Anniversario. Saint-Exupéry, l’incidente che segnò Il Piccolo Principe

A 75 anni dalla morte dello scrittore-aviatore emerge l’influenza sul suo capolavoro di uno schianto in Libia nel 1935 da cui uscì illeso

Lo scrittore-pilota Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944) / Epa/Afp
da Avvenire
Un pilota, uno scrittore, un giornalista, ma soprattutto un uomo che ha saputo interpretare l’esperienza del volo come metafora della vita. Un’esistenza avventurosa e avvincente, quella di Antoine de Saint-Exupéry, morto esattamente 75 anni fa, il 31 luglio del 1944, caratterizzata da numerose imprese aviatorie, ma anche da alcuni incidenti come quello di Libia. Per un pilota d’aeroplano precipitare non è mai un’esperienza facile. Quella vissuta da dall’autore de Il Piccolo Principe durante la trasvolata Parigi-Saigon incise profondamente nel suo modo di pensare, ma anche di raccontare e scrivere. Non fu solo un episodio che destò trepidazione tra amici e conoscenti dell’autore de Il Piccolo Principe, ma anche non poca trepidazione tra le cancellerie di mezzo mondo, Italia compresa, che si attivò nelle ricerche facendo alzare in volo i propri aerei, anche perché il disastro era avvenuto in territorio libico occupato dalle truppe italiane. Quello che sarà conosciuto come “l’incidente di Libia” è stato raccontato dal premio Pulitzer Stacy Schiff in Saint-Exupéry. A biography. Nel suo volume ripercorre la tragedia di quella notte, così come fa anche lo scrittore Emmanuel Chadeau nel suo libro Saint-Exupéry.

Quest’ultimo in quattro anni di ricerca tra gli archivi privati e pubblici di Francia e Stati Uniti con il rigore e la passione dello storico racconta gli attimi drammatici della tragedia che proseguirà con i giorni di sopravvivenza nel deserto libico. Una storia raccontata dalle cronache dei giornali del tempo, a partire dal Corriere della Sera del 31 dicembre 1935. Il quotidiano milanese dà notizia della scomparsa del pilota francese e del suo meccanico tra Bengasi ed Alessandria. È questa la prima notizia che viene diramata subito dopo l’incidente aereo. Del passaggio di Saint-Exupéry e del suo meccanico André Prevot erano stati informati gli aeroporti dei territori interessati alla trasvolata. È del 29 dicembre 1935 il documento dell’Ufficio addestramento del Comando aviazione della Cirenaica dell’Aeronautica della Libia che informava con un messaggio sintetico e conciso la presenza dei due aviatori: «Apparecchio francese – Pilota de Saint Exupéry. Raid: Parigi – Saigon » (Fonte: Ussma, Ufficio storico dello stato maggiore dell’aeronautica militare). Il documento (nella foto) registra la partenza e il passaggio del Caudron-Renault Simoun immatricolato F-anry dell’aviatore e scrittore che, in meno di 24 ore precipiterà in territorio libico, a 150 chilometri da Il Cairo.

L’incidente, infatti, avviene il 30 dicembre 1935 alle 2:45 del mattino. I due uomini rimarranno per tre giorni nel deserto prima di essere ritrovati dai beduini e condotti a Il Cairo. Una storia, per fortuna a lieto fine, che Saint-Exupéry racconterà alla fine della brutta avventura prima sul giornale L’Intransigeant, poi in un capitolo del libro Terre des hommes. Il drammatico momento precedente all’impatto viene descritto così dallo scrittore- aviatore nel libro Terra degli uomini sempre nel capitolo VII dal titolo “Al cen- tro del deserto”. Il 3 gennaio del 1936 sarà L’Express a pagina 5 a fare un primo resoconto della brutta avventura di Saint-Exupéry e di Prevot. Sono gli stessi aviatori a raccontare la disavventura una volta arrivati in albergo a Il Cairo. Infine dopo tre giorni d’angoscia arriva una notizia che porterà enorme sollievo a tutti gli amici dell’aviazione e a tutti coloro che hanno apprezzato la lettura di “volo notturno”.. L’aviatore De Saint Exupery e il suo meccanico Prevot sono stati ritrovati a 150 chilometri ad est del Cairo dopo tre giorni nel deserto ( L’Express del 3 gennaio 1936). Il quotidiano Le Figaro il giorno dopo, il 4 gennaio 1936, grazie al suo corrispondente dal Cairo, Andrè de Laumois racconta i dettagli della disavventura in prima pagina direttamente dall’Hotel Continental dove si trovava de Saint-Exupéry.

La stessa cosa fa L’Intransigeant, sponsor della trasvolata il 4 gennaio 1936, che pubblica un’intervista dove l’aviatore racconta i momenti precedenti il disastro: «Uscendo dal mare di nuvole, abbiamo urtato il suolo alla velocità di 250 chilometri all’ora. Morendo di sete eravamo alla fine delle forze, quando all’orizzonte apparvero i beduini». Nei giorni della permanenza in albergo diversi giornalisti intervistarono il pilota e il meccanico francesi, compresa l’Agenzia Havas. In particolare i due aviatori, dopo essere stati salvati dai beduini, dichiararono di essere giunti a Il Cairo grazie all’aiuto di un imprenditore svizzero: «Verso le sei di sera, un’automobile, carica di beduini armati, ci è venuta a prendere. Una mezz’ora più tardi sbarchiamo da un ingegnere svizzero, Raccaud, che dirige una fabbrica di soda vicino a una salina nel deserto, e troviamo presso di lui un’accoglienza adorabile. A mezzanotte ero al Cairo». Un po’ tutti i giornali occidentali parlano del ritrovamento di Saint-Exupéry e di André Prevot. L’incidente di Libia non rimane però circoscritto agli articoli e ai libri che seguirono quel tragico episodio, a dimostrazione di quanto quell’esperienza abbia inciso nella vita di Saint-Exupéry. Leggendo tra le righe de Il Piccolo Principe il fascino del volo, la tragica caduta e l’esperienza del deserto, con il salvataggio dei beduini, restano un tema centrale nella narrazione della pubblicazione tradotta in più di duecento lingue.

Storie e riflessioni per la giornata mondiale dell’amicizia

L’Osservatore Romano

(Gabriele Nicolò) Nell’amicizia, quella vera, non ci deve essere nulla di finto. Franchezza e schiettezza, invece, sono gli elementi fondanti: parola di Cicerone, che nel dialogo intitolato, appunto De Amicitia, dichiara che essa è superiore a qualsiasi altro bene perché dona speranza e non fa piegare l’individuo di fronte al destino, anche il più inclemente. Se poi l’amicizia viene a cementarsi tra uomini di ingegno eccelso, maestri di sapere e di penna, non c’è dubbio che il legame viene a caricarsi e a fregiarsi di motivi ancor più alti. Si tratta di un patrimonio di grande valore in cui confluiscono la dimensione umana e la dimensione culturale, nel segno di un reciproco e fertile arricchimento.
Getta una forte luce su tale patrimonio l’intrigante e interessantissimo libro di Paolo Gulisano Là dove non c’è tenebra. Storie di amicizia tra scrittori (Milano, Edizioni Ares, 2019, pagine 208, euro 14), appena uscito in libreria, in cui l’autore dichiara che la sua esplorazione «si limita volutamente agli ultimi due secoli, alla modernità, un tempo nel quale l’amicizia è diventata sempre più problematica».
L’amicizia risulta essere un’alleata assai preziosa quando si intende scendere nell’abisso del cuore umano: è il caso di Nathaniel Hawthorne ed Herman Melville. All’inizio di Moby Dick c’è una dedica ad Hawthorne: è l’omaggio a un grande amico con cui Melville aveva condiviso lunghe chiacchierate. L’opera uscì pochi mesi dopo che nelle librerie era arrivato il capolavoro del collega, La lettera scarlatta. Due grandi libri: «Uno faceva i conti con la storia della giovane nazione americana, l’altro con l’epica oceanica — scrive l’autore —. Entrambi, in ogni caso, rappresentavano un’esplorazione degli angoli più cupi del cuore umano». Una vera e propria discesa nell’abisso, appunto.
Una discesa che i due scrittori hanno condiviso a Boston, allora il centro culturale propulsivo del paese: accanto ai club esclusivi, agli austeri ambienti bostoniani, agli eredi del puritanesimo dagli orizzonti ristretti, si era sviluppata una vivace vita intellettuale. In questo contesto così poliedrico si affermò una narrativa che anelava a dare voce alle diverse anime di un’America che stava cambiando a causa del forte impatto industriale, tecnologico e finanziario, e anche in virtù dell’arrivo di migliaia di emigranti provenienti dall’Europa. E in un’America in rapida evoluzione la letteratura affrontò l’esigenza di ritornare alle origini, alle realtà locali che sembravano destinate a scomparire «sotto la minaccia della modernizzazione incombente e della standardizzazione progressiva dei costumi».
Melville crebbe in un’Ameirca ancora legata a un passato di cui si avvertiva la nostalgia, dove all’ebbrezza per l’irrompere di un mondo tecnologico si accompagnava il desiderio di conservare realtà semplici e domestiche, fatte di attenzione per le piccole cose. Melville e Hawthorne si erano conosciuti quando Melville aveva preso dimora nel New England, ponendo così fine alle sue avventure marinaresche. La loro amicizia fu di stimolo intellettuale per entrambi, in particolare per l’autore di Moby Dick, che definì l’amico come lo scrittore americano in possesso della «qualità geniale più eccelsa e insieme più profonda di quella che finora non abbia dimostrato un qualsiasi altro americano nella carta stampata». Melville lesse La lettera scarlatta mentre si accingeva a scrivere Moby Dick. Una lettura che certamente non lo lasciò indifferente tanto che in una lettera all’amico gli scrisse che nessuno meglio di lui ha incarnato con più potenza una «certa tragica fase dell’umanità», ovvero l’apprensione per la ricerca della verità.
L’amicizia può essere vissuta da individualità molto diverse, come, per esempio, Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri. Il primo, una delle figure più note e celebrate della cultura italiana, e non solo; il secondo, scrittore non più che mediocre. Leopardi incontrò Ranieri a Firenze nel giorno del suo trentesimo compleanno, il 28 giugno 1828. Il poeta era in una fase cruciale della sua vita: era passato dal giovanile classicismo, ispirato alle opere dell’antichità greco-romana, al romanticismo, che proprio in quegli anni stava suscitando sia forti interessi che aspre polemiche. Tra Giacomo, chino sui libri e assorbito dalla riflessione, e Antonio, brillante, di bell’aspetto (e donnaiolo) che cosa fece scattare un profondo sodalizio? Non è facile trovare una risposta univoca. La guasconeria di Ranieri nascondeva, in realtà, una certa fragilità, che ben si coniugava con la morbida sensibilità di Leopardi, che nell’amico trovava un solido sostegno nel domare i marosi della vita in società. Sia nei Pensieri che nello Zibaldone Leopardi descrive l’amicizia come una delle tante illusioni degli uomini: ma il legame con Ranieri era destinato a smentire tale assunto. La loro amicizia — scrive Gulisano — fu «la somma di due fragilità».
L’amicizia sa anche sorprendere, quando lega due inguaribili narcisisti che, in teoria, non dovrebbero andare d’accordo. Eppure tra Percy Bysshe Shelley e George Gordon Byron — gli iniziatori del movimento romantico, poeti ribelli e anticonformisti — venne a stabilirsi un’unione fondata sul desiderio accanito di sapere e di ghermire le tante manifestazioni della bellezza. Un giorno, da San Terenzo, Shelley salpò alla volta della costa livornese per raggiungere Byron (con lui voleva discutere la possibilità di realizzate una rivista politica e culturale). Nel ritorno, sorpreso da una tempesta, fece naufragio nel mare di fronte a Lerici. Byron non sarebbe sopravvissuto a lungo all’amico. Catturato dall’idea di restituire la libertà alla Grecia, oppressa dal potere ottomano, si unì, a Cefalonia, a una sorta di brigata internazionale che avrebbe dato sostegno alla guerra di indipendenza. Il poeta, in seguito a una meningite, morì a Missolungi: con sé aveva il manoscritto dell’incompleto Don Juan, il nome della barca sulla quale era naufragato Shelley.
Fu un grande sodalizio spirituale quello tra Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini: l’incontro fra i due risale al 1826, quando il giovane sacerdote trentino arrivò a Milano. In quello stesso anno i due iniziarono un ricco carteggio che mise in evidenza la loro comunione di idee su svariati argomenti, nonché il reciproco desiderio di migliorarsi, attingendo l’uno dall’altro informazioni, consigli e critiche. Rosmini, tra l’altro, aveva letto il Fermo e Lucia e, da buon classicista, e aveva dato alcuni suggerimenti a Manzoni riguardanti la lingua e lo stile. La stima che lo scrittore milanese aveva per l’amico si specchia esemplarmente in tale affermazione: «Il Rosmini è una delle sei o sette intelligenze che più onorano l’umanità». Del resto agli occhi di Manzoni, l’amico aveva acquistato ampio credito perché era stato tra i primi a cogliere il valore religioso che permea di sé i Promessi Sposi, mentre altri intellettuali si erano concentrati su temi inerenti il versante politico o la denuncia sociale, perdendo di vista il fine ultimo, ed edificante, dell’opera.
Ci fu una cena (una sera di settembre del 1889) all’origine di due capolavori, Il Segno dei quattro e Il ritratto di Dorian Gray, firmati rispettivamente da Arthur Conan Doyle e Oscar Wilde. E fu quella cena, cui partecipò un terzo commensale, l’editore statunitense Joseph Stoddart, a innescare un legame che ben presto si trasformò in amicizia. L’editore propose a entrambi di cimentarsi ciascuno con un racconto dove fosse presente il mistero, e almeno un delitto: pur lungimirante nell’intuire gli scrittori di razza, Stoddart non avrebbe certo immaginato che dalla sua proposta sarebbero sgorgate due opere capaci di resistere alle ingiurie del tempo.
Facendo un’eccezione al criterio cronologico che informa il libro, l’autore lascia per ultima la coppia di amici (numerose altre sono trattate nel corso della narrazione) John Ronald Reuel Tokien e Clive Staples Lewis. E lo fa per un motivo preciso.
Nel Signore degli Anelli — scrive Gulisano — vi sono tre immagini iconiche dell’amicizia: la prima è quella di Gandalf nelle miniere di Moria, quando la Compagnia dell’Anello affronta un nemico terrificante, il mostruoso Balrog. L’altra immagine è quella di Gimli e Legolas. Di fronte ai Neri Cancelli di Mordor, alla fine dell’impresa, tutto ormai sembra perduto. Il nemico è molto più numeroso: la fine è inevitabile. A quel punto Gimli mormora contro il fatto di dover morire accanto a un elfo. «E accanto a un amico?» gli chiede Legolas. A quel punto la durezza del nano si scioglie. «Sì, accanto a un amico si può» mormora commosso. La terza immagine iconica è quella di Sam e Frodo sulle ultime propaggini di Monte Fato. Frodo è ormai stremato. Accanto a lui c’è l’amico fedele, che non lo ha mai abbandonato. Sam vorrebbe prenderlo lui quel fardello, ma Frodo non glielo permette. «Se non posso portare l’Anello — dice l’Hobbit — allora porterò voi», e si carica Frodo sulle spalle percorrendo gli ultimi metri prima dell’ingresso al vulcano. L’amico — sottolinea Gulisano — è anche questo: colui che prende su di sé il peso dell’altro, le sue sofferenze.
E l’amicizia consiste anche e soprattutto nel non sentire quel peso, seppur gravoso, come tale. «In nulla mi considero felice se non nel ricordarmi dei miei buoni amici» afferma, nel Riccardo II, William Shakespeare.
L’Osservatore Romano, 29-30 luglio 2019

Le Nazioni Unite denunciano il tragico record raggiunto nel 2018. In un anno oltre dodicimila bambini vittime di conflitti


Sono oltre 12 mila i bambini rimasti uccisi e feriti durante i conflitti armati, lo scorso anno. Il dato, reso noto dalle Nazioni Unite, segna una «cifra record» ed evidenzia in cima alla lista dei Paesi con il maggior numero di vittime l’Afghanistan, lo Stato di Palestina, la Siria e lo Yemen. Si tratta dell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite redatto in occasione del vertice del Consiglio di sicurezza su Infanzia e conflitti armati, ieri a New York.
L’Osservatore Romano

A don Fabrizio nel 1° Anniversario

Una poesia dedicata a don Fabrizio…

TRA LIBRI E AMICI…

Tra i libri
vibri
per il Vangelo
e togli il velo
ai volti scuri
con sguardi puri
accendi speranza
dalla tua stanza
ricca di pagine
non è la fine
ci parli ancora
ora
con gesti veri
con gusti seri
la tua presenza
riempie la stanza
dei ricordi perduti
i volti muti
nascosto dolore
tramutato in amore…

di Giuseppe Serrone (scritta il 30 Luglio 2019)