Ritrovato il più antico antifonario Antesignano di spartito è del 1100.Bonisoli, tutela è importante

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Ritrovato alla Biblioteca Universitaria di Pavia un antifonario del 1100, forse il più antico finora conosciuto. Lo annuncia il ministro della cultura Bonisoli precisando che la pagina di pergamena manoscritta, antesignana dello spartito musicale, è stata ritrovata durante il restauro finanziato con l’Art Bonus dal Mibac di un volume del ‘600. Un ritrovamento, sottolinea, “che dimostra l’importanza della tutela e del rapporto con il mondo universitario e il suo sistema bibliotecario”. Autrice del ritrovamento la restauratrice Alessandra Furlotti. La pergamena con l’antifonario, in pratica un breviario che riportava anche le parti cantate della liturgia, era stata usata nel ‘600 come rinforzo della legatura del volume. Dominique Gatté, l’esperto musicologo interpellato per le prime verifiche ha confermato la scoperta databile al 1100 e collocabile nella zona di Novara.

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Oltre il confine. Un luogo di accoglienza tra Libano e Israele

Un muro di recinzione al confine tra il Libano meridionale e Israele

Un muro di recinzione al confine tra il Libano meridionale e Israele

Luoghi di una bellezza stucchevole, dove il tempo è sospeso da tempo. Queste valli e queste colline nascondono le ferite ancora sanguinanti della guerra. Laggiù, in fondo alla valle, nel 2006 furono rapiti da Hezbollah due soldati israeliani di pattuglia: fu l’inizio di una guerra durata meno delle precedenti, ma cruenta e devastante.

Lassù, invece, domina un forte su cui svetta la bandiera con la stella di Davide. Qui nel villaggio di Ramia, libanesi e israeliani sono praticamente a contatto, appena poche centinaia di metri separano i due campi. Libanesi, cioè innanzitutto gli Hezbollah, libanesi acerrimi nemici degli israeliani. Si vive come avvolti in un’atmosfera sospesa, le postazioni nascoste di Hezbollah e quelle più visibili degli israeliani conferiscono alla vita locale un carattere di precarietà, se non di paura, che prende allo sterno e non ti lascia più. Sì, ogni due minuti di vede passare una pattuglia dell’Unifil, la forza di interposizione dell’Onu che ha permesso la fine della guerra del 2006 e l’inizio di un processo di status quo, ma la sospensione non cessa.

Gli italiani, va detto, hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evitare una carneficina: all’epoca l’intuizione di pace fu realizzata dal governo Prodi, ma ancora oggi i nostri connazionali sono amatissimi dalla popolazione e rispettati dai combattenti delle due parti, anche perché qui l’Onu sostiene la gente con efficaci attività solidaristiche ed economiche. Se ci sono gli Hezbollah sciiti, non mancano i cristiani, come testimonia sulla collina alle spalle dell’eremo nel quale ci troviamo ora, una grande statua di San Giuseppe. O, appena un po’ più lontano, un’enorme statua della Vergine, issata su un piedistallo dalle forme originali, se non kitsch, ad Ain Ebel, villaggio interamente cristiano. L’incantevole regione era parte della Galilea al tempo di Gesù, ed è proprio qui che suor Béatrice Mauger, originaria della regione di Lione in Francia, ha deciso di trasferirsi con un progetto folle, e a suo modo profetico: lavorare nientemeno che alla riconciliazione tra i figli di Abramo. Dopo un’esperienza decennale come religiosa in un paio di congregazioni di vita consacrata, nel 2009 avvertì il richiamo delle terre di Gesù, e divenne cooperante con la Délegation catholique pour la coopération nella regione.

Suor Mauger davanti allo chalet per la preghiera

Suor Mauger davanti allo chalet per la preghiera

Lavorava al sostegno della comunità cristiana del villaggio di Qaouzah, contadini che non avevano voluto andarsene nel 2006 e che volevano continuare a coltivare una terra dura, che dà olive, tabacco, timo e qualche ortaggio. Fondò una cooperativa agricola, riadattò una casa con lo scopo di creare un centro giovanile, si diede da fare. Fu in quell’epoca che ritornò nel suo cuore la chiamata a seguire Gesù in forma consacrata, con lo scopo preciso di pregare per la pace e la riconciliazione. Non era stata estranea alla decisione la frequentazione per alcuni anni della maggioranza musulmana nella regione, andando oltre le differenze religiose, nella semplicità della vita quotidiana che era precaria per tutti. «Ho cercato di capire perché Qaouzah era finito nel mio itinerario di vita – mi spiega suor Béatrice –, un buco nel mondo, un luogo dove non c’è prospettiva né speranza, dove le armi hanno troppo spesso dettato la loro legge.

Ebbene, poco alla volta ho capito che Dio mi chiamava qui a una vita di preghiera e di fraternità, senza cercare di voler fare grandi cose, ma solo di testimoniare che le religioni di Abramo sono “condannate” a vivere assieme, e possono farlo o nella guerra o nella pace. Io ho scelto la pace, perché Dio l’ha scelta per questo luogo e per tutta la Terra Santa». Sulla sua strada di discernimento, ha avuto una grande importanza monsignor Nabil Hage, vescovo maronita di Sour, cioè di Tiro. Lo incontro nel suo arcivescovado povero e dignitoso, appena a ridosso del porticciolo dove convivono barche da diporto e pescherecci, mentre le rovine romane, un mare di marmo, sono ad un tiro di schioppo. Monsignor Hage dà così la sua testimonianza: «Ho avvertito sin dal primo incontro con suor Béatrice una certa affinità di vedute, per via della vocazione di entrambi alla pace». Non a caso, nel 1970, in occasione della sua ordinazione sacerdotale, il seminarista Nabil che mons. Hage era all’epoca, aveva scritto nell’invito alla cerimonia: «Prete per la pace in Medio Oriente». Così diede subito il suo sostegno al progetto della religiosa francese di costruire un luogo «dove accogliere – come mi spiega ancora suor Béatrice – per un periodo di raccoglimento e di preghiera tutti coloro che ricercano la pace e desiderano pregare per la riconciliazione e il perdono».

Nel cantiere dove si sta costruendo una “arca della pace”, osserviamo nella sera tiepida, attraverso una breccia nel muro dove verrà inserita una vetrata, il luogo del rapimento dei due soldati israeliani: «Quando questa costruzione sarà terminata – mi spiega ancora – qui esisterà un luogo discreto, piccolo, solido, in cui si dimostrerà che le armi possono pure gridare, ma il silenzio dei cuori può portare alla pace e alla riconciliazione». La Provvidenza è intervenuta a più riprese per permettere l’avanzamento dei lavori, «a testimonianza di un progetto che sembra essere ispirato dallo Spirito Santo e non solo dalla volontà di una persona modesta come la sottoscritta».

Passiamo poi a dissetarci dinanzi a uno dei tre chalet in legno – piccoli ma perfettamente autonomi – nei quali suor Béatrice riceve coloro che desiderano unirsi a lei nella preghiera per la pace. Beviamo una bibita fatta con bacche locali, con noi c’è pure una giovane donna sciita dei dintorni, Mariam: «Qui vengono spesso delle donne musulmane per conversare con me e condividere le loro preoccupazioni », mi spiega la religiosa. Al momento del congedo, ecco la sorpresa di un enorme figura che si protende al di là di una recinzione, con un atteggiamento non proprio conciliante: suor Béatrice sulla collina di san Giuseppe a Qaouzah ha raccolto una gran quantità di animali, tra cui un cammello che ora pretende attenzione: ‘Sono convinta che gli animali nel nostro Atelier della Porta Noè che dà avvio al “circuito della pace” che ho tracciato sulla collina, uno strumentospecchio per aiutare ogni uomo a nominare e addomesticare tutte le energie della sua giungla interiore. Energie che i padri del deserto, alla ricerca appunto di pace, chiamavano passioni, hésychia in greco o sakina in arabo».

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Testimonianza. «Vi racconto la Sla. Non mi rassegno e vivo col sorriso»

Valerio Picheca parla per suo papà, Luigi, seguendo il movimento dei suoi occhi su una lavagna di plexiglass

Valerio Picheca parla per suo papà, Luigi, seguendo il movimento dei suoi occhi su una lavagna di plexiglass

Ma che avrà sempre da sorridere? E perché dal suo letto mi fissa arguto, quasi ironico? Quando vai a conoscere una persona che è malata di Sla da 13 anni, immobile nel corpo con la sola eccezione delle palpebre, tutto ti aspetti tranne che di essere tu quello a disagio sotto lo sguardo enigmatico che sembra metterti alla prova. Ma presto ti accorgi che Luigi Picheca sereno lo è davvero e se ha gli occhi così vivi è perché sono il solo varco attraverso il quale riversa il suo ricco mondo interiore. Il silenzio della stanza è rotto solo dall’affanno cadenzato della macchina che respira per lui nella tracheotomia, eppure nulla appare triste, persino le piantane ai lati del letto grondano flebo e tubicini, ma anche sciarpe della Juve e gadget di amici tifosi. Nella cornice dorata sulla parete la foto del Papa: «Sua Santità Francesco imparte di cuore la Benedizione apostolica a Luigi Picheca in occasione del 60° compleanno…».

Qui il tempo sembra scorrere in modo diverso, forse a causa di quel tonfo ansante che ogni tot secondi spinge l’aria nei polmoni e così scandisce giorni e notte, sempre uguale da anni, come un metronomo. Ma è di nuovo Luigi a rompere il ghiaccio: «Benvenuta, collega». In realtà le sue parole le pronuncia il figlio Valerio, che le legge seguendo le sue pupille su una tavoletta in plexiglass con su scritte le lettere… «Ci esercitiamo da dieci anni», spiega il padre, che ha già notato lo stupore. «Ormai anche gli infermieri e la badante sono velocissimi a leggere il mio sguardo», aggiunge ancora, con la voce di Valerio.

Colleghi, già: perché dal 2014, in occasione dei Mondiali di calcio in Brasile, ha iniziato a scrivere per il quotidiano online Il Dialogo di Monza, sottotitolo La provocazione del bene, testata dedicata alle buone notizie, e l’Ordine dei giornalisti gli ha consegnato la tessera di pubblicista. Ma nella vita precedente Luigi Picheca, 63 anni, lavorava come chimico in un’industria, un sogno realizzato.

«Nel 2004 ho festeggiato i 50 anni senza immaginare che quello sarebbe stato l’ultimo anno di vita normale – racconta –. Mi sentivo un leone, praticavo gli sport che mi piacevano, facevo ciò che volevo e non mi rendevo conto di essere fortunato… Poi un braccio che non risponde più, la visita neurologica, i sospetti, la diagnosi: ero condannato alla Sla, malattia a me sconosciuta fino ad allora, e la mia vita prendeva una direzione spaventosa. Più che disperazione era angoscia, paura di fronte all’imprevisto e a un futuro breve e terribile», che man mano gli rubava uno per uno tutti i movimenti volontari.

Facile e comprensibilissima la rinuncia. «Se non che prima delle risposte delle cliniche svizzere è arrivata la risposta dal Cielo», ovvero un pneumologo che in pochi minuti gli ha cambiato alcuni parametri errati e Luigi ha ricominciato a respirare bene. «Questo dice quanto è importante la cura, nelle nostre condizioni. So cosa si pensa, che è meglio morire piuttosto che vivere come me, invece adesso dico che la vita non si deve scartare così facilmente, la ricchezza di emozioni che ci regala va vissuta fino all’ultimo istante». La svolta è stata l’approdo alla Rsd (Residenza sanitaria disabili) “San Pietro” di Monza dieci anni fa, «esattamente il 3 luglio 2008». È l’unica struttura in Italia del tutto dedicata ai malati di Sla e in stato vegetativo, con il personale interamente specializzato nel trattamento di questi pazienti. «Qui non ero più arrabbiato con il mondo, ho cominciato ad accettare la mia nuova esperienza di vita e ho constatato che il corpo umano è in grado di adeguarsi alle nuove condizioni, facendoci scoprire risorse inimmaginabili in noi stessi».

Una certezza che Luigi vuole mettere a disposizione di chi si trova di fronte alla sua stessa agghiacciante paura: «Già prima ero volontario nella Protezione Civile, ora per gli altri posso fare molto di più, posso indicare la speranza a chi è sul baratro e rischia di perderla». Lui ha le carte in regola per farlo, ha visto morire attorno a sé le persone che non potevano accettare di vivere attaccate a un ventilatore e nutrirsi con il tubicino della Peg direttamente nello stomaco: «È stata durissima anche per me, arrivato qui pesavo 48 chili ed ero sfinito, ma poi pensavo ai tanti bambini che nascono già malati, io in fondo per 50 anni ero stato fortunato, non potevo comportarmi da vigliacco».

Proprio da questi pensieri si è aperta un varco la fede dimenticata da anni, «oggi la mia grande forza», e la passione di scrivere, «di far conoscere il nostro mondo ricco di idee e dignità, ma troppo sconosciuto». Il peggior fraintendimento è la compassione, «io sono felice e non ho un attimo di noia, qui alla “San Pietro” sono risorto con nuova linfa, perché vivere una malattia con l’aiuto di persone competenti e positive ti fare stare bene e tuveramente puoi amare la vita. Questa oggi è casa mia».

È qui nella cappella della Rsd che è venuta a sposarsi sua figlia Federica. E in fondo è grazie alla Sla che Luigi ha anche risposato sua moglie: «Eravamo separati da 11 anni, ma la malattia ci ha fatti ritrovare. Anzi trovare per davvero». Oggi è lei la più veloce con la tavoletta trasparente e la prima a cogliere i suoi desideri. «Papà talvolta ha nostalgia dei sapori – interviene il figlio, e questa volta parla per sé – così mia madre gli diluisce qualche goccia di caffè sulla lingua, o attraverso la Peg gli dà i centrifugati fatti in casa… un po’ di aroma arriva».

In un libro di riflessioni, Orizzonti imprevisti. Scritti con SLAncio Luigi va anche oltre: «Oggi mi sento più appagato di quando ero sano, e sono anche migliore, perché adesso so capire quanto valgono le persone che si muovono intorno a me e mi donano un amore che pochi sanno apprezzare pienamente».

Alla fine ci affida un appello ai “sani”, «di pensare più alla loro vita e non correre dietro alle banalità. La nostra società rincorre i falsi miti della ricchezza, della efficienza, della bellezza, e non ha più tempo per interessarsi a chi è “emarginato”, lo leggo negli occhi di molti che, quando guardano uno di noi, guardano la carrozzina e le nostre infermità, non le persone che si celano in noi…». Anche se, ci scrive in una email il giorno dopo, «del resto purtroppo ero così anch’io prima di vivere questa tragica esperienza… Che però ha il pregio di farci conoscere il bello che c’è in noi».

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