Sul ministero

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La Chiesa è una realtà complessa, difficile, se non impossibile, percepirla attraverso un unico sguardo. Per comprenderla come corpo vivente può essere utile accostarsi a essa in obliquo, cogliendone un aspetto intorno al quale si coagulano alcuni dei suoi tratti portanti. Volenti o nolenti, nel cristianesimo occidentale il ministero rappresenta una sorta di crocevia nel quale si intersecano molte delle questioni che decidono del traghettamento della fede in una stagione inedita non solo per l’attuazione della Chiesa, ma anche per la sua stessa auto-comprensione.

Questo non vuol dire ritenere irrilevanti altri modi del vivere cristiano, dai quali proviene comunque anche quello del prete. Un vissuto che egli non si lascia alle proprie spalle, ma è chiamato a integrare ogni giorno nell’esercizio stesso del suo ministero. Né tantomeno vuol dire rendere dipendenti dal ministero ordinato tutte le altre forme di vita cristiana.

Crocevia dei vissuti cristiani

Cogliere il ministero come crocevia significa, semplicemente, che esso rappresenta il luogo in cui le molte forme di vissuto della fede transitano, si incontrano e, talvolta, si scontrano. Nella configurazione cattolica della fede, il darsi di un vissuto credente implica il ministero ordinato – fosse anche solo nel modo della sua assenza. Quando questo accade, e in molti paesi europei è la condizione quotidiana del vissuto cristiano, non ci si può non chiedere quale sia quella figura di cristiana che ha alla fin fine funzionato come cura ministeriale sulla fede altrui.

Non è questa però la prospettiva sulla quale voglio soffermarmi ora, teniamola semplicemente all’orizzonte di queste riflessioni come una domanda aperta che le attraversa. Una questione che, forse, può aiutarci a disegnare in maniera costruttiva i tratti del ministero nel suo esercizio, nel suo essere una pratica singolare della fede fra molte altre.

Singolare perché, fin dall’inizio e strutturalmente, non è mai pensata per riferimento a se stessa; anche se è possibile solo grazie alle abilità particolari del credente che la esercita a favore di altri. Il ministero rende evidente il fatto che la fede che circola nella Chiesa non si esaurisce in essa, ma ha senso solo in quanto si destina a un oltre, a un altrui, che non è determinabile – e non coincide mai con quella circolazione della fede che fa il corpo comunitario della Chiesa.

Parlare del ministero come crocevia, vuol dire accostarsi a esso a partire dalla sua collocazione. Cercare di comprendere cosa è, e come dovrebbe essere, muovendo da un luogo, e pensarlo poi per riferimento a quei innumerevoli luoghi altri che sfuggono a questa collocazione del suo esercizio.

Il ministero e il transito

Si potrebbe dire che il ministero sta tra la forma della comunità cristiana e la ministerialità della Chiesa. Con ministerialità si intende qui l’inaggirabile destinazione della Chiesa – oltre e al di fuori di se stessa. La ministerialità è quindi ciò che impedisce alla Chiesa di esaurirsi in sé, da un lato, e di pensarsi unicamente a partire da sé, dall’altro. Una Chiesa che si limita alla coltivazione dei «suoi», e che immagina questo come l’ideale a cui ricondurre tutti gli altri, è una Chiesa senza destinazione; a cui non rimane altro che la consunzione in un processo di autocombustione, perché essa riceve sempre la forza della sua ragion d’essere da un altrove su cui non può disporre né decidere.

Sull’altro lato, mettere in forma la comunità cristiana ha sicuramente un risvolto estetico che sfugge a qualsiasi procedura gestionale dell’organizzazione della stessa comunità. Dobbiamo ancora imparare a distinguere fra il dare forma e il fare cose, per quanto queste ultime possano essere importanti. E lo sono nella misura in cui intendono contribuire alla forma concreta della comunità cristiana (e non a riempire le chiese o le opere parrocchiali).

La forma della comunità

Ossia, quando le «cose» del cristianesimo sono disponibili a riconoscere che la bontà della loro generazione, e anche del loro stesso essere fatte, risiede in una sana inoperosità che non ha alcun risvolto funzionale. Questo è esattamente quello che la celebrazione liturgica tiene fermo nel cuore della comunità cristiana, come luogo-tempo inoperoso, funzionalmente inutile, della sua messa in forma.

giardino del tempo

Il ministero, dunque, sta tra destinazione e inoperosità; abita un luogo paradossale ed è chiamato a coltivarlo per tutti. Tra forma della comunità e ministerialità della Chiesa, il ministero si ritrova quindi fra due figure più ampie di sé, che non può né risolvere né inglobare nel suo esercizio. L’inoperosità della liturgia, che non produce nulla e non mira ad alcun effetto causale al di fuori di sé, mette in forma la comunità cristiana generando lo stile della sua destinazione.

La celebrazione liturgica, dunque, è tutto tranne che il palcoscenico del ministero: è, piuttosto, quell’inattualità in cui anch’esso prende forma, perché così è di tutta la comunità cristiana.

La forma della comunità, messa in atto dalla liturgia, è sempre determinata: spazio e tempo concorrono costitutivamente, e non accidentalmente, a essa. Creando così un fecondo effetto di trascinamento delle condizioni della destinazione della Chiesa all’interno del prendere forma della comunità. Rispetto a quelle condizioni, essa non è mai immune, né completamente estranea. Se così fosse, come spesso accade, la forma della comunità sarebbe semplicemente una realtà virtuale parallela che ha perso ogni porosità con le condizioni della sua destinazione.

Si potrebbe dire che il ministero si riceve, sempre di nuovo, all’interno della polarità dialettica e mutevole che scorre tra la forma della comunità cristiana e la ministerialità della Chiesa come destinazione. Il ministero, dunque, è segnato, quasi sacramentalmente, dalla determinazione storica di entrambi i poli della dialettica.

Questi, poi, non sono né auto-referenziali né si pongono da sé, ma rimandano a un tratto esogeno, a un’esteriorità, mai prevedibile a priori. Ossia non possono essere (pre)determinati né dalla forma della comunità né dalla ministerialità della Chiesa. In quest’ottica, il ministero potrebbe essere visto come una sorta di non-luogo: un transito incessante tra il prendere forma della comunità, la ministerialità della Chiesa e le condizioni di questa loro reciproca destinazione.

Per questo il ministero è, inevitabilmente, figura sempre aperta verso i vissuti umani concreti e le forme della configurazione culturale della comunità socio-politica del consorzio umano.

La comunità e l’apprendimento

Il ministero è «ordinato» a una concreta comunità cristiana che, nel contesto occidentale, lo precede e quindi contribuisce a plasmarne il modo di esercizio. Questo legame fra ministero e comunità è ragione intrinseca all’esistenza di un ordo particolare nella Chiesa. In altre parole, il ministero non esiste per sé stesso, e il suo esercizio non si risolve nella biografia del prete – anche se questa non deve venire trascurata rispetto alle abilità della fede che la caratterizzano.

Se la generazione alla fede rimane dono indisponibile della grazia, la sua declinazione nella comunità cristiana si incrocia sempre con l’esercizio del ministero. Quest’ultimo non ha però il compito di tenerla sotto tutela, ma quello di permetterne il pieno dispiegamento in vista di una destinazione che eccede i confini della stessa comunità cristiana. In questa intersezione, il ministero è generato al suo esercizio proprio nel quotidiano di una particolare comunità cristiana, da un lato, e dalle condizioni della destinazione della fede di tutti coloro che ne fanno parte a un altrove e un altrui che non coincidono con essa.

Il ministero, come fede in esercizio, non può attuarsi, né immaginarsi, a prescindere dalla forma della comunità cristiana e dalla tradizione che essa porta con sé in vista della sua destinazione, all’interno di condizioni storicamente determinate e culturalmente mutevoli. Non si può quindi scomporre comunità cristiana, da un lato, e ministero, dall’altro – pena mancare la giusta collocazione dell’ordo presbiterale all’interno della più ampia destinazione della fede.

Questa scomposizione finirebbe col separare il ministero dalla sua stessa genesi, producendo da ultimo una traditio dell’ordine presbiterale che si risolverebbe in una sorta di auto-conservazione della razza. È però solo nella pratica del ministero che si può verificare la sua giusta corrispondenza alla dinamica che lo genera nella e dalla comunità cristiana. Quando questa manca manca, o rimane sostanzialmente irrilevante, si deve allora mettere in questione l’idea e l’immagine di ministero veicolate dalla Chiesa; e, quindi, sottoporre a dovuta verifica anche la teologia del ministero a esse sottostante.

Se non altro per chiedersi quali siano le ragioni per cui a un’eventuale buona teologia del ministero ordinato non corrisponde un suo esercizio capace di riconoscerne il continuo generarsi nel legame effettivo con la comunità cristiana. Legame, questo, che non è certo meramente causale; e che, però, non può nemmeno essere ridotto a semplice questione di amministrazione ecclesiastica della fede.

concilio di trento

L’ombra lunga del Tridentino

È chiaro che i processi di nascita, configurazione ed edificazione della comunità cristiana sono profondamente cambiati rispetto al paradigma tridentino, sullo sfondo del quale si continua però a pensare sia la forma della comunità cristiana sia il ministero nella sua «ordinazione» a essa.

Questo scarto perdurante è, a mio avviso, uno dei nodi irrisolti che mettono in difficoltà il ministero e la sua pratica quotidiana: una sorta di trascinamento di un passato (immaginato e idealizzato) che appesantisce la possibilità di un nuovo e diverso immaginario della comunità cristiana e del ministero che la «ordina». Il tratto più evidente di questa permanenza del peso del passato lo si può cogliere nella sostanziale invarianza del seminario (separato dalla quotidianità della fede della comunità) come luogo/tempo di preparazione (sostanzialmente definitiva) all’esercizio al ministero.

Questo ha una ricaduta anche sul funzionamento del momento dell’ordinazione presbiterale rispetto al vissuto del prete e al prendere forma della comunità. Si può infatti osservare una sconnessione di fondo fra l’ordinamento sacramentale, come ingresso nell’ordo presbiterale, e la performatività liturgica dell’esercizio del ministero nella comunità come sua messa in forma.

Nel senso che il primo, quantomeno di fatto, può tranquillamente prescindere dalla seconda. Questo è l’esito inevitabile inscritto nell’impianto della sacramentaria che caratterizza la teologia neoscolastica, che nella pratica quotidiana continua a funzionare ben oltre il suo superamento conciliare. A essa si collega anche una tendenziale sacralizzazione del prete, che diventa un corpo separato dal resto della comunità.

Da questo punto di vista, ossia nell’ottica di favorire una rimessa in circolo del nesso su cui si impernia il ministero come sacramento e celebrazione, l’esito compiuto della teologia sacramentaria medioevale sembra essere capace di offrire suggestioni molto più attuali di quanto non abbia saputo fare il commento della scuola.

Per comprendere le potenzialità inscritte nella sistematizzazione medioevale del sacro nella forma sacramentale-liturgica dell’attuazione della Chiesa, basti pensare che fu proprio essa a favorire, e da ultimo a rendere possibile, l’emergenza di un ordine del mondo dinamico e storico, non più predeterminato da un fissismo cosmico a cui corrispondeva l’immobilità sia del corpo sociale sia del destino del singolo individuo.

La fine di un paradigma

Su questo sfondo si può comprendere meglio anche la genialità storica del modello tridentino per quanto concerne la forma della comunità cristiana e la pratica del ministero ordinato. Con esso si rispondeva, infatti, a quell’esigenza inedita rappresentata dalla modernità nascente. Da un lato, lo svilupparsi del vincolo fra potere politico e un determinato spazio territoriale (il germe di quello che diverrà poi lo stato-nazione), dall’altro la pretesa avanzata da questo potere di esercitarsi anche sulla coscienza del singolo individuo (e non solo su un indistinto corpo sociale).

La parrocchia e la cura d’anime residenziale sono il modo in cui la Chiesa cattolica fece fronte a questa nuova costellazione dell’Occidente europeo. In particolare, il ministero del prete venne concepito come disciplinamento delle anime e delle coscienze individuali in uno spazio-tempo ben delineato, coerente con la nuova organizzazione del corpo sociale e dell’esercizio del potere politico. Fu proprio tale coerenza a permettere una vantaggiosa assimilazione ecclesiale di fattori socio-culturali che, da ultimo, non coincidevano con l’attuazione interna della Chiesa.

Quella stagione si è definitivamente esaurita, per l’Europa come per la Chiesa cattolica occidentale. Da qui la necessità di immaginare un modello altro, capace di raccogliere la migliore eredità di quello tridentino nel momento stesso in cui prende congedo definitivo da esso.

Ancora una volta, non si può ripensare il ministero ordinato nella sua pratica quotidiana senza mettere mano alla forma della comunità cristiana – e viceversa. La restituzione della celebrazione liturgica alla forza inoperosa che mette in forma entrambi è, a mio avviso, una chiave di volta intorno a cui articolare adeguatamente la destinazione della Chiesa, ossia la sua ministerialità complessiva – di cui vorrei ora delineare alcuni tratti.

La familiarità con Gesù

Nella comunità cristiana l’introduzione alla familiarità quotidiana con Gesù, all’interno di legami fraterni che la coltivano come pratica condivisa di vita, si dà sempre in vista della sua destinazione verso un altrove e a favore di chiunque. Il ministero è «ordinato» alla cura di questa familiarità, non solo per quelli che fanno parte della comunità cristiana ma per tutti, ovunque essi si trovino nei territori dell’umano vivere.

Nel suo esercizio, quindi, il ministero non si può limitare esclusivamente ed esaurirsi nell’attenzione dedicata ai «suoi»; esattamente perché quest’ultima ha senso solo in vista di una destinazione che eccede continuamente la comunità che essi compongono. Quest’ultima potrebbe essere dunque pensata e praticata come possibilità di allargamento, virtualmente senza limiti, di quella familiarità con Gesù che non si identifica mai esclusivamente con il gruppo «sociologico» dei suoi.

Il modo in cui la comunità cristiana pratica e condivide l’allargamento della familiarità con Gesù, così da rendere possibile a molti il suo accesso e la sua frequentazione, è ciò che potremmo chiamare la ministerialità complessiva della Chiesa. È questo che la destina a un altro indispensabile e, al tempo stesso, ad altro da sé.

All’interno di questa destinazione della Chiesa trova il suo senso anche il ministero ordinato: in particolare, come rammemorazione in esercizio, a favore dell’intera comunità cristiana, della ministerialità complessiva della Chiesa; senza con questo risolverla mai nella propria «ordinazione».

In questo gioco aperto della destinazione della Chiesa, il ministero funziona nella misura in cui intercetta e s’interseca con la multiforme ministerialità che scorre nella comunità fraterna che coltiva una quotidiana familiarità con Gesù. Questo consente al ministero, da un lato, di non dover essere onnipresente (estenuandosi), e con ciò anche di dismettere ogni senso di onnipotenza e, dall’altro, di accettare con serenità i propri limiti di competenza, cosa che alleggerisce poi dalla sensazione di dover arrivare dappertutto (stremando le abilità specifiche della fede del prete).

La virtuosità di questi intrecci possibili nella ministerialità della Chiesa può produrre anche una sana tranquillità; quella che deriva dal fatto di sapere che, comunque, un fratello o una sorella nella fede coltiva assiduamente e presidia un ambito della destinazione della Chiesa che il ministero non può o non riesce a raggiungere. La forza del ministero risiede proprio nella liberalità con cui riesce a riconoscere tutto ciò, autorizzandolo come qualcosa che non è irrilevante rispetto al buon esercizio della propria «ordinazione».

familiarità con gesù

D. Bonnel: Road to Emmaus

L’autorità del ministero sta e cade dunque con questa sua abilità di autorizzare una ministerialità della fede altra dalla sua, a lui impossibile o impraticabile di fatto (magari anche solo per ragioni contingenti). Il limite e il limitarsi possono diventare così principio di un’autorità riconoscibile e riconosciuta nel tessuto delle relazioni fraterne dell’assidua familiarità con Gesù.

Resistenze

Il vantaggio che in tal modo potrebbe risultare per un sano esercizio del ministero è di un’evidenza quasi immediata, eppure la virtuosa articolazione della ministerialità complessiva della Chiesa fatica a realizzarsi come pratica quotidiana del ministero e della comunità cristiana.

Le ragioni sono molteplici, mi interessa qui solo indicare alcune di quelle legate al dinamismo della storia dell’Occidente europeo. Nella dialettica della modernità, e come via per separarsi da essa marcando un territorio di sovranità esclusiva, durante il XIX secolo il cattolicesimo (ma anche le comunità della Riforma) si «socializza»; ossia diventa un corpo sociologicamente organico, a sé stante e separato.

Questa idealità organizzativa del corpo ecclesiale continua a riprodursi anche quando, a partire dal primo decennio del XX secolo, a essa non corrisponde più l’effettività sociale della convivenza umana. Questo ha finito col creare, per il medesimo credente, una sorta di schizofrenia fra attuazione della fede e partecipazione alla vita civile. Inoltre, la sociologizzazione del cattolicesimo ha prodotto, di fatto, anche un assorbimento pressoché completo della ministerialità complessiva della Chiesa all’interno del solo ministero ordinato.

Questo perché nella comunità cristiana come corpo organico a sé stante e separato non si dà alcuna destinazione oltre se stessa. Il cristianesimo diventa sostanzialmente questione di trasmissione «genetica» del codice della fede, in ragione della nascita biologica all’interno di un gruppo sociologicamente ben delimitato.

L’esito di questa dinamica, di cui paghiamo ancora oggi il prezzo, è il venire meno di un punto di intersezione reale tra la comunità cristiana, intesa come genetica sociologica del credere, e la socialità umana diffusa, ossia il modo effettivo del vivere degli uomini e delle donne.

L’orizzonte della destinazione

Oggi, mentre da un lato si tiene in vita artificiosamente l’identificazione sociologica della comunità credente, che cerca di generare in vitro cristiani a venire intercettando fin dalla culla i cuccioli d’uomo per tenerli poi legati a sé attraverso una catechesi a vita (senza peraltro riuscirci), dall’altro la destinazione effettiva della ministerialità della Chiesa esplode – spargendosi su uno spettro prismatico della socialità umana di ampiezza inusitata, davanti alla quale siamo del tutto impreparati.

Pensare di ricorrere solo al ministero ordinato per far fronte a questo allargamento epocale della destinazione della Chiesa nella sua ministerialità, vuol dire decretarne di fatto la fine per sovra-determinazione delle possibilità del suo esercizio.

Quando a cavallo fra il XIX e XX secolo, nella Francia repubblicana e laica, p. Dehon immagina la destinazione della sua nascente Congregazione religiosa come attestazione del Sacro Cuore nella società umana, ingiungendo ai suoi che è oramai giunto il tempo di «uscire dalle sacristie», non intende affatto riproporre il modello (medioevale) di una cristianità coesa e diffusa, né tantomeno la sua riedizione tardo-moderna di un cattolicesimo sociologico organico in sé stesso e separato dalla socialità umana comune a tutti; ma rappresenta piuttosto l’intuizione geniale dell’esaurimento di ogni sua plausibilità, come dell’insufficienza del modello a «orto concluso» a cui essa è approdata nel corso dell’Ottocento.

arte inuit

A distanza di un secolo, l’imperativo dell’«uscita», ossia il recupero deciso della destinazione come principio fondamentale della Chiesa, è esigenza affermata con persuasione dallo stesso ministero petrino, indice della piena consapevolezza che un lungo paradigma storico si è oramai concluso per sempre e che la Chiesa ne deve trarre le debite conseguenze.

La rimessa in gioco della destinazione, fortemente accentuata da papa Francesco, unita a una comprensione del ministero come prossimità effettiva alla quotidianità dei molti modi di vivere la familiarità con Gesù nella comunità cristiana, da un lato, e all’affermazione della pietà popolare come sovranità del popolo di Dio rispetto al clericalismo quale forma mentis dell’apparato ecclesiastico (preti o laici che si sia), dall’altro, autorizza a un immaginario del ministero ordinato capace di raccogliere il meglio dalla stagione che ci siamo lasciati alle spalle, lasciando contemporaneamente cadere scorie e sovrastrutture che rischiano di soffocarlo e renderlo inadatto al tempo attuale della destinazione della Chiesa. A meno di questo, si finirà col trascinare con sé, volenti o nolenti, anche le forze migliori che circolano ancora nelle nostre comunità cristiane.

Sinodo: “frequentare il futuro”

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L’attesa assemblea sinodale indetta da papa Francesco sullo scottante tema della relazione tra i giovani e la fede è iniziata da qualche giorno. Vincendo la tentazione di restare imprigionati nella smania sloganistica di certi linguaggi ecclesiali, e andando oltre la semplice analisi sociologica dei problemi, pur importante, occorre sviluppare l’attitudine dell’ascolto, così fondamentale nella dinamica del credere quanto trascurata sia dal cuore dei singoli, immersi nel vortice dei rumori del nostro mondo, che dalle strutture e istituzioni, talvolta incatenate nella fissità e nella ripetitività che le fanno diventare mortifere.

Bisogna anzitutto ascoltare lo Spirito Santo, che rimane l’unico artefice di una verità sempre al di là da venire, di cui nessun singolo cristiano e nessuna Chiesa potrà mai sentirsi padrone e che, nell’umiltà di un faticoso cammino, va sempre di nuovo cercata, attraversando il chiaroscuro del dubbio, dell’incredulità e del mistero. Solo lo Spirito – così papa Francesco ha iniziato l’omelia della Messa di apertura del Sinodo – custodisce e mantiene sempre viva e attuale la memoria del Maestro nel cuore dei discepoli: memoria che deve risvegliare in noi la capacità di sognare e sperare.

Non c’è bisogno di sottolineare quanto la tematica scelta rappresenti una grande sfida per la fede, ma anche per la società e per la Chiesa del futuro. In un mondo in cui tutti rincorrono il mito del «rimanere giovani per sempre», i giovani non hanno spazio, non hanno respiro e non sono più generati né alla vita e né alla fede.

La discussione è solo all’inizio, ma papa Francesco ha già consegnato all’Assemblea Sinodale e alla Chiesa riunita in comunione di preghiera da ogni parte del mondo, parole di profezia capaci di creare quel clima di disposizione interiore e spirituale, utile al dibattito e ai futuri propositi pastorali.

Tre parole che sfidano la Chiesa di domani

Sognare. Non bisogna aver paura dei sogni, secondo il pontefice. Lo ripete spesso ai giovani, ricordando loro che il rischio di mettersi in cammino, anche se ci fa incorrere nell’errore, è meglio della comodità del divano, che ci rende «pensionati del quieto vivere» e fa diventare la nostra vita un’acqua stagnante. I sogni – ha detto ai giovani nell’agosto scorso – tengono lo sguardo largo, proiettano in un orizzonte aperto, rendono sveglio il cuore e aiutano a coltivare la speranza. Anche la Chiesa, perciò, deve sognare se vuole davvero recuperare il dialogo con i giovani; prima delle strategie pastorali e dei nuovi linguaggi, infatti, il cuore e la creatività del giovane ha bisogno di vedere una Chiesa che non ha paura di sporcarsi le mani, che pensa in grande la vita, che esce da se stessa senza timore, e che cerca strade nuove per l’annuncio del Vangelo.

Sperare. I sogni aprono alla speranza cristiana, che è radicata nella promessa della fedeltà di Dio e in quella di Gesù che non ci lascia orfani, ma accompagna il cammino della nostra vita e della sua Chiesa. Alla Chiesa, papa Francesco chiede di essere «unta nella speranza», così da guardare avanti, trasformando quelle strutture e quegli stili che spesso separano e allontanano dai giovani. Questa speranza ci fa uscire dal torpore e ci stana dalla comodità dell’abitudine, per spingerci a un’azione trasformante, sia nell’ambito ecclesiale che nella società: «La speranza ci interpella – dice Francesco – ci smuove e rompe il conformismo del “si è sempre fatto così”, e ci chiede di alzarci per guardare direttamente il volto dei giovani e le situazioni in cui si trovano. La stessa speranza ci chiede di lavorare per rovesciare le situazioni di precarietà, di esclusione e di violenza, alle quali sono esposti i nostri ragazzi».

Ascoltare. Il verbo più importante della relazione tra Dio e l’uomo, narrato dalla Scrittura, non può che costituire l’atteggiamento principale della Chiesa. Dio ascolta il grido del Suo popolo e scende per liberarlo, fino a farsi volto che incrocia le lacrime dell’umanità e carne che si commuove e si lascia toccare dalle ferite del mondo, in Gesù Cristo. Aprire il cuore allo Spirito Santo e lasciarci sospingere dal sogno e dalla speranza è la disposizione migliore che aiuta a sviluppare un ascolto senza pregiudizi. Un ascolto sincero, orante e libero permette di entrare in connessione con i giovani: «Ascoltare Dio, per ascoltare con Lui il grido della gente; ascoltare la gente, per respirare con essa la volontà a cui Dio ci chiama». Al coraggio di parlare deve corrispondere – secondo il papa – l’umiltà di ascoltare, che innesca un esercizio di dialogo autentico, profetico e fecondo. Se nella Chiesa impariamo ad ascoltarci nello Spirito – vescovi e preti, preti e laici – saremo capaci anche di diventare una comunità che ascolta i sussulti e i travagli della storia, cioè una «Chiesa che si mette davvero in ascolto, che si lascia interpellare dalle istanze di coloro che incontra, che non ha sempre una risposta preconfezionata già pronta. Una Chiesa che non ascolta si mostra chiusa alla novità, chiusa alle sorprese di Dio, e non potrà risultare credibile, in particolare per i giovani, che inevitabilmente si allontaneranno anziché avvicinarsi».

Per una Chiesa giovane

Una Chiesa in cammino, capace di sognare vie nuove a servizio del Vangelo, di muoversi sorretta da una speranza che la spinge a cambiare e a essere lievito di cambiamento nel mondo, di ascoltare senza pregiudizi e stereotipi soprattutto i giovani, è una Chiesa che non ha paura di cambiare.

Il Sinodo invita la Chiesa a uscire dal conformismo del «si è sempre fatto così», valutando l’opportunità di rilanciare una nuova pastorale giovanile integrata a quella vocazionale e familiare; di investire sulla formazione dei preti e degli operatori laici, con specifico riferimento all’accompagnamento dei giovani; di preparare credenti adulti, capaci di intrecciare con sapienza e gioia il Vangelo e la vita e, così, di attrarre le giovani generazioni verso una fede che non mostrerà più i segni di una realtà antiquata; di incoraggiare le singole comunità a lavorare nella direzione di una più fervente comunione, perché la progettazione e l’azione pastorale, soprattutto a favore dei giovani, diventino sempre più una realtà d’insieme, magari sostenuta da una nuova configurazione della parrocchia, più flessibile e più capace di intercettare la mobilità del nostro mondo.

Le sfide sono molte, ma non manca il desiderio di scoprire gli inattesi sentieri che Dio vuole indicare alla Chiesa. Facciamo nostre, perciò, le parole davvero illuminate di papa Francesco: «Impegniamoci dunque nel cercare di “frequentare il futuro”, e di far uscire da questo Sinodo non solo un documento – che generalmente viene letto da pochi e criticato da molti –, ma soprattutto propositi pastorali concreti, in grado di realizzare il compito del Sinodo stesso, ossia quello di far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo».