Siamo ricchi solo di ciò che doniamo. Commento al Vangelo XVIII Domenica Tempo ordinario – Anno C

di Ermes Ronchi- Avvenire
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede […]»

La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Una benedizione del cielo, secondo la visione biblica; un richiamo a vivere con molta attenzione, secondo la parabola di Gesù. Nel Vangelo le regole che riguardano la ricchezza si possono ridurre essenzialmente a due soltanto: 1. non accumulare; 2. quello che hai ce l’hai per condividerlo. Sono le stesse che incontriamo nel seguito della parabola: l’uomo ricco ragionava tra sé: come faccio con questa fortuna? Ecco, demolirò i miei magazzini e ne ricostruirò di più grandi. In questo modo potrò accumulare, controllare, contare e ricontare le mie ricchezze. Scrive san Basilio Magno: «E se poi riempirai anche i nuovi granai con un nuovo raccolto, che cosa farai? Demolirai ancora e ancora ricostruirai? Con cura costruire, con cura demolire: cosa c’è di più insensato? Se vuoi, hai dei granai: sono nelle case dei poveri». I granai dei poveri rappresentano la seconda regola evangelica: i beni personali possono e devono servire al bene comune. Invece l’uomo ricco è solo al centro del suo deserto di relazioni, avvolto dall’aggettivo «mio» (i miei beni, i miei raccolti, i miei magazzini, me stesso, anima mia), avviluppato da due vocali magiche
e stregate «io» (demolirò, costruirò, raccoglierò…). Esattamente l’opposto della visione che Gesù propone nel Padre Nostro, dove mai si dice «io», mai si usa il possessivo «mio», ma sempre «tu e tuo; noi e nostro», radice del mondo nuovo. L’uomo ricco della parabola non ha un nome proprio, perché il denaro ha mangiato la sua anima, si è impossessato di lui, è diventato la sua stessa identità: è un ricco. Nessuno entra nel suo orizzonte, nessun «tu» a cui rivolgersi. Uomo senza aperture, senza brecce e senza abbracci. Nessuno in casa, nessun povero Lazzaro alla porta. Ma questa non è vita. Infatti: stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta indietro la tua vita. Quell’uomo ha già allevato e nutrito la morte dentro di sé con le sue scelte. È già morto agli altri, e gli altri per lui. La morte ha già fatto il nido nella sua casa. Perché, sottolinea la parabola, la tua vita non dipende dai tuoi beni, non dipende da ciò che uno ha, ma da ciò che uno dà. La vita vive di vita donata. Noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo dato via. Alla fine dei giorni, sulla colonna dell’avere troveremo soltanto ciò che abbiamo avuto il coraggio di mettere nella colonna del dare. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio. Chi accumula «per sé», lentamente muore. Invece Dio regala gioia a chi produce amore; e chi si prede cura della felicità di qualcuno, aiuterà Dio a prendersi cura della sua felicità.
(Letture: Qoelet 1,2;2,21-23; Salmo 89; Colossesi 3,1-5.9-11; Luca 12,13-21)

Albino Luciani: un buon sacerdote vive la Parola e si fa servo


da Avvenire

Il primo atto di Albino Luciani come vescovo eletto di Vittorio Veneto, la sera del 9 novembre 1958, fu la visita a un parroco colpito da infarto. Iniziò così il suo episcopato, visitando un sacerdote ammalato. In diocesi si premurò subito di conoscere direttamente il suo clero, mostrando stima per le doti di ciascuno, accogliendoli spesso in vescovado e incoraggiando le udienze. Era facile avvicinarlo. Non chiedeva mai informazioni sui preti al segretario. Aveva una grande memoria e ricordava bene il volto di ciascuno, le mansioni e anche le informazioni sui loro familiari. Il suo ultimo segretario a Vittorio Veneto, don Francesco Taffarel, ricorda che non pochi ricorrevano alla sua guida spirituale. Metteva così in pratica la raccomandazione che gli aveva fatto papa Giovanni XXIII, quella di «essere hospitalis et benignus». Nel luglio 1966 pubblicò un ampio intervento su «Il sacerdote diocesano alla luce del Concilio Vaticano II», in cui insisté molto sulla collaborazione tra i presbiteri e con il vescovo, sul sacerdote vicino ai fedeli «che incontra, serve gli uomini», a «disposizione della gente in tutti i momenti» e «si disfà per gli altri». Ne è testimonianza anche questa omelia inedita, che qui riportiamo, pronunciata da Luciani il 29 giugno 1968 per l’ordinazione del vittoriese don Giuseppe Nadal. E che sarà fatta riascoltare dalla registrazione originale in occasione dell’incontro a Canale d’Agordo per l’apertura al pubblico della sua Casa natale domani 2 agosto. (Stefania Falasca)

Cerimonie come questa, di solito, si fanno nella Cattedrale ma, la parrocchia di Santa Maria del Piave è stata così brava, ha fatto sforzi così meritevoli di lode e di plauso, innalzando questa chiesa a quasi una Cattedrale. Il Vescovo è molto contento di fare qui la consacrazione di don Giuseppe.
Il mio primo pensiero va a i suoi parenti: alla mamma – il papà poverino è morto, lo ricorderemo insieme, il Vescovo e il suo figliolo, nella santa Messa – i suoi fratelli, la famiglia; perchè, miei cari fedeli, sinceramente io crederei di mancare a un mio dovere se, consacrando un sacerdote, non pensassi, prima di tutto ai sacrifici che per lui ha fatto la sua famiglia. Intanto l’ha messo a disposizione del Signore. C’è stato uno scrittore francese che ha detto: «Ci sono delle mamme che hanno un cuore ‘sacerdotale’ e lo trasfondono nei loro figlioli». Mia madre non mi ha mai detto di andare prete, però era così buona, amava tanto il Signore che, al suo contatto, io spontaneamente ho preso questa strada; mi pareva che per me non c’era altra strada. Oltre all’ambiente religioso, ci sono dei sacrifici che le famiglie devono fare lungo tanti anni. Sono sicuro che le famiglie dei sacerdoti non rimpiangeranno di aver fatto questi sacrifici. E neanche i sacerdoti, se sono fedeli alla loro vocazione e alle grazie del Signore, non si pentiranno mai di ciò che hanno fatto, accettando questi poteri sublimi. Poteri che importano pesi, sacrifici, e specialmente spirito di grande dedizione. Spero veramente che il Signore aiuti il nuovo sacerdote e lo faccia dedito al popolo, capace di servire. Voi sentite che si dice ‘ministri di Dio’, ministri vuol dire ‘servi’, servi di Dio e servi del popolo. Un sacerdote è bravo quando è servo degli altri. Se è servo di sé stesso non è a posto. C’è stato un santo sacerdote che ha scritto: «Il sacerdote deve essere pane, deve lasciarsi mangiare dalla gente, deve essere a disposizione della gente in tutti i momenti».
Il sacerdote ha rinunciato ad una sua famiglia per essere a disposizione delle altre famiglie. Qualcuno dice che i preti non si sposano perché la Chiesa non apprezza il matrimonio, ha paura di mettere il matrimonio ac- canto a queste cose sante. Non è vero, non è vero! San Pietro era sposato. Noi pensiamo invece che la famiglia è una cosa sublime e grande e, appunto per questo, se uno è padre di famiglia ne ha basta per fare il suo dovere: figlioli da educare, figlioli da crescere…: è tutto impegnato per la famiglia. È troppo grande la famiglia perché uno possa essere con una famiglia e poi avere anche un incarico così grande come il Sacerdozio: o una cosa, o l’altra.
Quindi, ripeto, il Sacerdote sia servo di tutti: è questo specialmente il suo compito, servire. E il popolo sa capire, e vede se il sacerdote è veramente un servo che si disfa per gli altri. Allora dice «Abbiamo un bravo sacerdote!». Allora il popolo è veramente contento.
Durante il Rito, ho detto che questo sacerdote leggerà la Bibbia: bene! Bisogna che quello che ha letto lo creda dopo; bisogna che quello che crede lo predichi alla gente; bisogna che quello che predica alla gente lo faccia lui prima. La prima missione del prete è predicare la Parola di Dio, una parola che prima dovrebbe essere vissuta. Io non posso dire agli altri siate buoni se prima non sono io buono. E se sapeste, alle volte, che rossore, anche per il Vescovo, presentarsi davanti alla gente e dire: Siate buoni, se io non sono buono, non ho fatto abbastanza! Sarebbe bellissimo se io, prima di predicare agli altri, ho fatto tutto quello che dico di fare. Non sempre è possibile, dovete accontentarvi dello sforzo; abbiamo anche noi il nostro temperamento, la debolezza. Però il sacerdote, se vuol essere sacerdote, non si presenti a predicare agli altri se prima lui stesso, non ha almeno cercato, con tutti gli sforzi, di fare quello che domanda agli altri che facciano. E poi ci sono i sacramenti, la confessione, la s. Messa celebrata. E poi c’è il governo. Io dico sempre ai miei preti: «Cari fratelli, la gente bisogna trattarla bene; se è vero che siamo servi bisogna trattar bene la gente». Non basta dedicarsi alla gente, ma essere soavi con la gente, anche se qualcuno, a volte, è ingrato. San Francesco di Sales, diceva: «Noi dobbiamo essere un po’ come le mamme. Qualche volta c’è la mamma che allatta, e il piccolo morde la mammella; la mamma deve continuare a dare il latte».
Così deve essere il sacerdote. Qualche volta ci sforziamo di fare il bene e non sempre c’è la giusta riconoscenza, ma non dobbiamo lavorare per la riconoscenza. Il Signore ci aspetta a vedere se, nonostante tutto, siamo capaci di continuare a fare un po’ di bene alla gente.
Io auguro veramente che il nuovo sacerdote, sia compreso di questi sentimenti, sia una nuova acquisizione preziosa per la diocesi, possa far tanto del bene alla gente, perché è ordinato non per me, ma per voi. In aiuto al Vescovo, sicuro, ma anche il Vescovo non è per sé, ma per gli altri. Con questa nuova consacrazione abbiamo acquistato una ricchezza per il popolo, per la nostra diocesi. Che il Signore ce la conservi e faccia sì che possiamo avere sempre una comunità di sacerdoti veramente santi, veramente servi del popolo di Dio.
vescovo di Vittorio Veneto, futuro papa Giovanni Paolo I

Tempo del Creato 2019 – «La rete della vita». Dichiarazione congiunta del Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente del CCEE, e del Rev. Christian Krieger, Presidente della CEC

CCEE

Comunicato stampa. Essendo diventata una fruttuosa tradizione tra le Chiese cristiane in Europa – il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) e la Conferenza delle Chiese d’Europa (CEC) – si uniscono, anche quest’anno, in una sola voce per riaffermare la responsabilità nei confronti della creazione e invitare alla preghiera. Tempo del Creato, dall’1° settembre al 4 ottobre, è un periodo speciale nei calendari liturgici di un numero sempre più crescente di Chiese in Europa.

Obiettivo del sinodo per l’Amazzonia. Rilanciare una Chiesa vicina e dialogante

L’Osservatore Romano

(Claudio Hummes) Pubblichiamo un brano tratto dal libro «Il Sinodo per l’Amazzonia» (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2019, pagine 158, euro 12) del cardinale presidente della Rete Ecclesiale Panamazzonica (Repam).
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Proprio come i due discepoli di Emmaus, tristi e delusi per la morte del maestro sulla croce, o come Pietro e i suoi compagni di pesca, fermi sulla spiaggia, scoraggiati per non aver pescato nulla per tutta la notte, anche la Chiesa, a volte, resta impigliata in questo stato d’animo, quando si trova di fronte a situazioni che sembrano sempre andare di male in peggio, o per la sterilità delle proprie fatiche pastorali.
Papa Francesco ha parlato di questa difficoltà durante l’incontro con i vescovi brasiliani in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, a Rio de Janeiro, nel 2013: «Oggi è più che mai urgente domandarci: che cosa Dio vuole che noi facciamo? A questa domanda, vorrei cercare di dare una traccia di risposta. Prima di tutto, non dobbiamo cedere alla paura (…). Non dobbiamo cedere alla delusione, allo scoraggiamento, non lasciamoci andare alle lamentele. Noi abbiamo lavorato sodo, eppure, a volte, ci sembra di aver fallito. Si impadronisce di noi il sentimento di colui che deve fare il bilancio di una stagione fallimentare, guardando quelli che ci abbandonano o che non ci ritengono più credibili, né rilevanti».
Il sinodo dovrà diventare un momento forte per riaccendere le speranze frustrate e per superare i sentimenti di impotenza. Avrà il compito di riaccendere la passione missionaria, rinnovare la certezza e la gioia della chiamata di Dio alla missione.
Di fronte all’allontanamento di tanti cristiani o alla loro migrazione verso altre confessioni religiose, il Papa, nel discorso appena citato, continua dicendo: «Forse la Chiesa, per loro, sembra troppo fragile; forse, troppo distante dai loro bisogni; forse, troppo fredda; forse, troppo autoreferenziale; forse, troppo prigioniera del suo stesso linguaggio rigido (…). Una cosa è certa: oggigiorno ci sono molti che assomigliano ai discepoli di Emmaus. E non sono soltanto quelli che cercano risposte nei nuovi e sempre più diffusi gruppi religiosi, ma mi riferisco a quelli che sembrano vivere senza Dio, come atei teorici, o semplicemente come atei pratici».
Anche la Chiesa in Amazzonia si trova di fronte a una situazione del genere. Molti cattolici di lunga tradizione migrano verso le cosiddette Chiese (Neo)pentecostali, o prendono le distanze da qualunque Chiesa. Ciò accade nelle città, ma anche nelle comunità indigene. Sembra che il raccolto di secoli di missione si stia perdendo. Dice il Papa: «Ciò che manca è una Chiesa che non abbia paura di entrare nel buio della loro notte. Abbiamo bisogno di una Chiesa capace di incontrare queste persone nel loro stesso cammino. Abbiamo bisogno di una Chiesa capace di entrare nei loro discorsi. Abbiamo bisogno di una Chiesa che sappia dialogare con quei discepoli che, fuggendo da Gerusalemme, vagano senza meta, da soli, con la sola compagnia della propria delusione». Poco dopo, aggiunge: «Io vorrei che oggi tutti noi ci chiedessimo: siamo ancora una Chiesa capace di scaldare il cuore? Una Chiesa capace di ricondurre a Gerusalemme? Capace di riaccompagnare di nuovo verso casa?».
Sempre durante il medesimo discorso ai vescovi brasiliani, Papa Francesco dà un rilievo speciale alla Chiesa dell’Amazzonia. Il Papa ritiene che l’Amazzonia costituisca un banco di prova decisivo per la Chiesa. In Amazzonia, la Chiesa deve essere perseverante e audace al tempo stesso. Anche in questa regione il raccolto di secoli di lavoro può andare perduto, se non si ci sarà una conversione missionaria e pastorale. Anche là, dice il Papa, la Chiesa ha bisogno di un forte rilancio: «Vorrei aggiungere che (in Amazzonia) l’opera della Chiesa ha bisogno di essere rilanciata». Non c’è più tempo da perdere. È urgente farlo. Questa preoccupazione e sollecitudine sono all’origine della decisione che il Papa ha preso di convocare un sinodo speciale per l’Amazzonia. La situazione dei popoli indigeni avrà la massima priorità, ma il sinodo riguarda tutto il corpo ecclesiale locale, con la totalità della sua popolazione.
Dunque, l’obiettivo del sinodo è “rilanciare la Chiesa”, una Chiesa missionaria, profetica, misericordiosa, povera e per i poveri, una Chiesa vicina e dialogante, che, inoltre, si prende cura della casa comune. Gli indigeni chiedono a gran voce una Chiesa anche fisicamente più vicina. Vogliono una Chiesa che prende decisamente l’impegno di avviare un processo di conversione missionaria e pastorale, incarnata e inculturata nelle culture della regione, quindi interculturale, dato che nel territorio convivono molte culture diverse. Si apre in questo modo per il sinodo un orizzonte molto vasto: vasto, ma non generico né privo di un orientamento preciso. Anzi, il Papa insiste che non si deve perdere la mira. I bersagli di questa mira sono innanzitutto “i nuovi cammini”, “i popoli indigeni”” e “l’ecologia integrale”.
All’inizio del nuovo millennio, il Papa di allora, Giovanni Paolo II, esortò la Chiesa a non scoraggiarsi e a non intiepidirsi. Voleva dare un nuovo slancio alla Chiesa. Nella lettera apostolica Novo millennio ineunte, del 2001, il Papa inizia con queste parole: «All’inizio del nuovo millennio, mentre si chiude il Grande Giubileo in cui abbiamo celebrato i duemila anni della nascita di Gesù e un nuovo tratto di cammino si apre per la Chiesa, riecheggiano nel nostro cuore le parole con cui un giorno Gesù, dopo aver parlato alle folle dalla barca di Simone, invitò l’Apostolo a “prendere il largo” per pescare: Duc in altum! (Luca, 5, 4). Pietro e i primi compagni si fidarono della parola di Cristo, e gettarono le reti. “Così fecero e presero una gran quantità di pesce” (Luca, 5, 6). Duc in altum! Queste parole risuonano oggi per noi, invitandoci a ricordare con gratitudine il passato, a vivere con passione il presente, ad aprirci con fiducia al futuro» (n. 1).
L’Osservatore Romano, 1°-2 agosto 2019