NUMERO SPECIALE DEL “BOLLETTINO STORICO REGGIANO” DEDICATO AI LEONI DI PIAZZA SAN PROSPERO

Comunicato stampa

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Alle statue marmoree dei leoni di piazza San Prospero è interamente dedicato il fascicolo 167 – numero speciale – del “Bollettino Storico Reggiano”, edito dalla Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi – Sezione di Reggio Emilia.

La puntuale ricerca è stato condotta dalla prof. Flavia Farri Fulgoni attraverso un’ampia e minuziosa consultazione di documentazione, spesso inedita, archivistica e bibliografica.

La studiosa focalizza  nelle oltre 150 pagine del testo le vicende della famiglia Pratonieri che ha rivestito una fondamentale importanza nella storia e nella committenza artistica reggiana; a questa famiglia si devono le quattro statue raffiguranti i leoni. Di ognuna viene fornita un’attenta descrizione e una puntuale lettura.

Il fascicolo è arricchito da numerose illustrazioni, che presentano  le peculiarità delle singole statue marmoree e le iscrizioni latine poste sui piedistalli.

Il “Bollettino Storico Reggiano” 167 , stampato dalla Nuova Futurgraf, è altresì corredato dalle tavole genealogiche dei Pratonieri , redatte a cura di Angelo Spaggiari e Francesco Barbieri.

Un ricco apparato di puntuali note con riferimenti ai tanti documenti d’archivio e una esauriente bibliografia dimostrano l’impegno tenace profuso da Flavia Farri Fulgoni nella stesura di questo importante studio. Notevole e preziosa la trascrizione di numerose carte d’archivio e delle iscrizioni.

Nell’introduzione, emblematicamente intitolata “Hic sunt leones”, il prof. Angelo Spaggiari, presidente della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi, rileva che la studiosa, dopo un’attenta analisi storica, iconografica ed epigrafica dei leoni e dei relativi basamenti, espone le vicende- fino ad oggi poco esplorate – della “Domus Pratonieria”, la Casa Pratonieri a cui si deve la committenza di tre memorabili episodi artistici nella città di Reggio: i leoni di San Prospero, il dipinto”La Notte” del Correggio, il palazzo di famiglia nelle vicinanze della Basilica del Santo Patrono.

L’approfondita ricerca condotta da Flavia Farri Fulgoni proporrà anche il recupero, come icona della città, di uno dei leoni ruggente sullo sfondo della facciata e della torre di San Prospero.

Il libro. L’ideologia del business, fede del nostro tempo

da Avvenire
Illustrazione di Doriano Solinas

Illustrazione di Doriano Solinas

Pubblichiamo uno stralcio del libro di Luigino BruniCapitalismo infelice. Vita umana e religione del prodotto”edito da Giunti (pagine 160, euro 16,00), che è da oggi in libreria. Viene pubblicato nella nuova collana ‘Terra futura’ (che Giunti realizza in collaborazione con Slow Food editore e l’Università di scienze gastronomiche) che per ora conta altri tre titoli tutti in uscita lo stesso giorno. Si tratta di:Come on. Come fermare la distruzione del pianeta” di Ernst Ulrich von Weizsäcker e Anders Wijkam (pagine 464, euro 22,00);Imperativo sostenibilità. Pensare e governare lo sviluppo umano e ambientale” di Pamela Matson, William C. Clark e Krister Andersson (pagine 304, euro 18,00);Cento pagine per l’avvenire”, riedizione di un libro del 1981 di Aurelio Peccei (pagine 240, euro 16,00).

Mircea Eliade, il grande antropologo romeno, nel suo classico saggio Il sacro e il profano , scriveva: «L’uomo moderno ha desacralizzato il suo mondo e ha deciso di vivere un’esistenza profana. Basterà constatare il fatto che la desacralizzazione caratterizza l’esperienza totale dell’uomo non religioso delle società moderne». Se Eliade fosse vissuto oggi, molto probabilmente non avrebbe scritto questa frase, perché si sarebbe accorto che il capitalismo del XXI secolo sta risacralizzando il mondo, sebbene in un modo tutto nuovo e diverso dal mondo sacro di cui parlava Eliade. E, quasi certamente, la neo-sacralizzazione del nostro tempo Eliade e i suoi colleghi del Novecento l’avrebbero chiamata neo-idolatria.

Questo saggio analizza e discute alcune delle dimensioni del nuovo spirito dell’economia del nostro tempo. Un’economia che continuo a chiamare capitalismo, in mancanza di una parola sintetica più efficace, ben consapevole che tra quanto chiamiamo oggi capitalismo e quello che abbiamo conosciuto nei due secoli precedenti, ci sono molte differenze, alcune così radicali (per esempio la finanza e la rivoluzione del web ) da renderci molto complicata la scelta di usare la stessa parola. Esso è quindi una riflessione su ciò che non vediamo (gli spiriti sono invisibili), che non vogliamo vedere o che il sistema non ci fa vedere, ma di cui subiamo le conseguenze soprattutto in termini di gioia di vivere, il cui calo sembra essere una nota dominante del nostro capitalismo.

La dimensione religioso-sacrale del capitalismo non è cosa nuova. Prima che Max Weber o Karl Marx ce lo dicessero chiaramente, e ciascuno a modo suo, all’inizio dell’Ottocento il francese Claude-Henri de Saint-Simon immaginò e realizzò una vera e propria religione degli imprenditori, dei capitalisti e della scienza, che ebbe un notevole successo e adepti in tutta Europa. In una famosa lettera nel 1803, Saint-Simon scriveva: «La notte scorsa ho udito queste parole: ‘Roma rinuncerà alla pretesa di essere il centro della mia chiesa; il papa, i cardinali, i vescovi e i preti cesseranno di parlare in mio nome… Sappi che Io ho fatto sedere Newton al mio fianco e gli ho affidato la direzione dell’intelligenza umana e la guida degli abitanti di tutti i pianeti… Ogni consiglio farà costruire un tempio che ospiterà un mausoleo in onore di Newton… Ogni fedele che risiede a meno di un giorno di cammino dal tempio scenderà una volta all’anno nel mausoleo di Newton. […] Nei dintorni del tempio saranno costruiti laboratori, officine, e un collegio. Ogni lusso sarà riservato al tempio…’».

La nuova religione di Saint-Simon era universale e laica; i sommi sacerdoti erano gli scienziati, gli ingegneri, gli industriali. Da Marx fu annoverato tra gli autori utopici. Ma, in realtà, se leggiamo bene le sue idee e il suo movimento, dovremmo dire che più che di utopia si trattava di una sorta di strana profezia, se pensiamo a cosa è diventato oggi quel capitalismo che il filosofo francese osservava nella prima fase del suo sviluppo. Con alcune differenze però: l’alleanza tra tecnica e capitale, al tempo di Saint-Simon ancora incipiente, oggi si è potenziata e radicalizzata, ma non sono stati gli ingegneri e i produttori a diventarne i sacerdoti. Il loro posto lo hanno preso i finanzieri e soprattutto i manager, e al centro del tempio non c’è il dio-produttore ma il dio-consumatore. Niente più dell’ideologia del business sta infatti dominando il nostro tempo.

Un’ideologia prodotta e generata nelle business school di tutto il mondo, che conosce un enorme successo perché non si presenta come un’ideologia o religione (qual è), ma come una tecnica, e quindi di portata universale. Gli stessi strumenti del management si applicano a Dallas e a Nairobi, a Milano e in Siberia, perché le tecniche non sono dipendenti dalla cultura e dal carattere dei popoli: un’automobile o una lavastoviglie funzionano allo stesso modo in tutto il mondo, con qualche attenzione per le gomme e per il liquido antigelo. Così gli stessi strumenti di management dovrebbero funzionare allo stesso modo per le multinazionali capitalistiche e per le comunità di suore, perché, si dice, sono tutte aziende e in quanto tali sono tutte uguali. Sotto l’universalismo della tecnica si veicola allora una visione del mondo, dell’individuo, delle relazioni sociali.

Una visione che, come tutte le religioni, ha i suoi dogmi. I principali si chiamano meritocrazia e incentivi. Con la meritocrazia, ad esempio, si legittima la diseguaglianza, perché i talenti non sono interpretati come dono ma come merito individuale. Un dogma da cui deriva la sempre più pervasiva idea che i poveri sono demeritevoli e quindi colpevoli, e in quanto tali non abbiamo nessun obbligo morale di soccorrerli: al massimo possiamo pagare qualche Ong perché se ne occupi in modo che non ci diano troppo fastidio. Questo libro è dunque un dialogo sulla natura religiosa e idolatrica del capitalismo del nostro tempo. Ho scelto di trattare temi complessi con uno stile non specialistico, senza appesantire il testo con note e citazioni di opere (che comunque si trovano elencate in bibliografia), facendo mio il metodo di Antonio Genovesi, fondatore dell’Economia civile, che diceva: «Scriverò dunque come penso, e parlerò come tra noi si parla, perché amo di essere inteso, non ammirato».

Lirica scontata per giovani e l’impegno di scuole e famiglie. La grande opera è educare

Alzi una mano chi ha ascoltato in classe – non dico alle elementari, ma almeno alle medie o alle superiori – un atto completo di Traviata o l’intera Bohème. Licei musicali a parte, se a qualcuno è capitato, è perché ha trovato un insegnante convinto che non si potesse trasmettere la nostra cultura alle nuove generazioni e formare l’identità di un cittadino italiano prescindendo dall’opera lirica. Siamo la patria del belcanto e del melodramma, ma la scuola lo ignora. Va bene Dante. Va bene Verga. Va bene Pirandello. Però si può fare a meno di Verdi, Puccini, Donizetti, Rossini… (a proposito, qual è lo studente di liceo che negli ultimi mesi ha sentito parlare in aula del 150° anniversario della morte del genio di Pesaro che ci ha lasciato perle come Il barbiere di Siviglia o laPetite Messe solennelle? ). Allora ben venga l’iniziativa annunciata ieri dal ministro per i Beni culturali, Alberto Bonisoli, di offrire ai ragazzi fino ai 25 anni biglietti a due euro per opere, balletti e concerti proposti da tutte e quattordici le fondazioni lirico-sinfoniche della Penisola.

Il Teatro alla Scala di Milano, dove Bonisoli ha presentato il progetto, è stato il primo ente ad aderire: in un anno metterà a disposizione 2.200 posti a prezzi scontatissimi per i quindici titoli d’opera più i sette di balletto in cartellone. È una novità il prezzo, non l’idea. Sempre il Piermarini, ad esempio, ha avviato già da tempo un percorso privilegiato per gli “under 30”: biglietti a costi ridotti, una prova d’insieme gratuita e soprattutto l’anteprima per i giovani del titolo che inaugura la nuova stagione ogni 7 dicembre. Così accade che a centinaia si mettano in coda per un’intera notte pur di conquistare un tagliando della “primina”. Forse, però, è più efficace la scommessa lanciata negli ultimi anni da alcuni templi della lirica nostrani (e mutuata dall’estero dov’è una tradizione consolidata): quella di portare a teatro le famiglie con i bambini proponendo i capolavori della lirica a misura dei più piccoli, ossia ridotti e riadattati.

La Scala, il Maggio Musicale Fiorentino, l’Opera di Roma – per citare qualche esempio – lo fanno con uno straordinario (e probabilmente inaspettato) successo di pubblico. Il Petruzzelli di Bari ha addirittura messo in scena quattro opere del tutto nuove commissionate ad hoc per i ragazzi. È quindi sicuramente lodevole tagliare i prezzi dei biglietti (alla Scala o all’Arena di Verona si arriva a 250 euro a poltrona in platea) ma la scoperta della lirica non si improvvisa. Altrimenti c’è il rischio che un giovane, uscito da teatro dopo aver assistito per la prima volta a quattro ore d’opera, non ci rimetta piede trovando il tutto troppo ostico e “lontano” dalla sua sensibilità. Siccome la scuola latita, tocca allora ai genitori ma anche a benemerite associazioni, bande locali, sodalizi rimboccarsi le maniche per dare ai figli un po’ di educazione musicale. Che invece dovrebbe essere una priorità pubblica nel Paese più “lirico” del mondo.

avvenire

 

Spiritualità senza Dio né religione? Raccogliere la sfida dei giovani

Un gruppo di giovani fuori da una scuola superiore (Fotogramma)

Un gruppo di giovani fuori da una scuola superiore (Fotogramma)

Caro direttore,

leggo sempre con grande interesse gli articoli di Avvenire, quotidiano che considero sincero, coraggioso, nel ‘denunciare’ ciò che non è accettabile, pure nel mettere in risalto il molto bene che non manca da parte di molte associazioni, in particolare dalla Chiesa, sempre in prima linea in questo turbolento periodo storico. Leggendol’articolo di Stefano Didonè (29 agosto, pagina 3), tuttavia, sono rimasta un po’ perplessa laddove si evidenzia che, nei giovani, l’esperienza spirituale debba essere anzitutto un percorso personale e legato alla vita. Come ha osservato Paola Bignardi, «l’impressione generale è che il discorso specificamente religioso si sia ulteriormente indebolito mentre le domande esistenziali si siano addirittura rinforzate in una situazione in cui si sono rarefatte le risposte, è stata rifiutata la tradizione religiosa». A me sembra che in questa situazione ci si discosti dal Vangelo, quando Gesù disse a Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra io fonderò la mia Chiesa». Le chiederei, gentile direttore, di aiutarmi a dissipare le mie perplessità. Con stima sincera e condivisione e ammirazione per il lavoro eccellente svolto da lei e da tutti i collaboratori.

Carla Colombo, Carugate (Mi)

Gentile signora Carla, su invito del direttore di ‘Avvenire’ le rispondo in merito alla sua lettera. Anzitutto la ringrazio per la sua osservazione, che mi permette di precisare meglio il significato del passaggio da lei indicato. Esso si inserisce nello scenario che ho cercato brevemente di tracciare riguardo al modo con cui i giovani vivono la dimensione spirituale della loro vita. Stando alle interviste svolte e ai dati raccolti nel ‘Rapporto Giovani’ dell’Istituto Toniolo, si nota che in molti casi il termine «spirituale» non rinvia più direttamente ed esplicitamente all’esperienza spirituale propria della tradizione cristiana. Esso tende ad assomigliare piuttosto a una ricerca personale e interiore, molto aperta di fronte alla pluralità di tradizioni religiose con le quali i giovani entrano in contatto. Oggi molto più che nel recente passato. Certamente il fenomeno di una spiritualità ‘senza Dio’ o ‘senza religione’ (ma non sempre ‘contro Dio’ o ‘contro la religione’) rappresenta un problema non secondario dal punto di vista della fede cristiana, ma il semplice fatto che questa ricerca ci sia ancora è motivo di speranza. Essa può offrire nuove possibilità di annuncio, pur nella consapevolezza, come osserva papa Francesco in Evangelii gaudium che «il ritorno al sacro e la ricerca spirituale che caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui» (n.89). Questa situazione inedita, quindi, rappresenta una sfida per la Chiesa, chiamata ad ascoltare e riconoscere le domande dei giovani, a proporre la necessaria purificazione di ciò che non è compatibile con la fede e a offrire con schiettezza e slancio missionario la gioia e la bellezza del Vangelo di Gesù Cristo.

Cordialmente.

da Avvenire