Facciamo un presepe vivente

Quest’anno accanto alla grotta c’è un nuovo popolo di “scartati”, che cerca riparo ai bordi delle città e dell’ordine costituito, ingrossando le file dei senza niente. Riprendiamo l’editoriale firmato qualche giorno fa dal direttore di “Avvenire”: ci è sembrato particolarmente significativo anche per il nostro “Tema del mese”

Il presepe di cui qui si parla è vivente. Loro sono giovanissimi: Giuseppe (Yousuf), Fede (Faith) e la loro creatura. Che è già nata, è una bimba e ha appena cinque mesi. Giuseppe viene dal Ghana, Fede è nigeriana, entrambi godono – è questo il verbo tecnico – della «protezione umanitaria» accordata dalla Repubblica Italiana. Ora ne stanno godendo in mezzo a una strada. Una strada che comincia appena fuori di un Cara calabrese e che, senza passare da nessuna casa, porta dritto sino al Natale. Il Natale di Gesù: Uno che se ne intende di povertà e grandezza, di folle adoranti e masse furenti, di ascolto e di rifiuto, del “sì” che tutto accoglie e tutti salva e dei “no” che si fanno prima porte sbattute in faccia e poi chiodi di croce.

Giuseppe e Fede solo stati abbandonati, con la loro creatura, sulla strada che porta al Natale e, poi, non si sa dove. Sono parte di un nuovo popolo di “scartati”, che sta andando a cercare riparo ai bordi delle vie e delle piazze, delle città e dell’ordine costituito, ingrossando le file dei senza niente. Sono i senza più niente. Avevano trovato timbri ufficiali e un “luogo” che si chiama Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) su cui contare per essere inclusi legalmente nella società italiana, apprendendo la nostra lingua, valorizzando le proprie competenze, studiando per imparare cose nuove e utili a se stessi e al Paese che li stava accogliendo. Adesso quel luogo non li riguarda più. I “rifugiati” sì, i “protetti” no. E a loro non resta che la strada, una strada senza libertà vera, e gli incontri che la strada sempre offre e qualche volta impone: persone perbene e persone permale, mani tese a dare e a carezzare e mani tese a prendere e a picchiare, indifferenza o solidarietà.

Si può essere certi che il ministro dell’Interno, come i parlamentari che hanno votato e convertito in legge il suo decreto su sicurezza e immigrazione, non ce l’avesse con Giuseppe, Fede e la loro bimba di cinque mesi. Ma è un fatto: tutti insieme se la sono presa anche con loro tre, e con tutti gli altri che il Sistema sta scaricando fuori dalla porta. Viene voglia di chiamarla “la Legge della strada”. Che come si sa è dura, persino feroce, non sopporta i deboli e, darwinianamente, li elimina. È un fatto: la nuova “Legge della strada” già comanda sulla vita di centinaia di persone che diverranno migliaia e poi decine di migliaia. Proprio come avevamo avvertito che sarebbe accaduto, passando – ça va sans dire – per buonisti e allarmisti.

Eccolo, allora, davanti ai nostri occhi il presepe vivente del Natale 2018. Allestito in una fabbrica dell’illegalità costruita a suon di norme e di commi. Campane senza gioia, fatte suonare per persone, e famiglie, alle quali resta per tetto e per letto un misero foglio di carta, che ironicamente e ormai vuotamente le definisce meritevoli di «protezione umanitaria». Ma quelle campane tristi suonano anche per noi.

P.S. Per favore, chi ha votato la “Legge della strada” ci risparmi almeno parole al vento e ai social sullo spirito del Natale, sul presepe e sul nome di Gesù. Prima di nominarlo, Lui, bisogna riconoscerlo.

in vinonuovo.it

Nutrire la speranza / Avvento

Preparate la via del Signore – proclama il Battista – e, nella prospettiva che stiamo seguendo in queste riflessioni, potremmo tradurre questo invito così: «Seminate segni di speranza»!

Preparare la via al Signore

Il messaggio dei profeti ha sempre due facce: denunciare ciò che ammala il mondo e incoraggiare con la promessa di un cambiamento che, se ci dà fiducia e sicurezza in Dio, perché è lui il Bene che tende a diffondersi per guarire i guasti intervenuti nel creato, chiede però anche di materializzarsi in azioni nostre mirate a curare le ferite dell’umanità che producono dolore e sconforto.

La fiducia in Dio si rigenera di continuo nella preghiera, che è insieme lode e supplica, con la prima come fonte e traguardo della seconda; la fiducia nell’umanità si nutre e si sostiene con tutti quei gesti di benevolenza e gratuità, dati e ricevuti, che regalano consolazione e gioia.

Nella segmentazione seguita dal Lezionario, il passo che invita a «preparare la via del Signore» è collocato nella seconda domenica, ma è meglio leggerlo insieme e come premessa a quanto è previsto per la terza, che continua il messaggio in figure, letto domenica scorsa, con tre indicazioni estremamente pratiche.

Il messaggio in figure, ripreso da Is 40,3-5, si dispiega così: burroni che vanno riempiti e monti che devono essere abbassati, vie tortuose da rendere diritte, e quelle impervie da spianare. Se poi si vuole sperimentare in concreto la stupenda intensità emotiva di queste figure, si ascolti l’aria “Every valley” con cui Handel apre il suoMessia (se ne veda un’analisi in D. Pezzini, Cantate Domino, p. 66-68).

Sono quattro indicazioni che si possono facilmente tradurre in comportamenti morali: sollevare dalla depressione chi è scoraggiato e langue sul fondo, abbattere l’orgoglio di chi si sente padrone delle alture, superare nella rettitudine ogni tortuosità, ipocrisia e ambiguità e, infine, facilitare il cammino di chi intende seriamente muoversi verso il Signore, per esempio, non caricandolo con pesi insopportabili (cf. Mt 23,4; Lc 11,46), che è poi una versione del «non scandalizzare i piccoli» (Mt 18,6), che vuol dire ben di più di quanto solitamente si intende, perché indica l’attenzione a non rendere difficile la fede a chi è già fragile di per sé! Un bel programma, che altro non è se non un invito a riprodurre nella nostra vita l’immagine stessa di Dio, resa visibile nel volto di Gesù (cf. Gv 1,18; Rm 8,29; 2Cor 3,18; Col 1,15).

E, alla fine, lo splendido dilatarsi della promessa, rilevato solo da Luca: e ogni carne vedrà la salvezza di Dio! Il termine carne dice tutta la fragilità della creatura, che sarebbe meglio sottolineare invece che sostituirlo, come fa il messale, con il più generico uomo.

In Luca 3,10-18, letto in questa terza domenica di Avvento, le figure si concretizzano in tre comportamenti pratici che formano una sorta di schema catechetico facile da ricordare, e che soprattutto rispondono alla domanda che di solito viene spontanea quando si sente illustrare un bel progetto, diciamo un bell’ideale: «Cosa dobbiamo fare?». Sono scelte tre categorie di interlocutori, a loro modo emblematiche: le folle, i pubblicani, i soldati.

La cupidigia

La prima è la più generale, e rappresenta chiunque, per cui la risposta diventa tanto più significativa.

Il primo grande segno di speranza da seminare per guarire un mondo malato è dunque il più importante: dice che contro l’istinto padronale e la cupidigia che da esso deriva, e che genera desideri che – come si è visto – sono quasi sempre illusori e fallaci, c’è solo una risposta efficace e convincente: la condivisione! Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto.

Dietro questa disponibilità a dare sta un sentimento profondo che ha una base antropologica: niente è davvero “nostro”, e dunque questo istinto radicato di possesso/proprietà, che nasce certo dalla nostra “nudità” primigenia mirabilmente sintetizzata da Giobbe 1,21, va governato e trasfigurato in disponibilità al dono.

Ricordiamo il già citato radix omnium malorum cupiditas (1Tm 6,10), e la cupidigia, poi diventata nella lista dei sette vizi capitali «avarizia», è non solo il più radicato, ma il più resistente dei vizi. Lo ricorda un bel dramma inglese medievale, il Castello di perseveranza (XV sec.) in cui l’uomo, assediato dai vizi/diavoli nella rocca dove vive difeso dalle virtù, riesce a sconfiggerli tutti tranne uno, la cupidigia, appunto, che, alla fine, rischia di sconfiggere lui!

Era letteratura per la borghesia di città, con in testa i mercanti, e la dura condanna del pericolo delle ricchezze non è un caso: si ricordi Francesco d’Assisi.

La poetessa inglese Elizabeth Jennings (1926-2001) inizia così una bella poesia dal titolo Oltre il possesso: «Le immagini recedono, la rosa ritorna / a ciò che era prima che la guardassimo. / Togliamo lo sguardo da dove l’acqua scorre / ed è di nuovo un puro fiume, non scriviamo / nessun segno sugli alberi. Un modo di vivere nuovo / comincia dove non c’è bisogno di schiacciare / i petali per avere il profumo della rosa / o di marcare i nostri lineamenti là dove l’acqua scorre» (La danza nel cuore delle cose, Àncora, Milano 2007, p. 37).

La disponibilità a donare e a condividere mi pare sia il corrispettivo pratico di ciò che il card. Martini ha qualificato come «la dimensione contemplativa della vita», dove per “contemplazione” si intende non solo, o non tanto, una forma di preghiera, ma un atteggiamento del cuore non aggressivo, traducibile nel saper “guardare” senza il bisogno di “rapire” o di “possedere”, ma godendo semmai con gratitudine della bellezza che ci si offre gratuitamente. È questo il lato affascinante della “povertà”!

L’ingordigia

La seconda risposta rivolta agli esattori delle tasse ha ancora a che fare con i beni, e intende battere in breccia quell’aspetto della cupidigia che è l’ingordigia: Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato. Viene subito in mente quell’invito alla moderazione e alla sobrietà espresso in 1Tm 6,7-8: Non abbiamo portato nulla nel mondo, e nulla possiamo portare via. Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci.

Credo che su questo i cristiani abbiano grosse responsabilità nel mondo d’oggi, dove l’istinto dell’accumulo di beni e la dilagante corruzione che ne deriva sono ormai una parte rilevante di tanti discorsi fatti da giornali e TV, che nutrono tanti egoismi, magari aizzati da certi comportamenti della politica (si pensi a come sono giudicati e trattati i migranti), contro i quali vanno sostenute e rafforzate quelle iniziative, piccole ma coraggiose, che sono una vera seminagione fruttuosa di segni di speranza che accendono un po’ di luce in un mondo che pare declinare irrimediabilmente verso una notte (Vergente mundi vespere, canta l’inno d’Avvento) che farà male a tutti. Fa parte della medesima responsabilità testimoniare un atteggiamento mentale e pratico verso il creato che non sia predatorio, ma risponda invece al comando di coltivare e custodire il giardino di Eden (Gen 2,15) nel quale Dio ha collocato l’uomo fin dalle origini.

La prepotenza

La terza e ultima risposta data ai soldati intende battere un’altra radice perversa, la prepotenza, che è una forma che prende il potere in chi lo gestisce come dote di cui non deve rendere conto a nessuno, spingendo chi si trova in una situazione di privilegio ad approfittarne per rifarsi su chi è più debole: Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe.

Il male è diffuso, dalle mazzette negli appalti ai giochi sporchi delle banche, dalle mille furbizie usate per ingannare e derubare fino alle forme odiose di un imperversante bullismo. Qui la luce che guarisce il mondo è la mitezza e il rispetto, oltre alla sobrietà, che, in qualche modo, riprende quanto già detto nella seconda risposta.

È il caso di ricordare, quando il cielo della società in cui viviamo si fa troppo grigio, e la speranza va in cristi, almeno l’esempio, di cui si parla sempre troppo poco, delle tante forme di volontariato che spuntano un po’ dovunque, dove significativamente sono numerosi i giovani, credenti e non, e che sono un potente incoraggiamento a sperare nel futuro.

Mi sono spesso chiesto perché – come si sente spesso ripetere – il bene non fa notizia, e sia invece più spesso il male a stuzzicare la curiosità. Forse proprio anche questo è un segno della nostra radicale proclività a muoverci verso il “nulla” di cui parlava Aelredo nel passo riportato. In ogni caso, se vogliamo collaborare a “guarire” il mondo malato, mostrando nei fatti che cosa comporta la “venuta” e la presenza di Cristo che siamo chiamati a preparare, rimane compito imprescindibile del discepolo il gettare ovunque semi di speranza, il tenere aperte lefessure in tutti i muri che si alzano, lo spargere su una terra inaridita un po’ di rugiada che scende dal cielo, perché anche dalla terra, e sulla terra, germogli il Salvatore.

settimananews

Sinodalità e coinvolgimento

Tra i cattolici meno informati sulle questioni teologiche si può diffondere la convinzione che il tema della sinodalità, fortemente rilanciato da papa Francesco, sia qualcosa di molto recente, lontano dalla prassi secolare della Chiesa cattolica, nella quale invece le decisioni sarebbero state assunte autonomamente dall’autorità ecclesiastica.

In realtà, anche se il termine “sinodale” è stato effettivamente rilanciato solo negli ultimi decenni, a seguito del rinnovamento conciliare, la pratica ecclesiale che esso indica, cioè la necessità di consultare tutti membri di una comunità prima di arrivare ad una decisione importante che la riguarda, affonda le sue radici nell’ecclesiologia neotestamentaria e patristica.

Una prassi antica

In modo particolare, poi, questo stile ha assunto un profilo giuridico nel medioevo, quando la sinodalità è stata interpretata da un principio del diritto romano. A questo riguardo, così si esprime il documento della Commissione teologica internazionale La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa: «Il rinnovamento della vita sinodale della Chiesa richiede di attivare processi di consultazione dell’intero popolo di Dio». «La pratica di consultare i fedeli non è nuova nella vita della Chiesa. Nella Chiesa del Medioevo si utilizzava un principio del diritto romano: Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet (ciò che riguarda tutti dev’essere trattato e approvato da tutti). Nei tre campi della vita della Chiesa (fede, sacramenti, governo), la tradizione univa a una struttura gerarchica un regime concreto di associazione e di accordo, e si riteneva che fosse una prassi apostolica o una tradizione apostolica» (Commissione teologica internazionale, Il “sensus fidei” nella vita della Chiesa, 2014, n. 122). Questo assioma non va inteso nel senso del conciliarismo a livello ecclesiologico né del parlamentarismo a livello politico. Aiuta piuttosto a pensare e ad esercitare la sinodalità «nel seno della comunione ecclesiale» (n. 65).

Secondo questo passaggio, l’attivazione di processi di consultazione dell’intero popolo di Dio non è ancora avvenuta in modo soddisfacente, dal momento che essa viene indicata come la condizione auspicata per rinnovare la sinodalità all’interno della Chiesa. Soprattutto, però, si afferma che, nella Chiesa medievale, proprio questa sinodalità era una prassi ben attestata e, in un certo qual modo, normata giuridicamente. In questo periodo non si è avuto timore di rifarsi al diritto romano – dunque, ad un sapere “laico” – per interpretare e vivere un aspetto caratteristico dell’identità ecclesiale come quello sinodale.

In effetti, l’affermare che «ciò che riguarda tutti deve essere trattato e approvato da tutti» è un modo chiaro per declinare in concreto il fatto che nella Chiesa, che non è una democrazia ma una comunione, ciascuno ha il dono dello Spirito Santo e il senso di fede, e quindi può e deve contribuire attivamente al discernimento della verità dottrinale e delle scelte pastorali.

Portavoce di differenti opinioni

Questo principio ha un valore molto importante anche per noi. Esso potrebbe aiutarci ad evitare un’esperienza molto sgradevole che non di rado si può subire ancora oggi nelle comunità cristiane, ovvero quella di venire a conoscenza di decisioni importanti che riguardano tutti, ma che sono state prese da qualcuno “a porte chiuse”, talora addirittura da figure non ben identificabili.

In alcuni casi, poi, questa situazione può essere motivata da un presunto consenso della comunità (“si è deciso, tutti d’accordo…”), anche se non si riesce a capire quando e come questo consenso sia stato rilevato.

In tali circostanze non solo si può legittimamente restare perplessi davanti alla scelta fatta e alla modalità del percorso decisionale, ma si può anche pensare di disporre di argomentazioni molto convincenti che, se si fossero potute presentate a chi di dovere, avrebbero probabilmente orientato verso soluzioni migliori.

Il principio in questione, però, non si limita solamente a richiedere che avvenga una consultazione effettiva di coloro che sono toccati da una decisione, ma anche che tutti possano esprimere il loro parere. Anche se normalmente non è possibile consultare ogni membro di una comunità, per cui bisogna procedere attraverso organismi di rappresentanza (come i consigli pastorali), è comunque necessario che ciascuno veda la sua opinione correttamente capita e rappresentata nel dibattito. Per questo non è sufficiente radunare una commissione o un consiglio per dire di aver attivato uno stile sinodale, ma occorre pure che i suoi componenti, oltre che competenti sulle questioni da trattare, siano effettivamente capaci di essere portavoce delle differenti opinioni della comunità, incluse quelle meno popolari. In caso contrario, ciò che riguarda tutti sarebbe comunque trattato e approvato solo da pochi.

Una corretta applicazione della prassi sinodale

Inoltre, se occorre superare una visione monarchica del pastore, che gli riconosce il diritto di prendere le decisioni in modo autoreferenziale, non deve neppure capitare che i membri di un organismo di rappresentanza si pensino come un’oligarchia elitaria che può esercitare un potere autonomo e indiscusso.

A volte, però, nel momento in cui un pastore mostra di fidarsi delle conclusioni di un consiglio o di gruppo di lavoro, può succedere che gli altri membri della comunità guardino con apprensione all’esito di questo percorso, come se avvertissero il pericolo di dover subire decisioni calate dall’alto da parte di questo organismo. In realtà, l’ultima istanza deve sempre restare il discernimento personale del pastore.

Da questo punto di vista, è evidente che la sinodalità non può mai essere una via d’uscita praticabile per ministri fortemente indecisi, che cercano volentieri di far stabilire da altri ciò che essi non riescono a scegliere.

La condizione per verificare la qualità di un processo sinodale mi pare essere la trasparenza, secondo lo stile che papa Francesco ha cercato di imprimere ai recenti sinodi dei vescovi. Quando questo processo si è concluso, tutti i membri della comunità dovrebbero aver capito bene il problema esaminato, aver riconosciuto il proprio punto di vista tra le soluzioni che sono state oggetto di ampia e serena discussione, ed essere stati informati in modo comprensibile delle motivazioni per le quali il pastore ha preso personalmente, sotto la sua ineludibile responsabilità, determinate decisioni.

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Natale. Il presepe è avanguardia per tradizione, ed è sempre più popolare

Il presepe è avanguardia per tradizione, ed è sempre più popolare

Non c’è niente di più tradizionale del presepe? No: non c’è nulla che sia più d’avanguardia. Pensiamoci: fu azione di novità assoluta il primo presepe, quando Francesco a Greccio fece crollare il diaframma tra uomo e storia sacra. Il presepe poi, in virtù di questo “dna del presente”, ha saputo vestirsi con i panni di ogni epoca e terra che ha attraversato. Lo abbiamo visto realizzato con ogni tecnica, anche sperimentali o solo bizzarre, e in tutte le ambientazioni possibili: le più azzardate, le più drammatiche. E la scena della Natività non solo non si scompone mai ma è disponibile a inglobare ogni novità: flessibile, malleabile e resistentissima resta sempre, inequivocabilmente “presepe”.

Vogliamo andare fino in fondo sul presepe come avanguardia? I presepi viventi sono performance collettive, in cui spesso arte e vita si sovrappongono. È gioco serissimo per grandi e bambini, che usa medium in- soliti: la stagnola è senza dubbio acqua e un la farina è neve. È uno spazio in cui ogni norma proporzionale collassa mentre il tempo esce dal suoi perni tra simultaneità di epoche e immobilità metafisica. E nessuno alza il dito per contestare. Il presepe è il paradigma di “opera aperta”: dati gli stessi elementi a ogni giro è diverso; oppure: ogni anno si amplia di un pezzetto. Un’espansione virtualmente infinita.

È così anche il presepe di Francesco Londonio, recentemente donato al Museo diocesano Carlo Maria Martini di Milano e che da oggi e fino al 10 gennaio è presentato (per la prima volta in pubblico) al Palazzo Pirelli. Gioiello di un Settecento intimo e famigliare, è costituito da sessanta figure dipinte e ritagliate su carta: da comporre e ricomporre a piacimento. Maria con il Bimbo, i Magi, i pastori, madri contadine con i figli, paggi, zampognari, vacche e capre, quinte sceniche. Gli elementi esotici sono solo la spruzzata necessaria per dare un aroma più speziato al dolce tono dell’Arcadia: tutto il resto è purissimo mondo lombardo, anzi brianzolo. Londonio, specializzato in scene campestri e in presepi, realizzò l’opera (anzi, le opere: perché qui si riconoscono almeno tre nuclei presepiali) negli anni 70 e 80 del Settecento per il conte Giacomo Mellerio e la sua villa del Gernetto a Lesmo. Non è un fatto isolato.

Nelle ricche dimore dalla Milano dei Lumi era prassi comune allestire presepi di carta nel tempo di Natale (anche Appiani, attestano le fonti, ne dipinse uno). Tra Londonio e Mellerio correva rapporto saldo di stima e amicizia e l’artista, anche con il contributo della bottega, dovette implementare le silhouette nel corso degli anni. Figure fragili, furono usate fino ai primi decenni del Novecento e quindi appese in alle pareti. Forma di devozione privata, con la donazione al Diocesano di Anna Maria Bagatti Valsecchi, diventano patrimonio della comunità: di cui il presepe, dopo tutto, è sempre stato uno specchio. Sempre se stesso perché sempre nuovo: ecco, questa è davvero tradizione.

Avvenire