XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) Foglietto, Letture e Salmo

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

Grado della Celebrazione: DOMENICA Colore liturgico: Verde

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L’evangelista Marco che ascoltiamo quest’anno ci presenta le azioni e le parole di Gesù durante il suo viaggio a Gerusalemme. Viaggio sicuramente topografico, ma anche e soprattutto simbolico. Questa strada che Gesù percorre con entusiasmo – “Gesù li precedeva” – e dove i discepoli lo seguono con diffidenza o inquietudine – “essi erano spaventati, e coloro che seguivano erano anche timorosi” (Mc 10,32) – qui arriva al termine. Ecco il contesto della lettura sulla quale meditiamo oggi.
Al termine del cammino, oggi incontriamo un cieco. Un cieco, che, in più, è un mendicante. In lui c’è oscurità, tenebre, e assenza. E attorno a lui c’è soltanto il rigetto: “Molti lo sgridavano per farlo tacere”. Gesù chiama il cieco, ascolta la sua preghiera, e la esaudisce. Anche oggi, qui, tra coloro che il Signore ha riunito, “ci sono il cieco e lo zoppo” (prima lettura) – quello che noi siamo -; ed è per questo che le azioni di Gesù, che ci vengono raccontate, devono renderci più pieni di speranza.
È nel momento in cui termina il viaggio di Gesù a Gerusalemme (e dove termina il ciclo liturgico), che un mendicante cieco celebra Gesù e lo riconosce come “Figlio di Davide”, o Messia; e questo mendicante riacquista la vista e “segue Gesù per la strada”. È un simbolo, un invito. Chiediamo al Signore che ci accordi la luce della fede e ci dia vigore, affinché lo seguiamo come il cieco di Gerico, fino a che non avremo raggiunto la Gerusalemme definitiva.

Commento al Vangelo Domenica 28 Ottobre 2018 XXX Domenica Tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Un mendicante cieco: l’ultimo della fila, un naufrago della vita, relitto abbandonato al buio nella polvere di una strada di Palestina. Poi improvvisamente tutto si mette in moto: passa Gesù ed è come un piccolo turbine, si riaccende il motore della vita, soffia un vento di futuro.
Bartimeo comincia a gridare: Gesù, abbi pietà. È, tra tutte, la preghiera più cristiana ed evangelica, la più umana. Rimasta nelle nostre liturgie, nel suono antico di «Kyrie eleison» o di «Signore, pietà», confinata purtroppo nell’ambito riduttivo dell’atto penitenziale. Non di perdono si tratta. Quando preghiamo così, come ciechi, donne o lebbrosi del Vangelo, dobbiamo liberare in volo tutto lo splendido immaginario che preme sotto questa formula, e che indica grembo di madre, vita generata e partorita di nuovo. La misericordia di Dio comprende tutto ciò che serve alla vita dell’uomo.
Bartimeo non domanda pietà per i suoi peccati, ma per i suoi occhi spenti. Invoca il Donatore di vita in abbondanza: mostrati padre, sentiti madre di questo figlio che ha fatto naufragio, ridammi alla luce!
La folla fa muro al suo grido: Taci! Disturbi! Terribile pensare che davanti a Dio la sofferenza sia fuori luogo, che il dolore possa disturbare. Ma è così ancora, abbiamo ritualizzato la religione e un grido fuori programma disturba. Ma la vita è un fuori programma continuo: la vita non è un rito. C’è nell’uomo un gemito, di cui abbiamo perso l’alfabeto; un grido, su cui non riusciamo a sintonizzarci.
Invece il rabbi ascolta e risponde. E si libera tutta l’energia della vita. Lo notiamo dai gesti, quasi eccessivi: Bartimeo non parla, grida; non si toglie il mantello, lo getta; non si alza da terra, ma balza in piedi.
La fede porta con sé un balzo in avanti, porte che si spalancano, sentieri nel sole, un di più illogico e bello. Credere è acquisire bellezza del vivere.
Bartimeo guarisce come uomo, prima che come cieco. Guarisce in quella voce che lo accarezza: qualcuno si è accorto di lui, qualcuno lo tocca, anche solo con una voce amica, e lui esce dal suo naufragio umano: l’ultimo comincia a riscoprirsi uno come gli altri.
È chiamato con amore e allora la sua vita si riaccende, si rialza in piedi, si precipita, anche senza vedere, verso una voce, orientato da una parola buona che ancora vibra nell’aria. Sentire che qualcuno ci ama rende fortissimi.
Anche noi ci orientiamo nella vita come il mendicante cieco di Gerico, forse senza vedere chiaro, ma sull’eco della Parola di Dio, ascoltata nel Vangelo, nella voce intima che indica la via, negli eventi della storia, nel gemito e nel giubilo del creato. E che continua a seminare occhi nuovi e luce nuova sulla terra.
(Letture: Geremia 31,7-9; Salmo 125; Ebrei 5,1-6; Marco 10,46-52)

di Ermes Ronchi – Avvenire

Intervista. Ágnes Heller, la bellezza della scelta etica giusta

La filosofa ungherese Ágnes Heller

La filosofa ungherese Ágnes Heller

da Avvenire

Mentre aspetta l’intervistatore nella hall di un albergo di Milano, Ágnes Heller sbriga un po’ di posta elettronica. A conversazione finita, tornerà al computer per inviare qualche altra email. Questo è probabilmente il comportamento di una decent person: fare il proprio dovere e farlo liberamente, nel momento propizio. La nozione di decent person è uno degli elementi centrali della riflessione su etica e morale che la filosofa ungherese (nata a Budapest nel 1929, da tempo si divide tra gli Stati Uniti e il suo Paese d’origine) ha avviato fin dagli anni Ottanta. Della trilogia complessivamente intitolata Una teoria della morale erano finora noti in Italia i primi volumi, Etica generale e Filosofia morale, pubblicati dal Mulino rispettivamente nel 1994 e nel 1997. Adesso esce da Mimesis la terza e ultima parte, Un’etica della personalità (pagine 438, euro 30,00: l’edizione originale risale al 1996) dove i curatori Laura Boella, Andrea Vestrucci e Chiara Zancan concordano nel tradurre decent person come “persona perbene”. «Ne sono sempre esistite e sempre esisteranno, anche nei momenti più bui della storia», commenta Ágnes Heller. Sopravvissuta alla Shoah e allieva di György Lukács, è una delle pensatrici più importanti dei nostri tempi, capace di affrontare questioni estremamente complesse con gli strumenti di un’affilata semplicità. Attraverso il racconto, per esempio. «Delle tre sezioni di cui si compone Un’etica della personalità – spiega – solo la prima adotta il linguaggio dell’argomentazione filosofica. Nelle altre due mi sono servita del dialogo teatrale e del romanzo epistolare».

Perché?

«Nei volumi precedenti avevo fornito una mia interpretazioni dei principali concetti etici e avevo indagato la dimensione morale del pensiero contemporaneo. In sostanza, non avevo ancora affrontato la filosofia morale propriamente intesa. Quando ho provato a farlo, mi sono resa conto di come le diverse posizioni non potessero essere esposte in astratto. Al contrario, era necessario mettere in evidenza il conflitto che emerge tra le affermazioni di autori differenti. Una dimensione drammatica che, alla fine, sfocia in una storia d’amore».

Addirittura?

«Sì, perché l’amore è la manifestazione più evidente della tensione che intendo indagare. Qualcosa di simile, del resto, accade anche nella prima sezione del libro, nella quale si analizza l’ossessione che Friedrich Nietzsche sviluppò nei confronti di Richard Wagner muovendo dalla pressoché incondizionata ammirazione iniziale. Il punto più alto della crisi fu segnato dal Parsifal, l’opera nella quale Nietzsche più avrebbe potuto riconoscersi e che invece rifiutò con determinazione».

Nietzsche è uno dei protagonisti del libro.

«Insieme con Immanuel Kant e Søren Kierkegaard, esattamente. Al centro di Un’etica della personalità c’è il dissidio tra due studenti di filosofia: il primo, Joachim, aderisce alla visione kantiana della morale, fondata su princìpi universali, mentre Lawrence, sulla scorta di Nietzsche, rinvia ogni scelta alla libertà dell’individuo. Il loro dibattito è destinato a cambiare di intensità con l’arrivo di un terzo personaggio, Vera, una ragazza dalla quale entrambi sono attratti e che impersona la concezione esistenziale della morale secondo Kierkegaard».

Posso chiederle da che parte sta lei?

«Chieda pure, ma rispondere è impossibile. Quello che ho cercato di dimostrare è che, quale che siano le convinzioni di partenza, le scelte morali avvengono sempre in condizioni particolari, che possono perfino contraddire le premesse teoretiche. All’atto pratico il kantiano Joachim assume un atteggiamento coerente rispetto agli assunti di Nietzsche e altrettanto avviene, con una perfetta inversione dei termini, nel caso di Lawrence. Quanto a Vera, fin dal nome sembra rivendicare il proprio legame con la verità, ma non dimentichiamo che nel pensiero di Kierkegaard l’ironia gioca un ruolo determinante ».

Significa che una scelta equivale all’altra?

«No, il punto non è questo. La questione è non possiamo apprezzare il valore di una scelta fino a quando questa non entra a contatto con la realtà, fino a quando non si fa concreta e, di conseguenza drammatica. Le teorie, di conseguenza, hanno la stessa funzione di un bastone o di una stampella a cui appoggiarsi mentre si procede su un terreno accidentato».

Da qui l’importanza della storia d’amore?

«La sezione conclusiva del libro è, come accennavo, un piccolo romanzo epistolare. C’è Fifi, una ragazza di quindici anni, che scrive alla nonna Sophie, per raccontarle che cosa le sta accadendo: si è sta innamorata di un giovane filosofo, che è poi il Lawrence che già conosciamo, ma non riesce ad accettare le sue idee. Come deve comportarsi?».

Il consiglio della nonna qual è?

«Lo stesso che avrebbe dato mia nonna, Sophie Meller, della quale il personaggio è il ritratto. Anch’io, da ragazza, ero soprannominata Fifi, ma i miei quindici anni sono stati diversi dai suoi. Vede, mia nonna era una donna molto intelligente, molto portata alla comprensione. Attorno a lei ruotava una famiglia numerosa, all’interno della quale era inevitabile che sorgessero conflitti. Casa sua, però, era sempre aperta a tutti e tutti erano invitati, quali che fossero le convinzioni o le condizioni di vita. Da lei ho imparato che non c’è nulla su cui non si possa dialogare, eccezion fatta per le azioni evidentemente immorali. Il male non può mai essere tollerato, tanto meno giustificato».

È una lezione che vale anche per l’Europa di oggi?

«Più che la morale, qui è la storia a dover essere chiamata in causa. La crisi che stiamo affrontando non può non ricordare i drammi del Novecento, che discendono a loro volta da quello che, a mio avviso, rimane il peccato originale dell’Europa moderna ».

Quale?

«La prima guerra mondiale, nella quale esplodono in tutta la loro violenza i nazionalismi che avevano cominciato a covare verso la fine del XIX secolo. I totalitarismi, i genocidi, i milioni e milioni di morti causati da guerre e persecuzioni sono il risultato di politiche nazionaliste terribilmente simili a quelle che si stanno ripresentando adesso in molti Paesi. La stessa Ungheria, purtroppo, è all’avanguardia in questo processo».

Lei che cosa prevede?

«Sono sempre molto restia a parlare del futuro. Di sicuro, guardando alla situazione attuale, posso dire che l’Unione Europea rappresenta l’ultima occasione per tenere in vita l’eredità più preziosa del continente. L’Europa deve scegliere:o si trasforma in un museo, nostalgicamente dedicato alla contemplazione di un passato culturale e artistico ormai tramontato da tempo, oppure assume su di sé la responsabilità di promuovere e difendere la democrazia liberale, che è la sola forma di governo in grado di armonizzare tra loro giustizia, etica e bellezza».

Perché la bellezza?

«Perché una decisione eticamente giusta è sempre bella, nel senso più autentico del termine: riguarda la sostanza della realtà, non il suo aspetto esteriore, che può anche essere ingannevole».

Sinodo sui giovani, nel documento finale anche il tema della lotta agli abusi

Il briefing sul Sinodo sui giovani (Siciliani)

Il briefing sul Sinodo sui giovani (Siciliani)

Il tema degli abusi sessuali entra anche nel documento finale, dove “se ne parla in maniera esaustiva”. Lo ha confermato il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei, che è intervenuto al consueto briefing sull’andamento dei lavori sinodali. “Non basta condannare gli abusi, bisogna fare di tutto per prevenire e la Chiesa sta attuando tutti i mezzi per farlo”, ha sottolineato Bassetti annunciando che “durante l’Assemblea di novembre i Vescovi italiani si confronteranno su questo tema e discuteranno un documento che è in via di preparazione da parte di una della Commissioni”. Inoltre, ha aggiunto, “a febbraio tutti i Presidenti delle Conferenze episcopali saranno convocati dal Papa per dare conto di quanto si sta facendo”.

“Nei limiti del rispetto delle istituzioni”, occorre “chiarezza e una collaborazione piena con le autorità civili e giudiziarie”, ha ribadito il cardinale Bassetti che ha poi puntato l’attenzione sulla necessità di un “lavoro di prevenzione”. “Anche nella nuova Ratio dei seminari è precisato: bisogna valutare con tutti gli strumenti i candidati al sacerdozio e fare di tutto per prevenire, che è la cosa più importante”, ha affermato il presidente della Cei ripetendo che “con la massima discrezione, cercheremo di collaborare per tutto ciò che sarà possibile, purché non vada contro i doveri della coscienza”.

Quello degli abusi è “un flagello terribile di cui dobbiamo liberarci”, gli ha fatto eco il cardinale Arlindo Gomes Furtado, vescovo di Santiago de Cabo Verde, per il quale occorre “affrontare questa sfida, che è di tutta la società e non solo della Chiesa, con realismo, spirito aperto, in sintonia con scienziati ed esperti”.

“Sanare, migliorare e andare avanti: tutte le conferenze episcopali sono impegnate su questo tema, su come curare”, ha osservato da parte sua monsignor Hector Miguel Cabrejos Vidarte, arcivescovo di Trujillo epresidente della Conferenza episcopale del Perù, che ha definito gli scandali “un gravissimo dolore, qualcosa di terribile” pur ricordando, con un detto peruviano, che “non tutti i religiosi sono pedofili e non tutti i pedofili sono religiosi”.

“La Chiesa degli abusi non è la Chiesa di Cristo né quella in cui noi giovani crediamo”, ha tagliato corto Lucas Barboza Galhardo, rappresentante del Movimento di Schoenstatt. “La Chiesa che noi sentiamo e vogliamo condividere – ha concluso – è quella dell’allegria, dell’amore, del camminare insieme, della vicinanza”.

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