Il bisogno di pensare

copertina

Allettato dalle sue rapide ristampe e da un encomio pur rapido come quello di Enzo Bianchi su Tuttolibri, decisi di riascoltare l’ascoltatissmo Vito Mancuso, dopo aver già letto e recensito su Settimana n. 3/2008 il suo L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina, 2007). E mi devo quasi ripetere. Da lui come uomo di grande e vasta cultura si può imparare davvero molto e condividerne molti messaggi. Tutti no, anzi mi rimangono parecchie domande e perplessità (e non solo a me).

In questo volume l’autore ribadisce la necessità di trovare – come affermava anche il card. Martini ad ambedue carissimo – persone che innanzitutto pensino, ragionino, riflettano, cerchino in libertà di mente e cuore. Ma bisogna pensare che cosa voglia dire, appunto, pensare. Molta parte del volume è dedicata a questo, con un fiume di parole, di citazioni, di riflessioni che, almeno in parte, riescono a condurre il lettore a tale meta. Più precisamente, su una via simile a quella del grande Teilhard de Chardin, a condurlo a (ri)scoprire il complesso della realtà della natura e in particolare di quella umana. E quindi condurlo a un pensiero, a una visione ottimistica e affascinante, che vedrebbe prevalere nella realtà o natura il positivo, il logos (identificato, frettolosamente, con quello di Gv 1,1, non con quello fatto carne di Gv 1,14) sul caos, la luce sulle tenebre, la vita sulla morte…

Con e in essa mente e cuore dell’uomo possono scoprire una ricca sapienza per la vita e addirittura qualche «dio». Non certo, mi sembra, il Dio così… illogico del Crocifisso: su questo aspetto del tutto unico e singolare del Dio cristiano Mancuso proprio sfugge, al più lo collocherebbe al “vertice” temporaneo di una rivelazione ancora e sempre in evoluzione (p. 129). Solo da quest’ultima potremo imparare e dire che «Dio è un padre amorevole che si prende cura con giustizia di tutti i suoi figli» (ivi).

In verità qui trovo una stranezza illogica: donde deduce Vito Mancuso questa pur bella idea di Dio, tanto più se la rivelazione più vera è ancora da attendersi?

Altra domanda, in parte e dietro le quinte riconosciuta anche da lui: siamo proprio certi che, nell’evoluzione della natura e della storia, prevarrà il logos sul caos, la vita sulla morte, il bene sul male? Già il povero Giobbe ne ebbe qualche dubbio e dovette uscire dai suoi pensieri per averne qualche risposta; i primi discepoli di Gesù non erano così ottimisti e speranzosi fin quando non ebbero la scoperta della vittoria, nel Crocifisso risorto, del logos sul caos; sant’Agostino pensò a lungo sulla natura e sui drammi dell’uomo, ma a un certo punto approdò a una via nuova e diversa: al Signore incarnato e pasquale.

Ripeto quindi la domanda critica già rivolta all’autore per L’anima e il suo destino: Dio o un «dio»? Il da lui citato tante volte Gesù, stava in bilico tra un dio generico-logico-naturale e un Dio Padre misterioso suo e nostro? Solo dopo aver risposto a questo problema potremo accettare, con Mancuso – e più ancora con Teilhard de Chardin e altri – una visione ottimistica o almeno speranzosa del cosmo e della storia umana.

Un’ultima osservazione: l’autore conosce una valanga di pensatori antichi e moderni (cf. specialmente il cap. I) e ne permette qualche conoscenza anche al lettore; ma a volte ho l’impressione che la loro presentazione sia troppo sbrigativa, lasciata a piccole e troppo semplificatorie frasi. Sono utili anch’esse, se si vuol procedere col pensiero e nella ricerca: sostanzialmente lo fa anche Mancuso nel resto del suo lavoro.

Vito Mancuso, Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, pp. 192, € 16,00.

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I cristiani d’Oriente oggi

I cristiani d’Oriente oggi, timori e speranze. «In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; sconvolti, ma non disperati» (2Cor 4,8). È il titolo dell’undicesima lettera pastorale del Consiglio dei patriarchi cattolici d’Oriente (CPCO), pubblicata il 20 maggio 2018, elaborata durante la riunione tenutasi dal 9 all’11 agosto 2017 nei pressi di Beirut, in Libano. In quell’occasione i patriarchi cattolici d’Oriente hanno riflettuto sulla situazione umana, sociale e politica dei paesi del Medio Oriente, poiché «nessun paese arabo conosce la pace o la stabilità» a causa di guerre, terrorismo, povertà, emigrazione dei cristiani. A fronte di tale situazione affermano: «L’Oriente sarà rinnovato dai suoi popoli senza che l’Occidente imponga loro i suoi piani. Un Oriente fatto dai suoi figli, padroni a casa loro, musulmani, cristiani e drusi. Tutti uguali, senza che nessuno imponga il suo dominio sull’altro a livello religioso, politico o militare». La lettera si rivolge ai fedeli delle Chiese cattoliche d’Oriente, ma anche ai concittadini delle altre religioni, ai governanti e ai leader occidentali. Traduzione dal francese è curata dal Patriarcato latino di Gerusalemme (dal sito webit.lpj.org, 3 agosto 2018).

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Il Consiglio dei patriarchi cattolici d’Oriente (Haifa, 12 ottobre 2017)

Introduzione

Ai nostri fratelli vescovi, preti, diaconi, religiosi e religiose e a tutti i nostri diletti fedeli, in tutte le nostre eparchie, in Oriente e nei paesi di emigrazione, «grazie a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!» (1Cor 1,3).

1. Vi scriviamo questa lettera nella festa di Pentecoste, dopo aver celebrato la Pasqua gloriosa di nostro Signore Gesù Cristo e la sua vittoria sulla morte e sul male. Abbiamo bisogno, infatti, di contemplare Cristo risorto e di chiedere allo Spirito Santo di colmarci della sua forza e di rinnovare la nostra fede, in questo tempo nel quale ci vediamo sommersi dal male della guerra e della morte in tutta la regione.

In molti dei nostri paesi vediamo morte e distruzione, a causa di una politica mondiale, economica e strategica, mirante a creare un «nuovo Medio Oriente».

Tutti, cristiani e musulmani, veniamo uccisi o costretti a emigrare, in Iraq, Siria, Palestina e Libia. Nessun paese arabo conosce la pace o la stabilità.

Oggi molti parlano della nostra estinzione o della riduzione drammatica del numero dei nostri fedeli. Noi continuiamo a credere in Dio, Signore della storia, che veglia su di noi e sulla sua Chiesa in Oriente. Continuiamo a credere nel Cristo risorto e nella sua vittoria sul male. In Oriente resteranno sempre dei cristiani che proclameranno il Vangelo di Gesù Cristo, testimoni della sua risurrezione, anche se rimarremo solo un piccolo gruppo. Resteremo «sale, luce e lievito» (cf. Mt 5,13.14; 13,33), come ci ha detto il Signore Gesù Cristo, il quale ci aveva anche preannunciato: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio; io ho vinto il mondo!… Non sia turbato il vostro cuore» (Gv 16,33; 14,27).

2. Fratelli e sorelle, vi inviamo questa lettera, dopo il nostro incontro annuale alla residenza patriarcale di Dimane (Libano), dal 9 all’11 agosto 2017, dove siamo stati ospiti del nostro fratello, il patriarca card. Bechara Boutros Raï. La indirizziamo a voi, nostri fedeli, ai nostri paesi, a tutti i nostri concittadini cristiani, musulmani e drusi, ai nostri governi e anche ai responsabili politici in Occidente, che hanno deciso di creare un nuovo Medio Oriente e pensano di avere il diritto di decidere dei nostri destini, grazie alle loro potenze materiali o militari.

In questa lettera rivolgiamo tre messaggi: il primo ai nostri fedeli; il secondo ai nostri concittadini e ai governanti dei nostri paesi; il terzo a coloro che in Occidente decidono della politica del Medio Oriente e a Israele.

I. Messaggio ai nostri fedeli

Tempi difficili

3. Sappiamo che è difficile rivolgere una parola ai nostri fedeli che hanno subito molteplici prove, hanno pianto la morte dei loro cari e vicini o sono stati dispersi nel mondo. Davanti a tanta sofferenza, la parola più eloquente è il silenzio. Silenzio anche davanti al mistero di Dio e del suo amore per tutte le sue creature, un mistero che noi non riusciamo a comprendere, con tutto il male che ci invade.

Silenzio e rispetto di fronte alle prove subite dai nostri fedeli; insieme a loro facciamo nostro il grido del salmista: «Fino a quando, Signore?». «Signore, Dio, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato» (Sal 6,4; 80,15-16a).

Silenzio, preghiera, e abbandono e sottomissione alla volontà di Dio. Ringraziamo al tempo stesso Dio per ogni cosa, per la sua Provvidenza che veglia sulla Chiesa d’Oriente, su ogni persona che è in mezzo a noi e sul mondo intero.

Circondati dal sangue e dalla distruzione, dispersi nel mondo, noi meditiamo le parole di Cristo, il quale ci ha preannunciato difficoltà e persecuzioni: «Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio» (Gv 16,2). E ancora: «… e sarete condotti davanti a governatori e re, per causa mia» (Mt 10,18). Ma ci ha detto anche che lo Spirito sarà con noi: «Quando vi porteranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi di come o di che cosa discolparvi, o di che cosa dire, perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc 12,11-12).

Questa è la nostra situazione, come quella del salmista che afferma: «Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello» (Sal 44,23; cf. anche Rm 8,36) e come quella di Paolo, che scrive: «Ogni giorno io vado incontro alla morte» (1Cor 15,31). Ma l’apostolo ci rivolge anche una parola di incoraggiamento: «In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati» (2Cor 4,8). Ispirati da queste parole della Scrittura, noi definiamo i nostri comportamenti umani, nelle nostre Chiese e nei nostri paesi. E in mezzo alle difficoltà, sempre con il salmista, rinnoviamo la nostra fede: «Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice» (Sal 116,10).

Noi crediamo, pur sapendo che è difficile credere mentre siamo sommersi dalle tenebre e dalle ingiustizie di questo mondo.

Vediamo la terra piena di miserie. Vediamo la crudeltà degli uomini, gli uni verso gli altri e verso di noi. Sperimentiamo un tempo di morte e di martirio. Davanti a tutto questo, noi guardiamo la bontà di Dio, gli chiediamo la forza e la capacità di accogliere la sua grazia. Gli chiediamo di accompagnarci nell’ora del martirio quando giungerà. Gli chiediamo di accompagnarci, se restiamo nelle nostre case, se le nostre Chiese sono distrutte e se siamo dispersi nel mondo. Gli chiediamo la forza di restare saldi nella nostra fede e nella nostra fiducia nella sua bontà. Nonostante la morte che ci minaccia, noi crediamo che Dio non cessi d’inviarci nei nostri paesi o nel mondo portando dentro di noi una briciola della sua bontà divina, della sua forza e del suo amore per tutto il mondo.

Emigrazione

4. In alcuni dei nostri paesi assistiamo all’emigrazione forzata di nostri fedeli a causa delle prove disumane che hanno conosciuto. Ringraziamo i paesi, le Chiese, le organizzazioni assistenziali internazionali che hanno accolto i nostri fedeli e hanno offerto loro l’aiuto necessario per assicurare loro una vita umana degna. Ma ripetiamo a tutti, soprattutto ai politici, che il miglior aiuto da dare ai nostri fedeli è quello di permettere loro di restare a casa loro, nei loro paesi, di non suscitare disordini politici e le varie forme di violenza che li costringono a emigrare.

C’è anche un’emigrazione di cristiani in altri paesi, nei quali la situazione è relativamente tranquilla, ma che ugualmente risentono del clima di guerra e d’instabilità politica generale nella regione. Noi ripetiamo a tutti i nostri fedeli l’importanza della presenza cristiana in Oriente e della presenza di ognuno e ognuna di voi nei vostri paesi dove Dio vi ha chiamati e vi ha inviati. In tempi difficili, i vostri paesi e le vostre Chiese hanno bisogno di voi. Vi diciamo di resistere per quanto potete alla tentazione dell’emigrazione e di continuare a vivere la vostra missione nei vostri paesi e nelle vostre Chiese. L’avvenire delle nostre Chiese e della presenza cristiana in generale nella regione dipende anche dalla vostra decisione di partire o di accettare la volontà di Dio restando là dove vi ha chiamati.

I nostri martiri

5. Dai nostri morti, dai nostri martiri e dalla crudeltà degli uomini nei nostri confronti noi impariamo due cose. Anzitutto restiamo dei messaggeri portatori di vita nei nostri paesi e nelle nostre società. In secondo luogo, se la morte è una realtà, per il credente anche la vita è una realtà ed essa finirà per trionfare sulla morte. La vita piena, la «vita in abbondanza» (Gv 10,10) che Cristo è venuto a offrirci e ci permette di comunicare agli altri. Nelle molteplici difficoltà, i nostri corpi vengono uccisi, ma il messaggio rimane. Noi restiamo portatori di un messaggio, qui e sulle strade del mondo. Qui contribuiamo alla costruzione delle nostre società, e sulle strade del mondo, là dove giungiamo, portiamo il Vangelo di Gesù Cristo.

Noi non disperiamo, non fuggiamo lontano da un mondo nel quale regna la morte. Anche coloro che uccidono hanno bisogno di sale e di luce, per riuscire ad aprire gli occhi e uscire dalla loro cecità e dalla loro disumanità. Noi non fuggiamo davanti a coloro che uccidono nelle nostre società o nel mondo. Cerchiamo piuttosto di ricondurli alla vita, perché uccidendoci uccidono sé stessi. La missione delle nostre Chiese, e di tutti i nostri fedeli, è una missione difficile, sanguinosa. Essa consiste nel rendere la vita a una generazione di morti, nel rendere la bontà di Dio a coloro che se ne sono privati, nel rendere la vista a coloro che l’hanno perduta e sono diventati incapaci di vedere l’amore di Dio e dei figli di Dio.

Che cosa ci dicono i nostri martiri?

6. I nostri martiri dicono a noi cristiani una parola di verità. Dio ha voluto che noi ricevessimo in questo XXI secolo il battesimo del sangue.

I nostri martiri ci dicono di rinnovare il nostro amore gli uni verso gli altri, anche se siamo ancora separati da strutture esterne che si sono formate nel corso dei secoli. Anche se continuano le nostre differenze nel modo di comprendere ed esprimere la fede nell’unico Signore Gesù Cristo. Un solo amore nelle nostre Chiese, una sola voce per il povero, per l’oppresso e per la pace, uno stesso impegno nelle nostre società, nelle quali il Signore ci ha posti e ci ha mandati per costruirle e per avviarvi una nuova fase della nostra storia. Il nostro contributo alle nostre società consiste nel rendervi più presente Dio e nell’introdurvi più amore e pace.

I nostri martiri hanno dato la loro vita per Gesù Cristo e per la vita delle nostre Chiese e dei nostri paesi. Perciò le nostre Chiese elevano insieme la loro lode all’unico Signore Gesù Cristo e avanzano verso una maggiore unità fra di noi e nelle nostre società. Essendo state battezzate nel sangue dei nostri martiri, le nostre Chiese hanno il dovere di rinnovarsi per diventare fonte di vita per tutti.

I nostri martiri ci dicono di rinnovare la nostra preghiera, affinché sia al tempo stesso culto reso a Dio e amore del prossimo, amore delle persone più vicine e anche di quelle più lontane, amore di tutte le nostre comunità e di tutte le nostre società. La nostra preghiera non resterà fra le mura delle nostre Chiese, ma si estenderà a tutte le nostre relazioni reciproche e alle nostre società. La nostra preghiera si estenderà a tutti i bisogni materiali e spirituali di tutti. Questo implica anche un rinnovamento delle nostre tradizioni, delle nostre liturgie e delle nostre devozioni, affinché diventino un nutrimento che trasforma la nostra vita quotidiana e ci aiuta ad assolvere la nostra missione nel mondo.

Il sangue dei nostri martiri è un seme per un rinnovamento delle nostre Chiese, dei nostri fedeli, dei nostri sacerdoti, vescovi e patriarchi. Anche se la strada aperta dal sangue dei nostri martiri è lunga e difficile, noi la percorriamo. Camminiamo insieme a loro, con lo sguardo fisso al cielo, ricordandoci della nostra vera vocazione, come cristiani e come esseri umani creati a immagine di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Anche la strada della perfezione è lunga e difficile. Perciò, mentre avanziamo sulla strada della perfezione, i nostri martiri ci dicono anche di saperci preparare al battesimo del sangue.

Ai loro persecutori, ai loro assassini vicini o lontani, a viso scoperto o nascosto, i nostri martiri dicono: anche per voi noi abbiamo dato la nostra vita, affinché anche voi possiate vedere Dio e i figli di Dio, vedere Dio in ogni essere umano, sia che appartenga alla vostra religione, sia a un’altra. Aprite i vostri occhi e i vostri cuori alla vita. Ritrovate la vostra libertà, non restate contemporaneamente assassini e vittime del vostro male. Non restate persecutori dei vostri fratelli e schiavi del male che c’è in voi.

Il sangue dei nostri martiri annuncia una vita nuova, la nascita di un uomo arabo nuovo, cristiano, musulmano e druso. Essi sono morti per la gloria di Dio e sono diventati una benedizione per le loro Chiese e le loro società arabe. Il numero dei cristiani diminuisce, ma il sangue dei martiri è seme di vita e di grazia. Il numero dei cristiani diminuisce, ma la grazia sovrabbonda.

In mezzo alle difficoltà e alla morte, noi ricordiamo sempre la bontà e la misericordia di Dio. Lo ricordiamo a coloro che ci uccidono, perché anch’essi, nonostante tutto il male che c’è in loro, hanno qualcosa della bontà di Dio. Anch’essi possono amare. Dio non ha creato l’uomo per la morte, per la sua morte o per quella degli altri. Lo ha creato per essere fratello e sorella di tutti e di tutte, quali che siano e a qualunque religione appartengano. Creati a sua immagine, noi siamo in grado di vivere e di amare come lui.

II. Che cosa diciamo ai nostri concittadini e ai nostri governanti?

La nostra realtà

7. La nostra realtà è caratterizzata da un lato da prosperità, ricchezza, grandi edifici e una parvenza di pace, con molto benessere, molta religione, molta scienza e molto denaro; dall’altro da molta povertà e, in alcuni dei nostri paesi, molti senzatetto. Nel campo della religione, per molti i nostri metodi di educazione religiosa sono un terreno fertile per l’estremismo o il confessionalismo chiuso e settario. Sul terreno, come nelle anime, domina una situazione di guerra e di sedizione. In alcuni dei nostri regimi politici si ha paura della libertà delle persone. I nostri paesi sono in cammino verso una stabilità non ancora realizzata. Dall’esterno e dall’interno ci sono state imposte delle guerre. E il nostro futuro rimane ignoto.

I nostri capi politici

8. Ringraziamo i nostri capi politici per i loro sforzi a servizio dei nostri popoli. Ma ricordiamo loro anche ciò che abbiamo detto sopra. La strada che ci separa dalla «città virtuosa» resta ancora lunga. Continuiamo a soffrire per la povertà, la corruzione, la limitazione delle libertà, il confessionalismo e le guerre. Tutto questo dovrebbe essere già stato superato.

Siamo pienamente consapevoli delle difficoltà e della complessità della situazione. Ma nonostante le difficoltà e la complessità, il male e la corruzione devono cessare. E questo è possibile. Il governo è un servizio reso alla comunità ed esige uno sforzo per migliorare le sue condizioni di vita. Il suo scopo è quello di assicurare a ogni cittadino una vita degna e libera, a livello sia materiale, sia spirituale, sia sul piano delle libertà. Siamo in grado di raggiungere tutto questo. Ma ne siamo ancora molto lontani.

Distacco e bene comune

9. I veri capi sono disinteressati. Sono servitori, cercano il bene delle persone e delle comunità. Paolo dice di se stesso: «Io non cerco il mio interesse, ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1Cor 10,33). Con le sue parole, egli esortava i suoi fedeli a «imitare Dio». È bene e anche necessario che i capi politici ascoltino questa parola: non cercare il loro interesse personale, ma quello degli altri. È necessario che chi governa cerchi l’interesse del popolo dal quale ha ricevuto il mandato di governarlo. L’autorità è un servizio per l’edificazione della comunità.

Noi diciamo alle nostre autorità: ascoltate la voce dei poveri. Un buon governante è quello che sradica la povertà. Nelle nostre società vi sono grandi fortune; ci sono anche le conoscenze e la capacità organizzativa. Nelle nostre società, nelle quali si trovano tante risorse e ricchezze, la povertà è un segno della noncuranza o dell’incapacità dell’autorità. La povertà esiste quando un fratello non vede il proprio fratello. Essa è la conseguenza inevitabile di un governante che cerca il proprio interesse e non quello della comunità.

Perché nei nostri paesi ricchi di risorse esiste ancora la povertà? Dipende da una nostra mancanza di «umanità»? Dipende dall’egoismo e dall’incapacità dei nostri ricchi o dei nostri capi politici di uscire dal loro ego per pensare agli altri?

O forse la religione, nonostante la sua onnipresenza, è in realtà assente? Infatti tutto l’Oriente, cristiano o musulmano o druso, è religioso, o diciamo piuttosto saldamente legato alla sua comunità religiosa. La religione è presente, ma spesso Dio non è presente. Può capitare, infatti, che nonostante la fedeltà alle pratiche rituali religiose Dio sia assente. Si è religiosi, si va in chiesa o in moschea, ma si trascura il povero che è creatura e figlio di Dio. Le elemosine sono certamente frequenti. Alcuni costruiscono anche una chiesa o una moschea. I nostri paesi e le nostre società, dove esistono molte ricchezze e molti poveri al tempo stesso, hanno bisogno di ben più di questo. Non hanno bisogno solo di elemosine, ma di giustizia sociale, di un’economia giusta che assicuri la dignità umana a ognuno.

La povertà nei nostri paesi ricorda a tutti coloro che hanno grandi patrimoni, ai governanti, ai responsabili dell’economia, che i nostri paesi hanno bisogno di qualcosa che va al di là dell’«elemosina». Hanno bisogno di sistemi e di piani economici in grado di distribuire e organizzare le ricchezze della nazione, e anche degli individui, affinché nessun abitante resti nel bisogno. La religione è molto presente, ma dobbiamo rendere presente Dio stesso, Dio misericordioso, il quale ci dice di aver dato a tutti la stessa dignità umana. Questo esige una migliore comprensione della religione. Questo esige capi che sappiano essere servitori, che lavorino per gli altri e assicurino una vita degna a ogni cittadino. E nessuno dica che le cose sono difficili e complicate. I responsabili facciano piuttosto uno sforzo per vedere e riconoscere che esistono intenzioni francamente cattive e mancanza di buona volontà per realizzare la giustizia sociale.

Questa questione della povertà riguarda anche le nostre Chiese, ossia tutti noi, in primo luogo pastori, vescovi, preti, religiosi e religiose. Infatti noi possiamo attivarci per reclamare e realizzare una migliore giustizia sociale. E possiamo anche dare l’esempio nel nostro modo di possedere e usare le ricchezze di questo mondo. I poveri presenti nelle nostre società ci invitano tutti, responsabili religiosi e politici, a fare un esame di coscienza sul nostro atteggiamento verso il denaro e sulla nostra azione o noncuranza di fronte al grido del povero.

La libertà

10. Ascoltate la voce degli oppressi che sono stati privati della loro libertà. «Amate la giustizia, voi giudici della terra» (Sap 1,1). Le autorità politiche hanno il dovere di formare un governo forte e garantire a tutti la sicurezza e la tranquillità. Ma non è permesso al governo, qualunque sia il regime, di diventare dittatura e tirannia. Non è permesso di umiliare la persona umana o di ucciderla in forza della sua libertà, la quale ha certamente i suoi limiti, che sono il bene delle persone e delle comunità.

Il buon governante non teme la libertà e neppure l’opposizione. Al contrario, si basa su di esse e le prende come guida per assicurare meglio il bene comune.

È certamente difficile rispettare pienamente la libertà umana. Ma chi ha accettato di governare deve essere in grado di affrontare ogni difficoltà, senza cadere nelle ingiustizie. Deve sapere come trattare la libertà delle persone senza opprimerle. Un buon governante si dimostra tale proprio attraverso la sua capacità di trattare la libertà delle persone e dei gruppi, fra cui i partiti politici e tutti coloro che si oppongono a lui con le loro idee. Non ha diritto di gettare in prigione gli intellettuali e le persone libere del popolo per il solo fatto di appartenere all’opposizione. Anche nelle prigioni, deve essere rispettata la dignità della persona umana. Non si possono correggere le differenze di opinione attraverso l’annientamento della persona umana, soggetta unicamente a Dio e non alla tirannia di un dittatore.

Di fronte alla politica mondiale

11. Vogliamo dei leader politici indipendenti dalle pressioni e dai piani esterni. Sappiamo che esistono molte pressioni di ogni sorta, che costituiscono fardelli pesanti da portare, limitano la libertà dei governanti e vanno contro il bene dei loro popoli.

Perciò abbiamo bisogno di leader politici forti. Ed è nel popolo che essi troveranno la loro forza, ma solo se ne sapranno rispettare la libertà e la dignità. Sostenuti dal loro popolo, i capi possono far fronte a tutte le pressioni esterne mondiali e alle grandi potenze che pretendono di cambiare a loro piacimento il nostro Medio Oriente.

Abbiamo bisogno di leader che, sostenuti dal loro popolo, siano in grado di tener testa ai potenti di questo mondo e di trattare con loro alla pari; essi non temeranno alcuna minaccia militare o economica.

Un popolo rispettato dai suoi leader è la loro forza e la fonte della loro libertà di decisione di fronte a ogni aggressione dall’esterno e di fronte a ogni tentativo di distruzione o di sedizione e di guerre civili, come abbiamo visto e come vediamo ancora nei nostri diversi paesi.

La regione ha bisogno di leader che siano artefici di pace per il loro paese e per i paesi vicini. Essi rifiutano ogni incitamento alla guerra che proviene loro dall’esterno, nonché le alleanze contro il bene dei loro popoli o dei paesi vicini. Vogliamo capi liberi, con le mani pulite, che possano far uscire la regione dalle sue molteplici guerre e stabilirvi una pace stabile e definitiva.

Lo stato laico

12. Noi ci aspettiamo dai nostri capi che costruiscano uno stato laico, basato sull’uguaglianza di tutti i suoi cittadini, senza discriminazione sulla base della religione o di qualsiasi altra ragione. Uno stato nel quale ogni cittadino si senta a casa propria, uguale a tutti gli altri e con le stesse opportunità di vita, governo o lavoro, indipendentemente dalla sua religione. Tutti si sentiranno fratelli nella stessa patria, con gli stessi doveri e gli stessi diritti.

Lo stato laico separa religione e stato, ma rispetta tutte le religioni e le libertà. Si sforza di comprendere meglio la questione religiosa nei nostri paesi, con le sue componenti, cristianesimo, islam e comunità druse, senza lasciare che si trasformino in confessionalismo religioso o politico. Questo richiede due cose: anzitutto noi, cristiani e musulmani e drusi, dobbiamo imparare come vivere insieme, come creare insieme lo stato moderno; e in secondo luogo dobbiamo apprendere come formare le nostre generazioni attraverso una nuova educazione basata sugli stessi principi: rispetto reciproco, collaborazione e destino comune, nel paese nel quale Dio ci ha mandati.

Per questo vogliamo leader politici che abbiano il coraggio d’intraprendere una nuova educazione alla vita politica, alla formazione della persona umana e di un nuovo cittadino. Vogliamo un’autorità che formi persone che tendono al proprio perfezionamento e a quello dei loro fratelli e di tutta la patria. Cittadini e credenti che non sono chiusi in sé stessi, ma sono aperti e capaci di abbracciare tutti i loro fratelli e sorelle e il mondo intero.

I capi religiosi

13. Noi vogliamo capi religiosi che abbiano visioni nuove, capi religiosi cristiani, musulmani e drusi uniti dalla fede in Dio uno e unico, misericordioso, amico degli uomini. Capi che collaborino e si sforzino di formare dei credenti che si amano gli uni gli altri, quale che sia la rispettiva religione.

Condanniamo le guerre religiose del passato, le lasciamo alla storia e per esse chiediamo perdono a Dio. Gli chiediamo d’illuminarci per configurare insieme la nostra nuova storia e di darci la forza di camminare nella sua luce e nella sua misericordia, affinché la religione resti, a immagine di Dio stesso, una religione di amore e di misericordia per tutte le sue creature.

Nella nostra realtà quotidiana esistono dialogo e accettazione reciproca. Ma esiste anche il contrario. Continuano a esistere correnti religiose contrarie alla collaborazione e all’uguaglianza fra i credenti di religioni diverse. C’è un rifiuto dello stato laico e dell’uguaglianza dei cittadini. Nel cuore di molte persone si trovano ancora l’estremismo religioso e l’esclusione. Le nostre ferite in Iraq e in Siria sono ancora aperte. Gli attacchi contro le chiese in Egitto continuano a ripetersi. Esistono ancora fra noi fanatismi religiosi che separano i credenti in nome di Dio, che è uno e unico e ama tutte le sue creature indipendentemente dalla religione alla quale appartengono. Vi sono anche quelli che uccidono in nome di Dio.

Nei cuori di alcuni cristiani si è formata anche una reazione di carattere confessionale, che non è cristiana ed evidenzia un sentimento di disperazione e di rifiuto dell’altro.

Di fronte a queste realtà noi ci fermiamo, riflettiamo e ci facciamo un esame di coscienza per ridefinire insieme i nostri atteggiamenti e rinnovare la nostra fede in Dio, che è amore e misericordia. Rinnoviamo il nostro amore per Dio e gli uni per gli altri. Decidiamo di cambiare i vecchi comportamenti che dividono e li sostituiamo con l’amicizia e il rispetto reciproco.

Anche i capi religiosi sono «servitori» degli altri e non di loro stessi. Essi camminano e guidano i credenti nelle vie di Dio, ossia l’amore e la misericordia. Hanno la responsabilità della formazione di persone umane nuove, forti, misericordiose, amanti di ogni uomo, di ogni religione. Possono formare una generazione di credenti che danno la vita e non la morte; possono formare credenti sinceri, misericordiosi e non omicidi.

L’amore del capo religioso abbraccia certamente i credenti della sua comunità, ma si spinge oltre, perché l’amore non ha confini, è universale come l’amore che Dio ha per tutta la sua creazione. Il nostro Medio Oriente, saturo di sangue e di morte, ha bisogno di capi religiosi che lo guidino nelle vie della vita. Abbiamo bisogno anche di capi religiosi che abbiano il coraggio di resistere a tutte le forze di discriminazione e di morte, che ancora operano nelle nostre società, sia che provengano da noi stessi sia che provengano dall’esterno o da correnti che hanno un grande potere di distruzione.

Abbiamo bisogno di capi religiosi in grado di compatire le sofferenze di tutti, di portarle in loro stessi e di insegnare che le sofferenze non sono per la morte, ma sono una strada verso una vita nuova, sull’esempio della croce di nostro Signore Gesù Cristo, che fu un percorso dalla morte alla risurrezione. Tutta la vita umana ha un carattere pasquale; essa è un continuo passaggio da ogni forma di morte alla vita; è una continua vittoria sul peccato e sul male fino a giungere alla vita nuova.

I capi religiosi devono lasciare allo stato la sua indipendenza nel suo ambito. Devono insegnare e richiamare i grandi principi della morale. Attraverso il loro insegnamento devono sostenere lo stato in ogni azione giusta che conduce a una vita degna e tranquilla della comunità. Devono alzare la voce per difendere i poveri, gli oppressi. Devono andare in cerca di tutte le persone oppresse o bisognose per rendere loro giustizia e assicurare loro una vita degna. Devono difendere la libertà e insegnare al tempo stesso ai credenti come usare la loro libertà non per discriminare, non per arrecare pregiudizio alla società e opprimere, ma per costruire insieme.

Una nuova educazione

14. Quanto siamo venuti dicendo dimostra che abbiamo bisogno di una nuova educazione per formare un essere umano nuovo. La responsabilità tocca allo stato, come anche alla chiesa e alla moschea. Ogni capo religioso, in ogni religione, ne è responsabile. Abbiamo bisogno di una nuova educazione basata sulla misericordia e sull’amore, sull’uguaglianza e sulla pari dignità data da Dio a tutti.

Quando riusciremo a formare un uomo nuovo, formeremo anche un credente nuovo, capace di vedere Dio creatore, misericordioso e amico degli uomini. Così nascerà anche una nuova società basata sulla giustizia, sulla libertà e sulla collaborazione. Con un uomo nuovo nascerà uno stato nuovo per tutti i suoi cittadini, quale che sia la loro religione.

Un’educazione religiosa sana, per il cristiano e per il musulmano, ciascuno nella sua religione, rende possibile un progetto nazionale nuovo nel quale tutti e ciascuno sono ugualmente uomini e cittadini, tutti credenti e ciascuno fedele alla sua religione. Un progetto nazionale crea una patria per tutti e al di sopra di tutti. È uno slogan che sentiamo ripetere spesso, ma che finora non abbiamo saputo realizzare. L’unione e l’uguaglianza non sono ancora sufficientemente realizzate. Esistono ancora fra noi discriminazioni o privilegi tra i cittadini a motivo della religione o della libertà. Nei nostri paesi addirittura esistono ancora ingiustizie, delitti, torture in detenzione per chi rivendica la libertà. Dobbiamo ricordare i mali che ancora esistono, per non dimenticare che non abbiamo ancora raggiunto la perfezione. Abbiamo ancora molto lavoro da fare per educare, formare e purificare.

Chi educa? Chi forma l’uomo nuovo?

15. Siamo paesi «religiosi». La religione ci ha divisi in passato e in alcuni casi e luoghi continua tuttora a dividerci. Perciò, come abbiamo già detto, i leader religiosi hanno la responsabilità di lavorare alla nuova educazione. Infatti o assicuriamo una formazione sincera, che dica chiaramente a ogni uomo e donna che ogni credente, anche di una religione diversa, è suo fratello e sua sorella, e tutti i cittadini sono fratelli e sorelle, oppure continueremo a dire che non siamo tutti uguali e che «tu sei migliore di tuo fratello». Questa è stata l’educazione religiosa impartita fino a ora, ed è stata per ciò stesso un terreno fertile per le discordie, le guerre civili e l’oppressione di chi fosse per un aspetto o per l’altro diverso.

Abbiamo bisogno di una nuova educazione religiosa e civile che dica a ognuno: tu sei anzitutto una persona umana, creata da Dio, e ogni altra persona diversa da te è, come te, creatura di Dio. Per la creazione noi siamo tutti fratelli e sorelle. E in patria siamo tutti uguali.

Abbiamo bisogno di un’educazione religiosa che ricordi sempre il comandamento di Cristo: «Amatevi gli uni gli altri» (cf. Gv 13,34) senza limiti. Gesù non dice: amate i vostri fratelli che credono come voi, dice: «Amatevi gli uni gli altri… amate il vostro prossimo come voi stessi» (cf. Gv 12,15; Gal 5,14). Il «prossimo» è ogni persona umana, senza limiti e senza classificazione.

Il capo religioso ha un ruolo determinante da svolgere in questa nuova educazione. È lui infatti a ispirare gli atteggiamenti assunti in famiglia, nella scuola e nella società. L’educazione in famiglia ha bisogno di purificarsi da ogni atteggiamento che rifiuta chi è diverso nella sua religione e dai pregiudizi del passato, trasmessi di generazione in generazione. La famiglia deve passare per una fase di purificazione, di cambiamento di mentalità e di comportamenti verso l’altro.

In tutta la società bisogna operare una conversione. I massacri, le guerre civili e le crudeltà degli ultimi anni non sono ancora terminati, e tutto questo richiede purificazione, conversione e un passaggio dalla morte alla vita.

Vi sono ancora persone che uccidono in nome di Dio, o che educano potenziali assassini basandosi su vecchi metodi educativi. Anch’essi per parte loro devono cambiare, per poter acquisire uno spirito nuovo ed educare uomini e donne capaci di amare e rispettare tutti quelli che professano una religione diversa.

Anche le nostre scuole private e pubbliche, le nostre università e i mezzi di comunicazione sono responsabili della nuova educazione, che dice a tutti: siamo tutti uguali in umanità e nella dignità che Dio ci ha dato. I responsabili delle scuole private e pubbliche devono chiedersi: che tipo di credente, cristiano o musulmano o druso, stiamo preparando? Che tipo di cittadino e che futuro prepariamo per il paese? Stiamo costruendo una società unita, compatta, nonostante le differenze religiose o partitiche, o stiamo alimentando il confessionalismo religioso o politico e preparando guerre civili in nome di Dio o del partito?

Che tipo di credenti vogliamo? Vogliamo credenti e cittadini forti e fraterni, che non opprimono nessuno e non si lasciano opprimere da nessuno. Credenti la cui forza sta nella loro capacità di amare e di opporsi a ogni aggressione contro loro stessi o contro gli altri.

III. Che cosa diciamo ai leader occidentali?

L’Occidente e la distruzione del Medio Oriente

16. Cominciamo con il distinguere i diversi volti dell’Occidente. In Occidente esistono popoli buoni e amici, civiltà antiche, molte realizzazioni umanitarie mondiali e molteplici organizzazioni di beneficenza e per lo sviluppo. Esistono anche Chiese amiche, la cui carità giunge fino a noi grazie alla loro solidarietà spirituale e materiale.

Ma in questo stesso Occidente (Europa e Stati Uniti d’America) esistono anche responsabili politici che prendono decisioni, che riguardano il Medio Oriente e tutti i nostri paesi, basate sui loro interessi economici e strategici a spese degli interessi dei nostri paesi. Indubbiamente i nostri popoli esigono delle riforme e un modo di vivere migliore, ma tra le loro attese non vi sono certamente le distruzioni causate in questi ultimi anni dalle ingerenze esterne.

L’umanità e i popoli della regione sono stati sacrificati, e lo sono tuttora, a favore degli interessi stranieri. Quasi tutti i nostri paesi sono passati per una fase di distruzione dovuta a forze interne, ma sostenute o pianificate anche da forze esterne. Questo è cominciato con la distruzione dell’Iraq e poi della Siria, e con l’indebolimento dell’Egitto. La Giordania e il Libano vivono sotto una minaccia permanente. Si sono creati dei conflitti o delle alleanze nello Yemen, nel Bahrein, in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo. E si sta preparando una guerra contro l’Iran. Ecco la realtà nella quale viviamo attualmente.

Questa politica di distruzione in Medio Oriente, guidata dall’Occidente, è anche la causa della morte e dell’emigrazione forzata di milioni di persone dai nostri paesi, compresi i cristiani.

Come conseguenza di questa politica è sorto il terrorismo e si è stabilito nei nostri paesi, prima di rivolgersi contro quello stesso Occidente che lo ha partorito. Il terrorismo è nato perché coloro che fanno la politica in Occidente sono ricorsi a esso come strumento efficace per cambiare il volto dell’Oriente. Con i loro alleati, nella regione, hanno creato lo Stato islamico, l’ISIS, con materiale umano locale, sfruttando l’estremismo religioso esistente e una comprensione deformata della religione. In altri termini hanno colpito le persone attraverso la loro propria religione. Con l’ISIS il terrorismo religioso ha raggiunto i limiti estremi della crudeltà e della disumanità.

Riguardo a questa distruzione che ha colpito l’Oriente, in Occidente molti, fra cui gli stessi politici, dicono che gli estremisti musulmani hanno ucciso i cristiani e il cristianesimo in Oriente sta scomparendo. L’immagine apparente e i fatti sembrano confermare ciò che dicono, ma in realtà gli estremisti musulmani che hanno ucciso dei cristiani hanno ucciso anche musulmani (sunniti e sciiti), yazidi, alawiti, drusi e tutti coloro che si opponevano loro. Tuttavia i veri assassini sono coloro che prendono le decisioni in Occidente, i quali, con i loro alleati nella regione, vogliono creare un nuovo Medio Oriente in conformità con le loro visioni e i loro interessi.

È vero che in Occidente i popoli amici hanno alzato la voce ed espresso la loro solidarietà con noi, e lo stesso hanno fatto le Chiese, ma per coloro che fanno la politica del Medio Oriente, noi, i cristiani, non esistiamo. A loro poco importa della nostra vita o della nostra morte. Perciò il pericolo che ci minaccia non è il fatto che Dio abbia voluto che noi, musulmani e cristiani, vivessimo insieme, nei nostri paesi. Il vero pericolo è l’Occidente politico, il quale pensa di essere autorizzato, per assicurare i suoi interessi, a distruggere i nostri paesi e a riorganizzarli a suo piacimento.

Appello: Israele e la pace nella regione

17. Chiediamo ai nostri popoli, alle Chiese e agli uomini e alle donne di buona volontà in Occidente di aprire gli occhi per vedere la tragedia creata nei nostri paesi dai loro leader, che continua tuttora a seminare la morte in mezzo a noi. Aprite gli occhi, comprendete ciò che avviene e correggete il male presente.

Ci rivolgiamo a coloro che prendono le decisioni. Vi chiediamo di cambiare la vostra visione e i vostri metodi d’azione. Invece di indebolire e distruggere la regione, trattate con i popoli, rispettando la loro dignità e la loro libertà, e imboccate la strada della vita e non della morte.

Lo Stato di Israele, se vuole sopravvivere e se l’Occidente vuole che sopravviva in mezzo a noi, deve soddisfare una sola semplice condizione: non volerlo fare a spese del popolo palestinese. L’amicizia del popolo palestinese con Israele è la porta della salvezza e della sopravvivenza dello Stato di Israele, e una condizione necessaria per una vera pace nella regione. E l’amicizia del popolo palestinese non è una cosa difficile. Essa chiede di trattare con lui sulla base della giustizia, dell’uguaglianza, delle risoluzioni internazionali e delle «esigenze» palestinesi, che sono il minimo che un popolo possa chiedere per esistere sulla sua terra. I palestinesi hanno riconosciuto lo Stato di Israele; ora quest’ultimo riconosca lo Stato palestinese sul restante 22% della sua terra, compresa Gerusalemme Est.

Considerate Gerusalemme città santa. Non trasformatela in una città di guerra. Essa è città santa per tre religioni e capitale per due popoli. Coloro che amano Gerusalemme ne fanno una città di pace. Ridate la pace a Gerusalemme, alla Palestina, a Israele e a tutta la regione.

Quanto a noi cristiani, il nostro futuro dipende dal futuro che voi decidete per la nostra regione. La nostra sorte è comune. La pace e la sopravvivenza dei nostri popoli sarà la nostra vita e la loro morte sarà la nostra morte, com’è avvenuto in questi ultimi anni.

Vivere insieme, cristiani e musulmani, è una questione che ci riguarda. Ma voi, che prendete le decisioni in Occidente, non sfruttate più l’estremismo religioso per seminare la discordia fra i popoli di questa regione e non incitate più un popolo contro l’altro, come accade oggi.

Conclusione

Come noi, cristiani del Medio Oriente,vediamo la nostra realtà

18. I cristiani d’Oriente sono parte integrante dell’Oriente con tutte le sue componenti. Non siamo un popolo o dei resti di popoli da isolare e separare nei nostri paesi. Cristiani d’Oriente, siamo oggi ciò che sono i nostri paesi e ciò che la storia ha fatto di noi nel corso di 15 secoli, a partire dall’VIII secolo. Siamo arabi e siamo i discendenti di molteplici civiltà antiche: assira, caldea, siriaca, copta, armena e bizantina. Abbiamo vissuto e viviamo ancora nei paesi arabi, che sono le nostre patrie. Con i musulmani formiamo un’unica patria e un’unica società.

E come abbiamo già detto, vivere insieme, musulmani e cristiani, è la volontà di Dio per noi. Insieme siamo una parte essenziale della regione e del suo destino.

La questione cristiana, o il futuro dei cristiani, non è quindi solo una questione cristiana, ma una questione che riguarda l’intera regione, i suoi cristiani, i suoi musulmani e i suoi drusi.

L’ISIS, introdotto dallo stesso Occidente, ha sconvolto la situazione e le visioni. Attualmente sembra che l’ISIS abbia concluso il mandato che gli è stato assegnato da coloro che lo hanno creato, perché la distruzione generale è ormai missione compiuta. Sul terreno l’ISIS sta scomparendo, ma vi ha lasciato tracce profonde nelle menti. Ha lasciato una tensione quasi mistica che spinge a combattere l’infedele in tutti i modi possibili, chiunque esso sia e in ogni luogo, da noi come in Occidente, che lo ha appoggiato solo per demolire l’Oriente. L’Occidente si trova a essere vittima della sua propria politica.

Da noi questo spirito non cessa di destabilizzare l’equilibrio relativo costruito nel corso dei secoli. Dopo l’ISIS, noi musulmani e cristiani nella regione ci troviamo davanti a una sfida comune. Insieme vi facciamo fronte. Insieme vediamo la necessità di una nuova educazione umana, civica e religiosa, basata sulla fede in Dio e sul fatto che ogni persona umana è creatura di Dio.

A chi indirizziamo questa lettera?

19. Indirizziamo questa lettera ai nostri fedeli, a tutti i nostri concittadini, cristiani, musulmani e drusi, all’Occidente politico e a Israele.

Ai nostri fedeli ripetiamo: restate saldi nella vostra fede e nelle vostre patrie. Contribuite alla loro costruzione, sia che vi restiate sia che siate costretti a lasciarle. Noi siamo un’infima minoranza. Ma Cristo ci dice sempre che siamo «sale, luce e lievito», e noi siamo una Chiesa di martiri. Credete, amate – come Dio ama – tutta la sua creazione. Siate dei credenti forti per il vostro amore, e siate dei costruttori della vostra patria insieme a tutti i vostri compatrioti, partecipando alle sofferenze e ai sacrifici per assicurarvi la prosperità e la vita. Siate il cuore dei vostri paesi, artefici della storia di ognuno di essi, quale che sia la crudeltà dei tempi e degli uomini.

Alla vostra domanda: «Davanti alla morte come dobbiamo comportarci?», noi rispondiamo: i nostri martiri hanno dato la loro vita per la gloria di Dio e per più amore e umanità nei nostri paesi, diventati terre di morte e di assassini. I nostri martiri hanno sparso il loro sangue affinché, per la forza e il merito del loro sangue, anche gli assassini, vicini o lontani e nascosti, possano ritrovare la loro umanità, come Dio li ha creati, capaci di amare, non di uccidere.

Infine i nostri martiri ci invitano ad ascoltare le parole di Cristo redentore che ci guida e ci conferma nella nostra fede: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo! … Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 16,33; 14,27).

A noi stessi, cristiani, musulmani e drusi, ripetiamo e confermiamo che la volontà di Dio per noi è di vivere insieme e di continuare a cercare le strade migliori per vivere insieme, pienamente consapevoli di essere sempre in cammino e del fatto che la strada davanti a noi è ancora lunga.

Invitiamo cristiani, musulmani e drusi ad assumere ognuno la propria responsabilità nella ricostruzione dei nostri paesi e nel modo di trattare con l’Occidente, resistendo alla distruzione e alle divisioni che ci si vuole imporre.

Ripetiamo la necessità di rinnovare l’educazione religiosa, nella famiglia, nella scuola e nella parrocchia, affinché formi persone aperte in grado di vedere Dio e tutti i figli di Dio, in ogni religione.

Anche i capi religiosi musulmani e drusi hanno un ruolo fondamentale nella ricostruzione. Essi devono lavorare per porre rimedio alle cause della mentalità religiosa estremista e per rinnovare il discorso religioso. Hanno il dovere di assicurare un’educazione che miri a formare la persona umana nuova e a promuovere lo spirito di condivisione, amicizia e rispetto del pluralismo religioso e intellettuale.

In questa nuova fase della nostra storia, desideriamo vedere realizzata la fraternità fra i musulmani nei paesi dell’islam. Ne attendiamo un messaggio comune rivolto al mondo arabo, musulmano e cristiano, e a tutto l’Occidente. Un messaggio che rechi una visione nuova e una vita nuova richieste dalla nuova fase storica che stiamo vivendo.

È tempo che insieme, cristiani, musulmani e drusi, prendiamo in mano il nostro destino, confermiamo la nostra unione e la nostra collaborazione, di fronte ai piani politici esterni e di fronte a un passato che ha conosciuto il rifiuto dell’altro e al quale purtroppo alcuni restano ancora aggrappati.

È tempo di diventare credenti e cittadini che vedono Dio e tutti i nostri fratelli come Dio li vede e li abbraccia nel suo amore e nella sua misericordia.

All’Occidente politico e a Israele ripetiamo che vivere insieme è possibile. Se continuate sulla strada della morte, la morte finirà per inghiottirci tutti, voi e noi.

Cambiate la vostra politica di distruzione verso i nostri paesi e verso noi cristiani d’Oriente. Abbiate visioni nuove, di vita e di rispetto per i popoli della regione. La vita è possibile. La pace è possibile. Uscite dai vostri interessi per vedere anche voi Dio che vi ha creati e vi chiama a rispettare i popoli.

Infine, la pace a Gerusalemme e in Palestina-Israele è la chiave della pace nella regione e anche per l’Occidente. La pace è possibile se le intenzioni sono sincere e se c’è la volontà di fare la pace.

Noi abbiamo bisogno di un Medio Oriente nuovo, non fatto da altri ma da noi stessi e che non consiste nel cambiare o spostare i confini o i popoli, ma nel rinnovare i cuori.

L’Oriente sarà rinnovato dai suoi popoli senza che l’Occidente imponga loro i suoi piani. Un Oriente fatto dai suoi figli, padroni a casa loro, musulmani, cristiani e drusi. Tutti uguali, senza che nessuno imponga il suo dominio sull’altro a livello religioso, politico o militare.

In questo progetto, i cristiani offrono, come gli altri, il loro contributo per la nuova creazione, per un mondo nuovo nel quale abbondano il bene, la ragione, l’amore e la collaborazione fra tutti i cittadini e con i paesi del mondo.

Per questo preghiamo: «Signore, manda il tuo Spirito e rinnova la faccia della nostra terra» (cf. Sal 104,30) e cambia i cuori degli uomini.

In questo tempo di Pentecoste, domandiamo a Dio di colmarci tutti del suo Spirito, di ispirarci tutti, cristiani, musulmani e drusi, insieme con l’Occidente e con Israele, in modo che diventiamo tutti artefici di pace e costruttori di un’umanità animata dall’amore, in Medio Oriente e nel mondo intero.

«Signore, manda il tuo Spirito e rinnova la faccia della nostra terra».

Seguono le firme*

* Ibrahim Isaac Sedrak, patriarca di Alessandria dei copti; Mar Béchara Boutros card. Raï, patriarca di Antiochia dei maroniti; Ignace Youssif III Younan, patriarca di Antiochia dei siri; Joseph Absi, patriarca di Antiochia dei greco-melkiti; Mar Louis Raphaël Sako, patriarca di Baghdad (Babilonia) dei caldei; Grégoire Pierre XX Ghabroyan, patriarca di Cilicia degli armeni; William Shomali, rappresentante di mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme.

“La Chiesa non può restare in silenzio”

Riprendiamo il discorso alla città tenuto lo scorso 15 luglio 2018 da mons. Corrado Lorefice, arcivescovo metropolita di Palermo, dal sito ufficiale della diocesi. Al discorso di Lorefice si riferisce un articolo delWashington Post che sottolinea come la Chiesa cattolica rappresenti al momento l’unica coscienza critica nel dibattito pubblico italiano a proposito della questione dei migranti.

lorefice e orlando

Corrado Lorefice e Leoluca Orlando dopo la messa di santa Rosalia

Care palermitane, cari palermitani,

è la sera della nostra festa, della festa di Palermo – la nostra Palermo – e il mio primo pensiero è quello di salutarvi con affetto: da padre, da fratello, da cittadino di questa città, con voi e come voi. Benvenuti in questa piazza!

Vengo qui a parlarvi da padre e da pastore, ma sento profondamente di essere sulla vostra stessa barca, toccato dai tanti dolori della nostra terra, in cerca come voi di speranza e di verità. Da questo punto di vista, il Festino deve rappresentare per noi un momento di gioia, di condivisione, ma non di evasione e di estraneazione dalla realtà. Non è tempo di dormire, ma di stare svegli! È tempo di guardare con gli occhi ben aperti a quelli che papa Giovanni XXIII chiamava «i segni dei tempi». Che cosa sono i segni dei tempi? Sono gli eventi della storia concreta delle donne e degli uomini d’oggi che ci parlano, ci chiamano a un cambiamento, interpellano la Parola di Dio che delle nostre esistenze custodisce il senso e la speranza. Vorrei stasera comunicare a tutti voi l’appello che riguarda noi, credenti della Chiesa di Palermo, e – perché no? – tutti voi, convenuti qui, donne e uomini di buona volontà uniti in una ideale assemblea della nostra città, nell’affetto antico e sempre nuovo per Rosalia.

Ecco, c’è un’immagine tipica della festa della nostra santa che stasera mi pare illuminante. È l’immagine della nave, del vascello che portiamo per le strade di Palermo e che ci ricorda la salvezza dal flagello della peste grazie ad un volto, apparso ad una donna semplice, in un momento terribile della vita della nostra Città. Sentiamoci stasera tutti «imbarcati» su questa nave di Rosalia e alziamo lo sguardo verso coloro che possono rappresentare un punto di riferimento, offrirci una guida nella tempesta epocale del nostro tempo. Sono testimoni del passato che hanno ancora parole buone per il presente. Il vascello è uno solo, ma ha tre forme che vorrei mettere in luce separatamente, con voi, stasera.

La nave di Palermo

La prima nave a cui penso, la prima forma del vascello è quella della nostra città: è la nave di Palermo. Care amiche, cari amici: quanto si avverte la fatica della navigazione su questo nostro veliero! Il mare è perennemente agitato, e ci sentiamo come i discepoli sulla barca sorpresa dal turbine durante la traversata verso l’altra riva, mentre Gesù se ne sta tranquillamente in un cantuccio, a dormire (cf. Mc 4, 35-41).

È proprio così. Abbiamo paura. Siamo angosciati. E Dio dorme, Dio sembra assente, lontano. E anche se lo sfidiamo, come fece Pietro sulla barca agitata dalle onde, vedendo Gesù camminare sull’acqua («Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque», Mt 14, 27), poi ci sentiamo affondare in mezzo ai marosi, e la paura prevale («ma per la violenza del vento si impaurì e, cominciando ad affondare, gridò», Mt 14, 30). Vedete: il Vangelo non nega la paura. Non è un libro per superuomini. È bellissimo come i racconti che riguardano Gesù di Nazareth tengano sempre conto della nostra fragilità. In un biglietto, l’altra sera in cattedrale durante la veglia dei giovani, sulle orme della giovane Santa Palermitana, – celebrata con gioiosa determinazione, nonostante l’irruzione di «iene» arroganti e mistificanti – uno di loro ha scritto: «Ho paura della paura». Non è della paura che dobbiamo avere paura.

Non sono la paura e l’angoscia che dobbiamo negare, facendo finta che non ci siano. È vero, siamo impauriti qui, in questa nostra patria meravigliosa, perché il lavoro manca, drammaticamente e, a volte, tragicamente; perché i nostri giovani perdono la speranza e si sentono costretti a partire, privandoci della loro presenza, della loro giovinezza forte e creativa; perché nelle nostre periferie cresce il disagio, aumentano i poveri. Ma è così difficile dare voce alle periferie… Il giogo della mafia e di tutte le mafie – penso alla malavita, alla mentalità mafiosa – stringe il nostro territorio, penetra nelle nostre case, inquina la vita sociale, si incunea nella politica, persino in alcuni ambienti ecclesiali, con una tracotanza che ci lascia attoniti. È vero, abbiamo paura, ma dobbiamo dircelo insieme, perché le paure non vissute assieme provocano frammentazione e aggressività.

Non rassegniamoci!

Cari cittadini, care sorelle, cari fratelli di Palermo, guardiamo in faccia la paura, poiché il vero grande pericolo non è la paura, ma è la rabbia, è la rassegnazione, è l’evasione. Se infatti assumiamo da adulti le nostre paure, potremo assieme costruire qualcosa, anzitutto riconoscendo chi punta a cavalcarla questa paura, ad approfittarne per il suo misero successo personale. E sono tanti! Pronti a fare dei reali bisogni della nostra terra un uso interessato, ideologico, al fine di creare il nemico da combattere, al fine di condurre battaglie inesistenti per ergersi a capi e a paladini.

Cari amici, non lasciamo in mano a nessuno il nostro destino, non lasciamoci manipolare, prendiamo in mano la nostra vita, la vita e il futuro della nostra città! Chiunque ha a cuore tutto questo non cerchi risposte semplici, salvatori di comodo, cesari di passaggio. Da questo vascello guardiamo ai nostri testimoni, ai nostri martiri, che possono davvero indicarci le strade per soluzioni creative e partecipate.

Alziamoci in piedi!

Lo sappiamo tutti: è il venticinquesimo anniversario della morte di don Pino Puglisi. Il suo messaggio deve risuonare a Palermo. Don Pino diceva che «è tempo di rimboccarsi le maniche», di passare «dalle parole ai fatti», di fare una proposta diversa rispetto alla «cultura dell’illegalità» promossa dai mafiosi, di adottare un nuovo «stile di vita».

E Libero Grassi, morto come lui per mano della mafia, da testimone umile e forte della verità, ricordava che non è la quantità del consenso elettorale che fa la democrazia: non si è uomini della polis, uomini «politici» forti solo se si prendono tanti voti alle elezioni. Ciò che conta – diceva Grassi – è la qualità del consenso: ovvero la sua libertà, la sua convinzione, il suo essere frutto di una scelta e di un pensiero. Per questo sono morti i martiri palermitani della mafia, per questo è morto Piersanti Mattarella, che stasera vorrei ricordare con affetto e gratitudine.

Mi rivolgo anzitutto alle giovani e ai giovani di questa piazza: ad aiutarvi nella verità non è il politico che vi promette favori, il prete che vi raccomanda, il potente che vi chiede in contraccambio il sacrificio della vostra libertà, non è chi vi dice che risolverà in modo semplicistico e sommario i vostri problemi! Ad aiutarvi è chiunque vi ricordi la bellezza di essere giovani, chiunque abbia rispetto e fiducia in voi, chiunque sia disposto a fare un passo indietro per cedervi strada, chiunque rinnovi in voi la forza dello stare assieme, la speranza di trovare vie nuove, la gioia di vivere passioni non tristi ma vibranti perché fatte di partecipazione e di dono. A darvi una mano sono coloro che vi dicono che un mondo diverso è possibile e che la forbice tra chi ha e chi non ha può essere annullata da un pensiero di autentica condivisione.

Care palermitane, cari palermitani, alziamoci in piedi! Non restiamo curvi, perché la nostra terra avrà un futuro se avremo la pazienza, il coraggio, la forza di costruirlo assieme. Questo deve significare “Palermo capitale della cultura”. Dobbiamo essere il baluardo della cultura, della nostra grande tradizione, contro l’anti-cultura della mafia che scommette sul fatto che la Sicilia, come temeva e gridava Leonardo Sciascia, sia “irredimibile”. Ma guardando il volto di don Pino (e dei tanti suoi fratelli ideali) facendoci carico della paura e del bisogno, mettendoci assieme, creando nuovi spazi di cura della polis, oltrepassando le secche dell’individualismo e della sfiducia, possiamo arrivare in porto. Coraggio!

Italia: la seconda nave

Sì, assieme, in porto. È una parola questa che vale anche per il vascello della nostra Italia. Come Palermo, pure l’Italia soffre. Lo dicevamo. La paura e la povertà, se non ascoltate, se non interpretate e raccolte, creano diffidenza, isolamento, disillusione, frattura. Questo dovrebbe essere il compito della politica, della scuola, delle nostre parrocchie: rompere l’isolamento, ascoltare il grido, raccontare il dolore, la fatica di vivere, e darle senso.

Oggi a questo compito spesso veniamo meno: viene meno la politica, che usa il disagio e non se ne fa carico; viene meno la Chiesa, quando riduce la fede ad una devozione individuale, che non investe tutta la vita e non si fa fonte di autentica comunità. Un’illusione pericolosa si sta diffondendo: che la chiusura, lo stare serrati, la contrapposizione all’altro siano una soluzione, siano la soluzione. Ma una civiltà che si fondi sul mors tua, vita mea, una civiltà in cui sia normale che qualcuno viva perché un altro muore, è una civiltà che si avvia alla fine.

È questo che vogliamo? In verità, la fortissima globalizzazione, contro le sue stesse intenzioni, ha reso l’umanità una totalità in cui il destino di uno, di un gruppo, di un popolo, condiziona la vita e il destino di tutti. Come in una famiglia. E chi di noi, chi di voi vorrebbe star bene dentro la sua famiglia al prezzo del disagio degli altri suoi familiari? Quale madre, quale padre potrebbe sentirsi felice, sereno, se gli altri membri della famiglia soffrono e vivono nell’indigenza!

La felicità costruita e mantenuta sull’infelicità degli altri è perversa e menzognera, pronta in breve a rivelarsi tale. Lo sappiamo bene, per esperienza. Emmanuel Levinas in una intervista dichiarava: «L’altro uomo, che innanzitutto, fa parte di un insieme, che sostanzialmente mi è dato come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in qualche modo da tale insieme precisamente con la sua comparsa come volto, che non è semplicemente una forma plastica, ma è immediatamente un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al servizio di questo volto, non solamente questo volto, servire l’altra persona che in questo volto mi appare contemporaneamente nella sua nudità, senza mezzi, senza protezioni, nella sua semplicità, e al tempo stesso come il luogo dove mi si comanda. Questa maniera di comandare, è ciò che chiamo la parola di Dio nel volto».

Responsabili gli uni degli altri

Il patrono della nostra Italia, Francesco d’Assisi, a cui vogliamo guardare stasera dal nostro vascello, propugnava e difendeva la fraternitas. Per Francesco, nel Cristo fratello, diventano fratelli sia il lebbroso esiliato fuori dalla città, sia il vicino di casa, il prossimo più prossimo. Per Francesco, cioè, la fraternità significa che siamo tutti figli, tutti sullo stesso piano, responsabili gli uni degli altri, legati reciprocamente con un vincolo inscindibile.

Quello che ci raduna in nome di un Padre e ci raccoglie alla fine tra le braccia di una terra madre. La paternità di Dio per Francesco infatti era il principio di una nuova nascita: non la nascita di un popolo di figli omologati, ma di un popolo di diversi, di donne e di uomini che si riconoscono diversi e per questo si rispettano, per questo si accolgono, per questo imparano anche a dissentire, a discutere, sapendo che la relazione è l’unica strada.

Fratelli diversi, ma fratelli. E quanto questa parola bellissima – fratello! – appare settaria se non indica una apertura totale a tutti, al più vicino e al più lontano! Ripartiamo da qui, dalla parola e dall’esempio del patrono d’Italia Francesco d’Assisi. Non per nulla l’attuale vescovo di Roma, il santo padre Francesco, ha scelto questo nome come programma del suo pontificato. E a lui stasera va il nostro pensiero grato e affettuoso per la visita a cui vogliamo prepararci con un «salto» di fraternità e di attenzione ai poveri, ai fratelli «minori», a tutti i bambini di Palermo.

Sono convinto, d’altronde, che non c’è facinoroso, non c’è politico, non c’è uomo pubblico catturato da slogan e da semplificazioni, che non porti dentro di sé quel tesoro di pace e di bene che Francesco augurava, quel nucleo profondo di umanità che ci rende legittimamente diversi, ma mai nemici. «San Francesco – ci ricorda il santo padre – è stato un grande missionario di speranza».

Europa: la terza nave

È il messaggio che dobbiamo portare anche sulla nave dell’Europa, la nave che tutti ci comprende in virtù di una geniale intuizione dei nostri padri.

La logica del «prima noi» mostra in questa Europa tutta la sua fallacia. Rischiamo fratture insanabili proprio perché ogni paese europeo comincia a ritenere che il suo benessere venga prima, senza capire che se la casa comune si distrugge tutti resteremo all’addiaccio, privi di un tetto. È la miopia dell’egoismo politico, propugnato da governanti e da politici europei che spesso si vantano – soprattutto nell’Est – di costruire regimi privi delle garanzie e fuori dai confini minimi della democrazia.

Di fronte a tutto questo, care sorelle e cari fratelli, la Chiesa non può restare in silenzio, io non posso restare in silenzio. Perché la Chiesa non ha alternative. Essa è stata collocata dal suo Signore accanto ai poveri e ai derelitti della storia, e tutte le volte che è uscita – e quante volte è successo – [è uscita] da quel posto per mettersi accanto ai forti, ai ricchi, ai potenti, ha perso il senso stesso del suo essere.

Da giovane padre costituente, uno dei sognatori dell’Europa e del mondo uniti, Giorgio La Pira, nostro conterraneo, nato a Pozzallo – a cui vi invito a guardare stasera dal vascello dell’Europa – faceva delle «attese della povera gente» il suo faro e la sua guida, contro ogni esaltazione del mercato senza regole, dell’individualismo economico. E questa convinzione, animata in lui da una fede profonda nell’Evangelo, se la portò appresso a Firenze, dove fu il sindaco dei poveri, dei disoccupati, degli ultimi.

Oggi La Pira ci inviterebbe a guardare alle tante navi che dirigono la loro prua verso l’Europa come alle navi della speranza. La speranza della povera gente che cerca protezione e vita buona, ma soprattutto la nostra speranza. Perché se fermiamo le navi dei poveri, se chiudiamo i porti, siamo dei disperati. Disperiamo della nostra umanità, disperiamo della nostra voglia di vivere, del nostro desiderio di comunione. Purtroppo l’informazione che ci giunge attraverso i mass media è spesso monca e distorta.

Voglio essere chiaro con voi, stasera. Tutti dobbiamo sapere che lungo i decenni e soprattutto in questi ultimi trent’anni l’Africa – che è il continente più ricco del mondo – è stata sfruttata dall’Occidente, depredata delle sue materie prime. Ce le siamo portate via, anzi le multinazionali l’hanno fatto per noi, senza pagare un soldo. E abbiamo tenuto in vita governi fantoccio, che non fossero in grado di difendere i diritti della gente. Le potenze occidentali mantengono inoltre in Africa una condizione di guerra perenne che rende più facile lo sfruttamento e consente un fiorente commercio di armi.

Noi sappiamo, e siamo responsabili

Care amiche, cari amici, siamo noi i predoni dell’Africa! Siamo noi i ladri che, affamando e distruggendo la vita di milioni di poveri, li costringiamo a partire per non morire: bambini senza genitori, padri e madri senza figli.

Un esodo epocale si abbatte sull’Europa, che ha deciso di non rilasciare più permessi per entrare regolarmente nel nostro continente. E allora questo esercito di poveri, che non può arrivare da noi in aereo, in nave, in treno, prova ad arrivarci sui barconi dei trafficanti di uomini, dopo due anni di viaggio allucinante nel deserto e di detenzione in Libia.

Cari cittadini, devo gridare stasera questa verità: quelli che vengono chiamati centri di smistamento, di detenzione, quei centri che i nostri governi sollecitano e finanziano per «bloccare» il flusso migratorio, spesso richiamano i campi di concentramento. E se settant’anni fa si poté invocare una mancanza di informazione, oggi no. Non lo possiamo fare, perché ci sono le prove, nella carne martoriata di questa gente, nei filmati, nei reportage di giornalisti coraggiosi (mentre giornali e telegiornali di altra fatta parlano dei migranti sulle navi come di un «carico» alla maniera delle merci e delle banane!).

Noi sappiamo, e siamo responsabili. E dobbiamo levarci! Giorgio La Pira era un uomo del Sud e non si scordò mai di esserlo. Noi, qui da Palermo, stasera, alziamo la nostra voce. Noi che sappiamo che cosa vuol dire essere migranti. Noi che abbiamo visto i nostri padri e i nostri nonni costretti a lasciare la loro casa, rifiutati, umiliati, buttati fuori da case e locali perché siciliani, perché italiani. Noi sappiamo e non taciamo. Cosa abbiamo fatto e cosa faremmo al posto di queste donne, di questi uomini, di questi bambini, in fuga dal nulla e dalla morte? Se fossero i nostri figli, i nostri parenti ad essere in pericolo di vita, senza cibo e assistenza, se fossero torturati e stuprati, che cosa faremmo? Una nuova epocale trasmigrazione dei popoli sta accadendo davanti ai nostri occhi, e abbiamo bisogno di chiarezza e di umiltà per capire quale società vogliamo costruire, quale risposta intendiamo dare ai segni dei tempi.

L’Europa è la civiltà della contaminazione

Geograficamente non esiste. Il Mediterraneo è la sua culla. La Pira lo sapeva e a rendere il Mediterraneo un lago di pace dedicò gran parte della sua opera lucidissima e visionaria. Perché credeva che il Vangelo non è un’utopia, ma una regola, una forma di vita.

Paolo VI, ormai santo, diceva che l’eucaristia contiene la forma vitae dei popoli. La stessa cosa di cui era convinto Benedetto da Norcia, patrono d’Europa: «Benedetto da Norcia – dichiara Benedetto XVI – con la sua vita e le sue opere ha esercitato un impulso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea». Il Vangelo rivela il suo DNA se diventa forma vitae, se diventa una carta dei diritti che garantisce la difesa degli ultimi.

Ed è questo messaggio che stasera vogliamo lanciare dal vascello di Palermo verso le navi d’Italia e di Europa. Non è questione di accoglienza, non si tratta di essere buoni, ma di essere giusti. Non di fare opere buone, ma di rispettare e, se necessario, ripensare il diritto dei popoli. È in nome del Vangelo che ogni uomo e ogni donna hanno diritto alla vita e alla felicità, perché «non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero in Cristo Gesù» (Gal 3,28), perché il nostro Signore, morendo sulla croce, ha abbattuto – dice ancora Paolo – ogni muro di separazione tra gli uomini.

È questa la forma di vita in cui il Vangelo deve incarnarsi per non perdere la sua concretezza storica, quella che gli viene da Gesù di Nazaret, figlio di Maria, custodito da Giuseppe. Gesù di Nazaret nostro fratello che è venuto ad annunciarci che Dio è Padre suo e Padre nostro e che ci ha donato il Suo Spirito, il vero amore che unisce ogni «diversità». Lo Spirito, infatti, tutti unisce perché comprende ogni linguaggio. È questa la «forma» del Vangelo che deve diventare sostanza viva, e che proprio in Italia lo è diventata, settant’anni fa, nei principi fondamentali della nostra Costituzione.

Nella Costituzione Europea

Forse vi ricorderete che due anni e mezzo fa, rivolgendomi a voi per la prima volta, ritenni di dover citare il terzo articolo della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Cari amici, care amiche, quel che i padri avevano intuito, oggi deve diventare il nostro manifesto, la nostra carta fondativa di cittadini e di cristiani.

Giuseppe Dossetti, il 21 novembre 1946, propose all’Assemblea Costituente di scrivere così nella Costituzione della Repubblica: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino». Riprendendo la sua ispirazione, leviamo stasera la nostra voce perché si scriva finalmente l’articolo 3 della Costituzione Europea, l’articolo del diritto di ogni uomo ad essere uguale, ad essere membro della città degli uomini, ad essere libero di vivere e di stare nel mondo, con dignità e fierezza. Scriviamolo questo articolo noi, sin d’ora, nelle nostre vite e nei nostri atti quotidiani, e chiediamo che al posto della miopia dei piccoli diritti esclusivi, riservati a pochi, che preparano un futuro di dolore e di guerra, si scriva il grande diritto della pace e del bene per tutti, l’unico diritto che ha la forma del Vangelo.

«Il tema che si è voluto dare al Festino di quest’anno “Palermo bambina” ci indirizza perché possiamo guardare la città degli uomini a partire dai più piccoli, cioè dai bambini». Ed è questa la scommessa di una nuova civiltà: una civiltà dove nessun bambino venga educato a vedere nel diverso un nemico, una civiltà dove i governanti abbiano la passione per gli ultimi e per il rispetto della vita, di ogni vita, una civiltà dove ogni uomo impari, al termine della sua giornata, della sua esistenza, ad ascoltare la voce che viene da lontano, la voce del cuore, che grida: Adam, tu, uomo, dimmi dov’è tuo fratello!

Maria Santissima, la madre di Gesù, costretta a fuggire in Egitto a causa del despota Erode, la prima madre profuga col primo bambino profugo dell’era cristiana, con santa Rosalia ci precedano verso una ritrovata rotta di solidarietà e di pace! Viva Palermo e santa Rosalia!

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Le Chiese e l’economia

Il presidente del SAE Piero Stefani in apertura della 55a sessione nazionale

Un’edizione coraggiosa, quella appena conclusa del tradizionale appuntamento di mezz’estate del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE). Non solo e non tanto perché portare avanti le istanze delpopolo del dialogo in un contesto sociale come quello italiano di questi mesi affannati risulta tutt’altro che spontaneo, dato indubbio, ma soprattutto per il tema scelto, delicato e ostico di suo:Le Chiese di fronte alla ricchezza, alla povertà e ai beni della terra. Si trattava, dunque, sulla scorta di un suggestivo richiamo autobiografico paolino («So essere nell’indigenza, so essere nell’abbondanza», Fil 4,12), di fare i conti con l’economia, elemento tanto pervasivo quanto imperscrutabile della nostra vita quotidiana. Mentre il suo rapporto con i mondi religiosi, inoltre, appare evidente ma anche ambiguo, e spesso più opaco che trasparente.

Ecco il motivo per cui, al SAE, si è correttamente deciso che questa sarebbe stata la prima tappa di un percorso destinato a protrarsi fino alla prossima estate, alla sessione 2019. Con questa sessione l’associazione fondata ancor prima del Vaticano II da Maria Vingiani, reduce dall’assemblea straordinaria di aprile finalizzata ad una revisione statutaria che ne ha ribadito il carattere laicale e la vocazione a sviluppare la cultura del dialogo, ha infatti aperto un’agenda coraggiosa e in parte inedita con l’apporto di voci cristiane delle più diverse confessioni, ebraiche e diversamente credenti.

Era la 55ª edizione e, come al solito, ha rappresentato una cartina di tornasole preziosa per fare il punto sul movimento ecumenico nazionale, in particolare su quello di base, che opera nelle Chiese locali e, pur senza i riflettori dei grandi media, sta attraversando una stagione abbastanza consolante.

Si è svolta, come da un triennio a questa parte, in una location classica per appuntamenti simili, la Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli/Assisi, dal 29 luglio al 4 agosto, con circa duecento partecipanti giunti da tutt’Italia, in un clima sereno e positivo, con tanta voglia di incontrarsi e di raccontarsi.

Non sono mancati momenti esterni: ad Assisi, martedì 31, una preghiera mattutina alla basilica di San Francesco e due interventi sul tema economia e finanza al Monte Frumentario, antico istituto nato per rispondere alle esigenze creditizie degli agricoltori; e, sempre martedì, i Vespri ortodossi celebrati al santuario di Rivotorto.

Povertà e ricchezza: problema antico

Molti, dunque, gli stimoli offerti dalle giornate del SAE. Il primo dei quali, probabilmente, è stato l’invito a leggere, a studiare, a informarsi, decostruendo la vulgata secondo cui dai problemi dell’economia non ci si possa che difendere, come da attacchi demoniaci di fronte ai quali ci si sente forzatamente impotenti. Anche per questo, rinuncio a tentare di fornire un resoconto puntuale degli intensi lavori (rimandando al riguardo al volume degli atti, pronto fra qualche mese come da felice abitudine), limitandomi a riportare alcuni degli spunti emersi, in plenaria ma anche nei laboratori, con l’intento di condividere almeno il clima generale della sessione. A partire dalla riflessione biblica introduttiva, affidata al presidente del SAE, Piero Stefani, che ha preso le mosse dalla doppia immagine biblica della spiga rigogliosa e della spiga gracile.

A suo parere, il nostro mondo è riflesso in qualche modo in quella doppia immagine: non solo a livello planetario ma anche nella società italiana, in cui oltre quindici milioni di persone sono in stato di povertà.

E non c’è solo una povertà materiale con cui confrontarsi, ma anche quella culturale. Se i presenti alla sessione non possono dirsi poveri, tuttavia «il movimento ecumenico rappresenta una piccola realtà rispetto al mondo», sia per dimensione quantitativa sia come capacità di incidere sulla realtà globale: «Da decenni l’ecumenismo propone una triade che fa da sfondo anche al nostro incontro: giustizia, pace, salvaguardia del creato. È un impegno perseguito con costanza e sincerità, ma quanto ha influito sulla situazione del mondo? Quanto ha cambiato gli stili di vita e le mentalità?».

Sussiste una difficoltà delle Chiese storiche, almeno in Occidente, di essere punti di riferimento vivi per la maggioranza delle persone in un panorama di comunità ecclesiali sovente poco sensibili, se non addirittura avverse all’ecumenismo.

Cristiane e cristiani sono chiamati, secondo il biblista ferrarese, «ad aver fiducia nell’azione dello Spirito, ma anche a essere consapevoli che i chicchi di frumento non hanno in loro stessi la capacità dicrescita del granello di senape simbolo del regno».

L’immagine delle due spighe desunta dai sogni del faraone nel libro del Deuteronomio richiama l’interpretazione di Giuseppe e le sue scelte politiche come viceré d’Egitto. Una storia che, secondo Stefani, svela la complessità della materia: «La Bibbia, quando prende in considerazione l’ambito della politica economica, mostra aspetti ambivalenti legati a complessità di situazioni che, per quanto solo narrative, sono accostabili a circostanze reali nelle quali si è di frequente costretti ad assumere scelte opinabili anche nel caso in cui siano mosse da rette intenzioni». Come si è sottolineato in parecchi degli interventi assisiati, quello di ricchezza e povertà, in realtà, è un tema antico, presente fin dal sorgere delle prime comunità cristiane, ma – pur rifacendosi alla stessa fede – nella storia delle Chiese le linee di condotta assunte in questo campo sono state non di rado diametralmente opposte; anzi, forse in nessun altro ambito sono convissuti e convivono orientamenti e prassi tanto divergenti, senza che nessuna di esse sia riuscita a prevalere in modo definitivo.

È una prospettiva su cui, si è rilevato a più riprese, occorre riflettere. Non è dato abitare sulla terra e camminare nella storia senza beni: il problema è come gestirli. Tuttavia, ciò che si scopre quando si guarda con sincerità al proprio particulare vale anche per le comunità ecclesiali: e spesso è arduo trovare una linea di confine che separi l’eccessivo dal limitato, l’opportuno dallo sconveniente e, in qualche caso, anche il consentito dall’illecito.

Nelle situazioni concrete le scelte specifiche, anche se mosse da buone intenzioni, sono di frequente contraddistinte dal chiaroscuro.

Economia e religione

Del resto, esiste a ben vedere addirittura una certa connessione fra economia e soteriologia: dopol’economia della salvezza (Eusebio di Cesarea) e l’economia come salvezza (Max Weber), le successive crisi e i tentativi degli stati di sostenere banche e investimenti privati starebbero ora a indicare la necessità vitale di salvezza dell’economia (Patrick Viveret). Anche se, visti gli squilibri sociali tremendi tuttora esistenti fra popoli, paesi, uomini e donne, è doveroso chiedersi: è davvero questa economia, caratterizzata da capitalismo e liberismo all’apparenza trionfanti, che dovremmo cercare di salvare? Vale la pena, almeno, di dubitarne.

Ma non è tutto. Infatti, la relazione profonda fra economia e religione non è una caratteristica del (cosiddetto) Occidente: al contrario, la razionalità moderna ha cercato di separare questi spazi, così unificati o simbiotici nelle culture (cosiddette) premoderne.

Intanto, anche in Occidente, l’economia e la religione – il cristianesimo nelle sue varie forme, ma non solo – conservano molte interfacce e interpretazioni di dogma e di mistica.

Piero Stefani con don Erio Castellucci e Lidia Maggi

Piero Stefani con don Erio Castellucci e Lidia Maggi

Ce n’è abbastanza per ammettere l’intrico profondo, non privo di ambiguità (il vangelo, ad esempio, non propone certo modelli economici specifici), fra religioni ed economia. Walter Benjamin, nel 1921, scriveva che il capitalismo non aveva più bisogno di un sostegno ascetico perché era diventato esso stesso una religione cultuale, senza teologia e dogmatica, senza tregua né pietà, che produce colpa e debito. Mentre oggi le religioni si trovano di fronte a un capitalismo e a un neocolonialismo sempre più estremi, cui è difficile resistere e che fagocitano anche simboli e regole religiose come vie per aprirsi nuovi spazi commerciali. Scenari inediti che chiamano in causa l’essere stesso delle religioni, le loro pratiche e la loro posizione nel mondo.

Certo, Gesù ci educa a cogliere l’uomo nella sua finitezza, nei suoi limiti, nelle sue debolezze, nella sua povertà morale e materiale. Finitezza, limite, debolezza, povertà: termini tutti che l’economia, per sua natura, non può comprendere ma che anzi deve combattere in quanto a essa contradditori.

Non è senza significato che Gesù abbia detto che, alla fine dei tempi, i criteri del giudizio non avranno nulla a che vedere con ciò che abbiamo creduto ma nell’aver dato da mangiare, da bere, vestito, curato, alloggiato, visitato affamati, assetati, ignudi, malati e senza dimora (Mt 25,31-46). Nell’avere cioè noi stessi colto il nostro prossimo nella sua realtà, di averla con lui condivisa e cercato di superarla…

Ma c’è spazio oggi per un’economia giusta, solidale, basata sul rispetto del bene comune, come auspica fra gli altri papa Francesco nell’enciclica Laudato si’? E per una logica economica che preveda l’uomo come fine, e non come puro mezzo?

Domande antiche, che sono costantemente risuonate nelle tante relazioni previste, e che attualmente assumono una rilevanza decisiva per il futuro del nostro pianeta.

L’ideologia dell’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, infatti, non fanno che accrescere le disuguaglianze, provocando il rifiuto di qualsiasi riferimento etico e alimentando la violenza come reazione degli esclusi da un sistema radicalmente ingiusto.

Non a caso, questo è stato l’argomento, affidato alla teologa battista Lidia Maggi e al teologo e vescovo di Modena Erio Castellucci, su cui si è chiusa la sessione, tenendo la porta aperta: come testimoniare il vangelo nelle società delle diseguaglianze economiche?

Ha risposto Castellucci: una testimonianza concreta della risurrezione di Gesù non può che passare attraverso una reale distribuzione dei beni e un’efficace giustizia sociale nelle comunità cristiane. Prospettiva impegnativa, che richiede una stagione di conversione autentica delle Chiese e nelle Chiese.

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La pena di morte viola la dignità della persona

abolire pena di morte

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«Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune.

Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi.

Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che “la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”,[1] e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo».

È il nuovo testo del n. 2267 della editio typica del Catechismo della Chiesa cattolica (CCC) in vigore dal 2 agosto 2018, a seguito della pubblicazione del rescritto[2] a firma del card. Luis Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.[3] La precedente versione del 1997, risalente al CCC approvato da Giovanni Paolo II con la lettera apostolica Laetamur magnopere,[4]era del seguente tenore:

«L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani.

Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana.

Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti”».[5]

Modifica annunciata

La modifica del Catechismo era stata esplicitamente auspicata da Francesco nel discorso dell’11 ottobre 2017 ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione.

Nell’occasione, il vescovo di Roma disse che la problematica della pena di morte «non può essere ridotta a un mero ricordo di insegnamento storico senza far emergere non solo il progresso nella dottrina ad opera degli ultimi Pontefici, ma anche la mutata consapevolezza del popolo cristiano, che rifiuta un atteggiamento consenziente nei confronti di una pena che lede pesantemente la dignità umana. Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale. È in se stessa contraria al Vangelo perché viene deciso volontariamente di sopprimere una vita umana che è sempre sacra agli occhi del Creatore e di cui Dio solo in ultima analisi è vero giudice e garante. Mai nessun uomo, “neppure l’omicida perde la sua dignità personale”,[6] perché Dio è un Padre che sempre attende il ritorno del figlio il quale, sapendo di avere sbagliato, chiede perdono e inizia una nuova vita. A nessuno, quindi, può essere tolta non solo la vita, ma la stessa possibilità di un riscatto morale ed esistenziale che torni a favore della comunità… È necessario ribadire pertanto che, per quanto grave possa essere stato il reato commesso, la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona».

Va ricordato che, con riferimento alla pena di morte in sede di trattazione delle specificazioni dei precetti del decalogo, la Pontificia Commissione Biblica nel 2008 affermò che «con il corso della storia e lo sviluppo delle civiltà, la Chiesa ha pure affinato le proprie posizioni morali riguardanti la pena di morte e la guerra in nome di un culto della vita umana che essa nutre ininterrottamente meditando la Scrittura e che prende sempre più colore di un assoluto. Ciò che sottende queste posizioni apparentemente radicali è sempre la stessa nozione antropologica di base: la dignità fondamentale dell’uomo creato a immagine di Dio».[7]

A questo punto, sarebbe utile che si procedesse anche alla rettifica del paragrafo n. 405[8] delCompendio della dottrina sociale della Chiesa che recepisce l’ormai abrogato n. 2267 del CCC.

Provvedimento favorevolmente accolto

Il provvedimento di Francesco è stato accolto con entusiasmo da quelle organizzazioni – come Nessuno tocchi Caino o Amnesty International – e da quegli organismi ecclesiali – come la Comunità di Sant’Egidio –, che da tempo sono impegnati per l’abolizione della pena di morte.

Per Nessuno tocchi Caino, si tratta di «un altro importantissimo passo di papa Francesco verso l’abolizione delle pene inumane e degradanti per l’affermazione senza eccezioni della dignità umana. La cancellazione netta della riserva di legittimità della pena di morte nei casi più gravi, seppur rari, ancora presente nel Nuovo Catechismo, rappresenta un’ulteriore tappa della missione evangelica di questo straordinario Pontefice. Dopo l’introduzione del reato di tortura e l’abolizione dell’ergastolo[9] – una «pena di morte mascherata», come Francesco l’ha definita – nell’ordinamento vaticano, questa nuova riforma è altrettanto importante perché riguarda un testo di respiro universale che impegna i cattolici in tutto il mondo ad adoperarsi per porre fine a questo e ad analoghi anacronismi penali della storia umana, quali sono la condanna a morte e la condanna a vita, la pena di morte e la pena fino alla morte».

Da parte sua, Amnesty International ha accolto l’iniziativa di Francesco come «un importante passo avanti». «Già in passato, la Chiesa aveva espresso la sua avversione per la pena di morte, ma con parole che non escludevano ambiguità», ha detto Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. «Oggi lo dicono in un modo ancora più chiaro». Inoltre, sempre il portavoce di Amnesty Italia ha elogiato la chiara indicazione dell’impegno della Chiesa per l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo.

La Comunità di Sant’Egidio ha accolto con riconoscenza e soddisfazione la decisione di papa Francesco. Nella nuova formulazione del paragrafo 2267 del CCC – si legge in un comunicato pubblicato nel sito della Comunità – la pena capitale è definita «inammissibile alla luce del Vangelo perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona». «La decisione del papa è un’ulteriore spinta alla Chiesa e ai cattolici, a partire dal Vangelo, a rispettare la sacralità della vita umana e a impegnarsi in ogni continente e a ogni livello per l’abolizione di questa pratica disumana. La Comunità, da anni promotrice di campagne contro la pena di morte in tutto il mondo, si sente ulteriormente coinvolta in questa battaglia di civiltà e di umanità. Siamo convinti che un giorno la pena capitale scomparirà dagli ordinamenti giuridici come in Europa – unico continente che finora ha bandito la pena di morte – e come già sta avvenendo in tanti Paesi, soprattutto in Africa».

La situazione della pena di morte nel mondo

È di rilievo che nella nuova formulazione del n. 2267 del CCC si affermi che «la Chiesa si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo».

Al riguardo va ricordato che, pur essendo la pena di morte abolita per legge o nella pratica in più di due terzi dei paesi al mondo, continuano ad essere ben cinquantasei gli Stati che la mantengono.

Ecco la situazione alla data del 31 dicembre 2017;[10]

  • 106 paesi hanno abolito la pena di morte per ogni reato;
  • 7 paesi l’hanno abolita salvo che per reati eccezionali, quali quelli commessi in tempo di guerra o in circostanze eccezionali;
  • 29 paesi sono abolizionisti de facto poiché non vi si registrano esecuzioni da almeno dieci anni oppure hanno stabilito una prassi o hanno assunto un impegno a livello internazionale a non eseguire condanne a morte;
  • 56 paesi mantengono in vigore la pena capitale, ma il numero di quelli dove le condanne a morte sono eseguite è molto più basso.

I Paesi che hanno abolito la pena di morte per tutti i reati sono i seguenti: Albania, Andorra, Angola, Argentina, Armenia, Australia, Austria, Azerbaijan, Belgio, Benin, Bhutan, Bolivia, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Burundi, Cambogia, Canada, Capo Verde, Cipro, Città del Vaticano, Colombia, Congo (Repubblica del), Costa Rica, Costa d’Avorio, Croazia, Danimarca, Ecuador, Estonia, Filippine, Finlandia, Figi, Francia, Gabon, Georgia, Germania, Gibuti, Grecia, Guinea, Guinea Bissau, Haiti, Honduras, Irlanda, Islanda, Isole Cook, Isole Marshall, Isole Salomone, Italia, Kirghizistan, Kiribati, Liechtenstein, Lituania, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Madagascar, Malta, Mauritius, Messico, Micronesia, Moldavia, Monaco, Mongolia, Montenegro, Mozambico, Namibia, Nauru, Nepal, Nicaragua, Niue, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Palau, Panama, Paraguay, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Repubblica Dominicana, Repubblica Slovacca, Romania, Ruanda, Samoa, San Marino, Sao Tomè e Principe, Senegal, Serbia (incluso il Kosovo), Seychelles, Slovenia, Spagna, Sudafrica, Suriname, Svezia, Svizzera, Timor Est, Togo, Turchia, Turkmenistan, Tuvalu, Ucraina, Ungheria, Uruguay, Uzbekistan, Vanuatu, Venezuela.

I Paesi che hanno abolito la pena di morte per reati comuni sono i seguenti: Brasile, Cile, El Salvador, Guatemala, Israele, Kazakistan, Perù.

I Paesi che hanno abolito de facto la pena di morte sono i seguenti: Algeria, Brunei Darussalam, Burkina Faso, Camerun, Corea del Sud, Eritrea, Federazione Russa, Ghana, Grenada, Kenya, Laos, Liberia, Malawi, Maldive, Mali, Mauritania, Marocco, Myanmar, Niger, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sri Lanka, Swaziland, Tagikistan, Tanzania, Tonga, Tunisia, Zambia.

I Paesi che, invece, mantengono la pena di morte sono i seguenti:[11] Afghanistan*, Antigua e Barbuda, Arabia Saudita*, Bahamas, Bahrain*, Bangladesh*, Barbados, Belize, Bielorussia*, Botswana, Ciad, Cina*, Comore, Corea del Nord*, Cuba, Dominica, Egitto*, Emirati Arabi Uniti*, Etiopia, Gambia, Giamaica, Giappone*, Giordania*, Guinea Equatoriale, Guyana, India, Indonesia, Iran*, Iraq*, Kuwait*, Lesotho, Libano, Libia, Malesia*, Nigeria, Oman, Palestina (Stato di)*, Pakistan*, Qatar, Repubblica Democratica del Congo, Singapore*, Siria, Somalia*, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Stati Uniti d’America*, Sudan, Sudan del Sud*, Thailandia, Taiwan, Trinidad e Tobago, Uganda, Vietnam*, Yemen*, Zimbabwe.

E in Italia?

«La pena di morte non è un diritto, ma è una guerra della nazione contro un suo cittadino». Così scriveva nel 1764 Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene. A distanza di più di due secoli, l’esigenza che gli Stati interrompano questa inutile e barbara guerra continua ad essere di tragica attualità.

La pena di morte va abolita in tutto il mondo perché è una pena incivile, che contraddice ad ogni accettabile legittimazione del diritto di punire. Solo chi non ha sufficiente rispetto per la vita altrui può pensare di disporne liberamente. Gli Stati non devono mai ergersi a giustizieri e al contempo non devono rinunciare ad essere luoghi dove venga esercitata una giustizia mite, equa e non vendicativa. La morte è infatti antitetica e in opposizione ontologica ad una qualsiasi idea di giustizia.

La Costituzione italiana, all’articolo 27,[12] con coraggio e lungimiranza ha sancito che le pene non devono mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Con legge Costituzionale n. 1 del 2 ottobre 2007 l’articolo è stato emendato, con l’esclusione della pena di morte anche dai codici militari di guerra e oggi il relativo quarto comma recita così: «Non è ammessa la pena di morte».[13]

Come ha avuto modo di affermare la Corte Costituzionale,[14] il divieto della pena di morte ha un rilievo del tutto particolare – al pari di quello delle pene contrarie al senso di umanità – nella prima parte della Carta costituzionale. Introdotto dal quarto comma dell’articolo 27,[15] esso si configura nel sistema costituzionale «quale proiezione della garanzia accordata al bene fondamentale della vita, che è il primo dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti dall’articolo 2».

Non solo la Repubblica non può prevedere la pena di morte e tutte le pene inumane e degradanti, ma è anche vietata l’estradizione in Paesi che potrebbero applicarla alla persona di cui chiedono l’estradizione o verso i quali si prospetta l’ipotesi di espulsione.[16]

E non è consentita nemmeno l’importazione di organi, a fini di trapianto, da Paesi che praticano l’espianto dal corpo di condannati a morte.[17]


[1] Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione (11 ottobre 2017).

[2] Nel diritto canonico il “rescritto” è una risposta scritta a carattere normativo, data dal papa su questioni di teologia, o da un’autorità ecclesiastica riguardo alla concessione di grazia o a risoluzioni di controversie.

[3] Come ha scritto Alberto Melloni su “La Repubblica” del 3 agosto 2018, la decisione papale, «gesto giusto e salutato da entusiasmo…, arriva 50 anni dopo l’abolizione della pena di morte dalla Città del Vaticano, 155 dopo il pensionamento di Mastro Titta, il leggendario boia del papa che lasciò il lavoro dopo 564 esecuzioni, e 26 dopo la pubblicazione del Catechismo».

[4] Che, peraltro, aveva modificato sensibilmente quanto, in tema di pena di morte, era contenuto nel Catechismo di Pio X del 1905. Alla domanda “Vi sono dei casi nei quali sia lecito uccidere il prossimo?” il numero 413 del Catechismo rispondeva: «È lecito uccidere il prossimo quando si combatte in una guerra giusta, quando si eseguisce per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto; e finalmente quando trattasi di necessaria e legittima difesa della vita contro un ingiusto aggressore».

[5] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 56.

[6] Francesco, Lettera al Presidente della Commissione Internazionale contro la pena di morte (20 marzo 2015).

[7] Pontificio Commissione Biblica Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano, 2008, n. 98.3.

[8] Il paragrafo, che fa riferimento al n. 2267 CCC e all’enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II, riassume bene la posizione ufficiale della Chiesa cattolica fino al 1° agosto 2018 che oscilla tra l’ammissione, a livello strettamente teorico, della legittimità della pena di morte e l’affermazione, sul terreno operativo, della sua impraticabilità per l’assenza delle condizioni richieste. Il paragrafo in questione afferma quanto segue: «La Chiesa vede come un segno di speranza “la sempre più diffusa avversione dell’opinione pubblica alla pena di morte anche solo come strumento di “legittima difesa” sociale, in considerazione delle possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l’ha commesso, non gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi” (Giovanni Paolo II, Lett. enc.Evangelium vitae, 27). Seppure l’insegnamento tradizionale della Chiesa non escluda — supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole — la pena di morte “quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani” (CCC n. 2267), i metodi non cruenti di repressione e di punizione sono preferibili in quanto “meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e più conformi alla dignità della persona umana” (CCC n. 2267) Il crescente numero di Paesi che adottano provvedimenti per abolire la pena di morte o per sospenderne l’applicazione è anche una prova del fatto che i casi in cui è assolutamente necessario sopprimere il reo “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 56). La crescente avversione dell’opinione pubblica alla pena di morte e i vari provvedimenti in vista della sua abolizione, ovvero della sospensione della sua applicazione, costituiscono visibili manifestazioni di una maggiore sensibilità morale».

[9] Con il motu proprio dell’11 luglio 2013 “sulla giurisdizione degli organi giudiziari dello Stato della Città del Vaticano in materia penale”.

[10] I dati riportati sono ricavati dal Rapporto di Amnesty International, Condanne a morte ed esecuzioni nel 2017, pubblicato nell’aprile 2018.

[11] Quelli contrassegnati con * hanno eseguito condanne a morte nel 2017.

[12] L’articolo 27 della Costituzione Italiana recita: «(1) La responsabilità penale è personale. (2) L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. (3) Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. (4) Non è ammessa la pena di morte».

[13] Con legge ordinaria 13 ottobre 1994 n. 589 la pena di morte era già stata abolita dal codice militare di guerra e sostituita dall’ergastolo.

[14] Con sentenza n. 223 del 27 giugno 1996.

[15] La pena di morte nell’ Italia unita, abolita con il Codice Zanardelli (1889), venne reintrodotta dal fascismo con la legge 25 novembre 1926 n. 2008 (Provvedimenti per la difesa dello Stato), istitutiva del Tribunale speciale per la difesa dello Stato.

[16] Articolo 698, secondo comma, c.p.p.

[17] Articolo 2 del Decreto Ministero della salute 2 dicembre 2004 recante “Modalità per il rilascio delle
autorizzazioni all’esportazione o all’importazione di organi e tessuti”.