irradiare la grazia della salvezza.
Un altro dato da osservare in relazione all’importanza di questa festa è la sua celebrazione liturgica nella data del 15 agosto. Nelle Chiese Orientali abbiamo notizia di questa celebrazione già a partire dal IV secolo, col nome di “Memoriale di Maria”; in Occidente, dal Medioevo in poi essa è citata con formulari specifici. Nel settimo secolo essa viene istituita nella liturgia romana e in seguito anche negli altri riti occidentali: per esempio nella liturgia ispano-mozarabica nel nono secolo essa si celebra ufficialmente, ma già dal settimo secolo si allude al tema dell’Assunzione di Maria nella liturgia dell’apostolo Giovanni, in cui verginità e incorruzione della carne appaiono connessi in modo interessante.
Questa festa pertanto è stata sempre celebrata dopo la chiusura del ciclo pasquale che introduce il cristiano nella pienezza della rivelazione grazie all’effusione dello Spirito Santo nella Pentecoste. Dio ha riversato il Mistero della sua Vita su questo mondo fino all’estremo, in un lungo e paziente gesto di “svuotamento” — lungo quanto la storia della salvezza — il cui frutto è quello che i Padri della Chiesa chiamano lo “scambio felice”: poiché Dio ha assunto la carne dell’uomo fino alle ultime conseguenze, questa carne si apre ad accogliere lo Spirito; poiché Dio ha “rotto” la sua trascendenza per avvicinarsi all’uomo, si è aperta la via attraverso la quale l’uomo può entrare nella vita divina. Questo disegno di salvezza si è realizzato in Maria, superando la costante tentazione gnostica o razionalista, e si è compiuto nella fragilità della sua carne, perché è proprio nel corpo di Maria che si è consumata definitivamente l’unione tra Dio e l’uomo.
Non esiste un’altra festa cattolica in cui la natura della Tradizione, vero canale della rivelazione divina, e il senso della fede proprio del popolo di Dio, salvaguardia della verità rivelata, si manifesta con maggiore chiarezza; in cui la stima e il rispetto della fede cristiana per la carne, il corpo e il creato siano più esaltati e vi si esprima con più limpida bellezza la relazione intima tra il principio apostolico e il principio mariano su cui si costruisce la Chiesa.
In un paese della Spagna orientale già sono cominciati i preparativi per l’imminente rappresentazione dell’unico auto sacramental — una forma di dramma religioso tipica del teatro spagnolo a partire dal Seicento — che per un privilegio speciale di Urbano VIII si continua a rappresentare all’interno di una chiesa, la basilica minore di Santa Maria di Elche. Quest’opera s’intitola il Mistero di Elche: in valenciano, la lingua in cui è scritta la quasi totalità dei versi, I Misteri d’Elx. Di origine medievale, riprende la tradizione teologica, liturgica e spirituale sull’Assunzione di Maria comune a tutto il bacino del Mediterraneo. Se i versi sono straordinari per profondità teologica e bellezza poetica, il canto che li accompagna è meraviglioso e commovente. Le melodie di ispirazione orientale, con una grande influenza corsa, introducono in profondità nel mistero.
L’opera — che viene messa in scena ogni 15 agosto e, negli anni pari, anche nella data di proclamazione del dogma dell’Assunta — si sviluppa in due atti. Nel primo, Maria riceve, come in una nuova Annunciazione, la notizia della sua prossima morte e per questo motivo, mossi da una spinta o da una forza interiore che non sanno spiegarsi, tutti gli apostoli si mettono in cammino dai confini della terra in cui si erano dispersi per annunciare la buona notizia del Vangelo. Si tornano a incontrare con stupore e sorpresa quando si accorgono di essere stati tutti misteriosamente chiamati a Gerusalemme, convocati intorno al letto di Maria per accompagnare il suo transito ed essere testimoni della sua glorificazione in Cielo. È un punto di straordinaria tenerezza e bellezza perché Maria per loro è l’ultimo segno, la memoria viva della presenza di Gesù sulla terra. La rappresentazione è una vera espressione credente della relazione intima che esiste tra Maria e la Chiesa, tra il principio mariano e il principio petrino: e della primazia del primo sul secondo. Maria infatti ci precede, perché grazie all’accoglienza fedele della Parola nella buona terra della sua umanità, il seme del Verbo ha portato frutto in tutto il suo essere Donna, fino a fare di Lei la «Terra del Cielo».
L’Osservatore Romano, 14-15 agosto 2019

Il sacramento della penitenza e il compito di una comprensione sistematica

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cittadellaeditrice.com

Nel dibattito intorno alla penitenza al quale ho partecipato rispondendo a L. Orsy e a A. Marchetto (cfr. post precedenti), è emersa la questione della “comprensione sistematica” del sacramento. A tal proposito propongo parte della Introduzione al libro “Fare penitenza”, (Cittadella 2019) scritto insieme a Daniela Conti, nel quale viene messo a fuoco il punto sistematico e pastorale della posizione del sacramento della confessione in rapporto alla iniziazione cristiana. Si tratta di un punto decisivo per comprenderlo e per celebrarlo correttamente.

Introduzione

«è opera di Cristo liberare gli uomini dalla corruzione del peccato, ma impedire di ricadere nel precedente stato di miseria spetta alla sollecitudine e agli sforzi degli apostoli»

                                                                         S. Giovanni Crisostomo

Uno dei compiti più urgenti della Chiesa cattolica, nell’ambito del rinnovamento impostato dal Concilio Vaticano II, consiste nel recuperare un’equilibrata esperienza del “fare penitenza”. Questa esigenza, però, si manifesta in modo tutt’altro che evidente. Tale difficoltà, ossia la inevidenza di questa istanza, dipende da un fenomeno assai complesso e molto delicato da trattare: ossia dalgraduale assorbimento di tutta la esperienza penitenziale da parte del “sacramento della penitenza”. Ciò che è accaduto, in una storia che si estende per almeno 8 secoli, può essere brevemente descritto in questo modo: lo strutturarsi ecclesiale, sempre più definito, di un “sacramento del perdono”, almeno a partire dal Concilio Lateranense IV (1215), ha progressivamente esteso la propria autorità, fino a coprire l’intera area del “fare penitenza” ecclesiale, per arrivare ad identificare, almeno negli ultimi tre secoli, la “penitenza della Chiesa” con la “assoluzione sacramentale”. Al punto che oggi la parola “penitenza” rischia di identificarsi, sic et simpliciter, con il sacramento. E per di più con un sacramento che non ha più la penitenza!

Tale questione, tuttavia, ha potuto emergere in tutta la sua urgenza soltanto come “effetto indiretto” di una grande riscoperta, che non riguarda direttamente la penitenza, ma il più vasto ambito della “iniziazione cristiana”. Con ciò intendiamo dire che il recupero della iniziazione cristiana – ossia della sequenza battesimo-cresima-eucaristia nella loro unità – come fondamentale sacramento della riconciliazione, ha condotto la riflessione ecclesiale a interrogarsi in modo nuovo sul “quarto sacramento”, recuperandone, nello stesso tempo, la “esteriorità” rispetto alla iniziazione e la funzione di “servizio” rispetto ad essa. In altri termini, solo quando si è potuto adeguatamente riscoprire che il IV sacramento non fa parte della iniziazione cristiana, si è potuto mettere a tema, come suo centro, la sua funzione di “servizio” ad altro da sé.

Ciò impone in modo nuovo una elaborazione della “ragione sistematica del sacramento” che difficilmente potrebbe essere svolta senza questo rinnovato contesto pastorale ed ecclesiale di riferimento.

Il disegno di questo testo è, dunque, in primo luogo, il recupero della ragione sistematica del IV sacramento.

Con essa si intende una giustificazione della funzione e della struttura di un sacramento “diverso dalla iniziazione cristiana”, ma la cui funzione è non “per sé”, ma “per altro”, ossia in vista di un recupero e di una guarigione della relazione di comunione che la iniziazione cristiana inaugura con le soglie battesimali e crismali ed elabora nella continuità di preghiera e di rito della celebrazione eucaristica. Con una espressione assai acuta Tommaso d’Aquino dice che la penitenza interviene “non per se, sed quasi per accidens, scilicet in remedium supervenientis defectus” (S. Th, III, 65, 3, c).

La riscoperta di questa “ragione sistematica” risulta tanto urgente quanto difficile1. Ciò è dovuto una sorta di “oblio” che ha progressivamente cancellato i due “cardini” di questa espressione di Tommaso, e cioè:

– da un lato il primato della iniziazione cristiana, di cui fa parte il “fare penitenza”, ma non il “sacramento della penitenza”.

– dall’altro la distinzione classica, secondo cui il “rimedio al peccato grave” è la ragione sistematica del IV sacramento.

Per questo, come vedremo, da un lato occorre rielaborare la seconda distinzione, ossia quella tra peccati mortali e peccati veniali; ma dall’altro è necessario riscoprire una distinzione classica, che oggi non fa parte del glossario ecclesiale e che deve essere riscoperta, anche se con un necessario processo di traduzione: vogliamo qui alludere alla distinzione scolastica tra “penitenza come virtù” e “penitenza come sacramento”. La perdita di questa distinzione, che salvaguarda una esperienza battesimale ed eucaristica di penitenza che rimane originaria, costituisce il presupposto di quel fenomeno che abbiamo definito “assorbimento” di tutta la penitenza nel sacramento. Ciò a detrimento non tanto della “virtù”, quanto della centralità della iniziazione cristiana.

Ma, come abbiamo detto, l’emergere della “questione sistematica” è dovuto al nuovo ruolo acquisito dalla “iniziazione cristiana” lungo il corso dell’ultimo secolo. Per questo è necessario occuparsi di una analisi più dettagliata di questo sviluppo, soprattutto in relazione alla iniziazione dei bambini e dei preadolescenti. A ciò sarà dedicata una seconda parte del volume, nella quale proponiamo un riscontro di questa “ragione sistematica” con la pratica pastorale, in particolar modo in relazione all’impatto che la “prima confessione” ha avuto, nell’ultimo secolo, sulla azione pastorale di iniziazione cristiana.

Prenderemo spunto dall’osservazione delle difficoltà pastorali legate alle pratiche di iniziazione cristiana, in particolare alla prassi di collocare la “prima confessione” prima della “prima comunione”, con tutta una serie di rilevanti implicazioni, tre in particolare: la confessione compresa come condizione previa per fare la comunione; il dibattito teologico che ha accompagnato la pastorale; la fatica dei preadolescenti nel vivere il sacramento della confessione. Le fatiche dei preadolescenti sono il punto prospettico di osservazione che orienta questa seconda parte.

Per riflettere su questa problematica e proporre dei percorsi di iniziazione che cerchino di affrontarla, riteniamo fondamentale studiare la questione della corretta collocazione del sacramento della confessione e del suo delicato rapporto con l’iniziazione cristiana. È necessario infatti maturare la coscienza che, se da un lato il sacramento della confessione non fa parte dei sacramenti dell’iniziazione, dall’altro il “fare penitenza” svolge un ruolo importante nell’iniziare il soggetto all’identità cristiana.

Tale distinzione è particolarmente urgente nel caso dei fanciulli e preadolescenti, a causa delle peculiarità della loro età e condizione ecclesiale; in quanto soggetti in crescita, infatti, debbono essere considerati nelle loro caratteristiche personali, psicologiche e relazionali; e, in quanto soggetti dentro un percorso di iniziazione, richiedono di essere educati a “fare penitenza”, in modo articolato, per essere in grado di accedere in maniera autentica e piena al “sacramento della confessione”.

Il volume si divide pertanto in due parti: nella prima parte vorremmo cercare di recuperare questa esperienza complessa del “fare penitenza” nella Chiesa e procederemo nel modo seguente: inizialmente vorremmo presentare il quadro complessivo dei termini e delle questioni che riguardano il IV sacramento: da un lato esaminando i termini fondamentali che descrivono il IV sacramento (§.1), dall’altro mettendo in luce le questioni sistematiche fondamentali che ne definiscono la necessità e la struttura in rapporto alla iniziazione cristiana (§.2) per poi soffermarci su singole questioni rilevanti riguardo al rapporto tra virtù e sacramento (§.3) e del dialogo con la cultura e con le tradizioni non cattoliche (§.4). Nella seconda parte, ad un primo capitolo (§ 5) di carattere storico, in cui prenderemo in esame alcuni documenti ecclesiali dell’ultimo secolo, principalmente del Magistero, faremo seguire un secondo capitolo (§.6), di carattere teologico, in cui interrogheremo alcuni autori sul rapporto tra sacramento della penitenza e sacramenti di iniziazione cristiana, cercando di evidenziare come tale rapporto venga compreso e motivato in modi differenti a seconda delle esigenze pastorali e delle priorità teologiche. Infine, il terzo capitolo (§.7), di carattere pastorale, sarà finalizzato ad abbozzare alcune piste di sviluppo per la prassi: si inquadreranno poi i tratti caratteristici della preadolescenza, con una particolare attenzione all’aspetto religioso, si presenteranno i risultati di un questionario somministrato ad un campione di preadolescenti, interpellati sul loro rapporto con la confessione; seguirà un tentativo di interpretazione dei risultati, che sia atto di ascolto autentico dei vissuti preadolescenziali.

Infine, nel cercare di offrire alcuni spunti e suggerimenti per la pratica, si riconoscerà appieno che un ascolto del vissuto dei preadolescenti può offrire indicazioni importanti per il rinnovamento della prassi e della teologia della confessione ad ogni età, così come una teologia e una pastorale rinnovate possono liberarsi da modalità formalistiche e standardizzate del sacramento, di cui i preadolescenti si sono mostrati osservatori acuti e anche vittime silenziose. In appendice si darà conto nel dettaglio dei risultati del questionario.

 

1 Essa non riguarda soltanto il IV, ma anche il V sacramento. Infatti l’introduzione della categoria di “iniziazione cristiana” per la comprensione dei sacramenti del battesimo/cresima/eucaristia era destinata, fin dal principio, a modificare profondamente l’intero quadro della teologia sacramentale cristiana, nonché le consuetudini secolari della stessa prassi celebrativa ecclesiale. Nella categoria di “guarigione” troviamo quel concetto che – riconducendo il IV e V sacramento all’orizzonte della iniziazione cristiana – può recuperarne la profondità storica, liturgica e sistematica, e rileggerne tutta la ricchezza di teologia e di prassi pastorale. In questa ottica di fondo, al compito di chiarificare la vocazione “terapeutica” del sacramento della penitenza, potrebbe seguire il compito di restituire al sacramento della unctio infirmorum tutta la sua differenza rispetto al IV sacramento, identificando meglio il suo “luogo teologico” all’interno della “crisi” della identità cristiana, dovuta qui a malattia prima che a colpa. L’ambizione verso una ricomprensione della “guarigione cristiana” nella sua articolazione più autentica passa necessariamente per la riacquisizione del valore della dimensione simbolico-rituale: mediante essa si accede al superamento della crisi di identità cristiana, distinguendo accuratamente la crisi dovuta a colpa – cui corrisponde la penitenza – da quella “senza colpa” – alla quale si riferisce l’unzione dei malati. Per lo svolgimento di questo ulteriore capitolo, che qui non posso sviluppare, mi limito a rimandare a A. Grillo – E. Sapori (edd.), CELEBRARE IL SACRAMENTO DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI, Atti della XXXI Settimana di Studio, Valdragone (San Marino), 24 – 29 agosto 2003, Roma, CLV-Ed. Liturgiche, 2005.