Giovani «senza fede»? No, c’è una sete nuova

Giovani «senza fede»? No, c'è una sete nuova

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Il rapporto tra i giovani e la fede è, oggi più che mai, tema di attualità. Non solo per l’avvicinarsi del Sinodo ma anche perché i giovani e la fede stanno veramente a cuore a tutti noi. Per riflettere sul tema appare, però, utile evitare almeno un paio di errori tra i più comuni: pensare ai giovani senza considerarli all’interno dell’intero percorso della loro vita e, inoltre, separare la fede da un’interpretazione complessiva dell’esistenza. In entrambi i casi, ciò che è da temere è la frammentazione.

Sul primo versante è utile ricordare che la giovinezza è, in realtà, soltanto un momento di un percorso più articolato e complesso. Ha, quindi, le caratteristiche, i pregi e i difetti di quel singolo momento. Non è l’intero. E non tutto può essere dato o richiesto in quel momento. Alcune cose potranno maturare, altre scomparire. Ci potrà stare anche qualche cambiamento di percorso e qualche errore. E la guida di persone più mature ed esperte sarà sempre di grande utilità.

Sul secondo versante, anche la fede rischia di non essere ben compresa se staccata dal suo contesto. La fede è un modo di interpretare e vivere l’intera esistenza. Ed è così legata ai gesti, alle parole e alle scelte della vita da essere difficilmente riconoscibile senza di essi. Così non è mai facile capire se la fede c’è o non c’è. A volte compare dove meno ce lo si aspetti. Perché è molto più vicina a un modo di vivere che a un semplice concetto o a un’asettica definizione. Anche per questo non è mai facile comprendere i giovani e la loro fede. Nessuna delle due realtà, infatti, è statica e se a volte possono apparire come frammenti, lo sono, ma di un intero. Perciò, è tanto più facile comprenderle quanto meno le si staccano dall’intero.

È possibile, allora, che se la fede viene interpretata solo come una pratica religiosa o come un assenso intellettuale, i giovani appaiano irrimediabilmente lontani da essa. Al contrario, se quegli stessi giovani sono confrontati con gli itinerari di fede descritti nella Bibbia e spesso presenti nella tradizione cristiana, appaiono assai meno lontani da un autentico cammino di fede.

È quanto si può intuire, per esempio, leggendo le interviste realizzate dall’Istituto Toniolo all’interno dell’indagine su «Giovani e fede in Italia». Un giovane studente di ventuno anni, di Roma, mentre dice «non frequento la chiesa» e «sono dell’opinione che se non vedo non credo», allo stesso tempo apprezza «la speranza che può dare la fede e che può dare Dio» e confida: «Facendo una preghiera riesco a sentirmi meglio; questa è una cosa bella». Un giovane ragioniere di ventisette anni, disoccupato, abitante in un piccolo centro del Nord, si definisce agnostico, ma mentre critica coloro che «credono, ma non vanno in chiesa», ritiene anche che «il vero regno di Dio sia dentro l’uomo», perché «la religione è una cosa interiore». Questi due giovani manifestano una grave mancanza di fede o stanno cercando una fede più interiore e autentica? Una giovane ventottenne che risiede in un piccolo centro della Romagna mentre dice «non credo nella fede intesa come fede cattolica, quindi non credo in un Signore nel Paradiso, in tutto quello che ci insegnano a catechismo e giù di lì», e mentre si lamenta delle pratiche ecclesiastiche – «Non sono più andata in chiesa se non per il matrimonio della mia migliore amica che si è sposata l’anno scorso e ti posso garantire che è stato un sacrificio stare lì dentro un’ora e mezza a sentire delle “ciofeche”, perché io non ci credevo; ci sono andata solo perché voglio molto bene a lei e credo che la loro unione sarebbe stata ugualmente valida anche se l’avessero fatta in Comune» –, allo stesso tempo ritiene che la fede sia qualcosa che assomiglia a quel delicato rapporto che ha con la sua mamma, morta quando lei aveva solo venti mesi: «Come io trovo conforto in quella che è l’anima della mia mamma, quando ne ho bisogno, molto probabilmente altre persone credono in Dio perché dà loro conforto, perché si sentono aiutate; per gli stessi motivi per i quali io, quando ho bisogno, mi giro e dico “mamma cosa faccio?”, loro si girano e dicono “Signore adesso cosa faccio?”; credo che sia la stessa identica domanda, cambia solo la persona alla quale è indirizzata la richiesta di aiuto». Anche qui: è mancanza di fede o desiderio di una fede personale, profonda e autentica?

Si potrebbe proseguire con la presentazione delle interviste nelle quali i giovani dicono di sperimentare uno stretto collegamento tra la fede e la speranza; cercare in Dio il sostegno, la serenità e il conforto necessari per affrontare le vicende – non di rado sofferte e dolorose – della loro vita; leggere i Vangeli per ritrovarvi l’insegnamento e il volto di Gesù; avere fiducia nei miracoli; riconoscere la gioia e la bellezza di una fede autentica.

Tra tutti, si può citare Francesca, ventenne, studentessa della facoltà di Scienze della comunicazione. Racconta così alcuni passaggi importanti della sua vita: «Un giorno muore il fratello di una mia amica, un bambino di dieci anni. Da lì ho deciso di fare della mia vita qualcosa di straordinario. Ho deciso di avvicinarmi alle persone. […] Cerco di stare accanto agli altri. Cerco di amare un po’ di più e, prima di tutto, prima di me stessa vedo l’altro. Secondo me l’altro è una missione meravigliosa. Secondo me l’altro è una scoperta meravigliosa. Penso che ognuno abbia croci e momenti di sconforto. Tutta la bellezza, però, sta nel trasformare questi momenti e nell’arricchire la vita degli altri. Nel vedere la loro luce, quando tu ci sei. […] Questo spero di fare ogni giorno: ascoltare. […] Mi sono ripromessa che non avrei mai più fatto morire gli altri di solitudine. So cosa si prova. Lo so e, quindi, non accadrà mai che qualcuno non senta la mia presenza, mai. Perché io ci sono. Per me è una missione. Amare l’altro è una missione. È trasmettere quello che io ho dentro. Ci provo quotidianamente». Sorprendente la capacità di Francesca di trasformare una situazione di difficoltà e di dolore in un’occasione di crescita della propria disponibilità all’incontro, all’ascolto e alla dedizione. Sino ad avvertire l’esigenza di partire da qui per plasmare la propria vita. Sembra di scorgere, in lei, i tratti dei grandi fondatori cristiani che da situazioni di bisogno sono stati spesso capaci di trarre idee e progetti in grado di migliorare la vita di tutti.

Nascono allora alcune domande che sembrano accompagnare bene le nostre riflessioni sui giovani e la fede. Non è che per capire i giovani sia necessario ascoltarli di più, evitando di interpretare la loro fede alla luce di schemi formali e precostituiti? Non è che la loro educazione religiosa, anziché essere progettata come un “vaccino”, da inoculare prima possibile e una volta per sempre, debba essere pensata come un cammino progressivo da accompagnare delicatamente per tutta la vita? Non è che tendiamo ancora a pensare la fede più come una serie di pratiche e di concetti piuttosto che come un incontro personale con Gesù dal quale nasce, con consapevolezza e libertà, un modo di vivere più autentico? Non è che nella pastorale siamo ancora più impegnati a gestire spazi e a organizzare eventi e percorsi comunitari anziché favorire l’incontro personale e l’ascolto reciproco, in tutti i luoghi nei quali quotidianamente viviamo?

In realtà, avremmo tutti e facilmente a disposizione un eccellente modello di pastorale: Gesù, che era davvero un “maestro” nell’incontrare le persone e ascoltarle, per rianimare la loro libertà e la loro vita.

Migranti. Papa Francesco: solidarietà e misericordia le uniche risposte sensate

Papa Francesco: solidarietà e misericordia le uniche risposte sensate

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L’8 luglio di 5 anni fa papa Francesco visitò Lampedusa, luogo simbolo della sofferenza di tanti migranti nel Mediterraneo. Nel primo viaggio al di fuori del Vaticano, volle denunciare quella “globalizzazione dell’indifferenza” che rende insensibili alle grida degli altri. E oggi il Papa ha scelto di rinnovare nella preghiera un tributo alle vittime dei naufragi, ai sopravvissuti e a chi li assiste.

“Il Signore promette ristoro e liberazione a tutti gli oppressi del mondo, ma ha bisogno di noi per rendere efficace la sua promessa. Ha bisogno dei nostri occhi per vedere le necessità dei fratelli e delle sorelle – ha sottolineato nell’omelia della Messa in San Pietro per le persone migranti – . Ha bisogno delle nostre mani per soccorrere. Ha bisogno della nostra voce per denunciare le ingiustizie commesse nel silenzio, talvolta complice, di molti“.

IL TESTO DELL’OMELIA DELLA MESSA PER I MIGRANTI

IL VIDEO

Nella Messa per le vittime dei naufragi, per le tante troppe persone morte su tutte le rotte migratorie il Papaha citato un passo del Vangelo di Matteo nel quale Gesù rimprovera i farisei, facili a subdole mormorazioni: “Andate a imparare che cosa vuol dire: ‘Misericordia io voglio e non sacrifici’ (9,13). È un’accusa diretta verso l’ipocrisia sterile di chi non vuole “sporcarsi le mani”, come il sacerdote e il levita della parabola del Buon Samaritano. Si tratta di una tentazione ben presente anche ai nostri giorni, che si traduce in una chiusura nei confronti di quanti hanno diritto, come noi, alla sicurezza e a una condizione di vita dignitosa, e che costruisce muri, reali o immaginari, invece di ponti”.

Il Papa ha ringraziato chi presta soccorsi nel Mar Mediterraneo che si fermano “per salvare la vita del povero picchiato dai banditi, senza chiedergli chi sia, la sua origine, i motivi del suo viaggio o i documenti e semplicemente decide di prendere in carico e salvare la sua vita”.

E a chi è stato salvato, “voglio ribadire – ha aggiunto Francesco – la mia solidarietà e incoraggiamento, poiché conosco bene le tragedie dalle quali state scappando. Vi chiedo di continuare ad essere testimoni di speranza in un mondo sempre più preoccupato per il suo presente, con pochissima visione del futuro e riluttanza a condividere”. E al tempo stesso ad avere “rispetto per la cultura e le leggi del Paese che vi accoglie” per mettere in campo “congiuntamente un percorso di integrazione”.

Superare tutte le paure e le inquietudini“: è l’appello finale con cui il Papa ha concluso l’omelia della Messa per le persone migranti.

A Lampedusa, in quel lembo di terra tra Tunisia e Italia, Francesco già 5 anni fa parlò di “immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte”: con queste parole scelse di aprire l’omelia della Messa al Campo sportivo “Arena”, davanti a 10mila persone, da un palco costruito anche con i relitti di quelle barche naufragate, con un pensiero “come una spina nel cuore” per una e, insieme, tante tragedie.

 

Slow Food. Petrini: «Lotta alla fame e sostenibilità sono sfide di comunità»

Carlo Petrini, fondatore di Slow Food

«Ripartiamo dalla comunità». Carlo Petrini, classe 1949, ha l’entusiasmo di un giovanotto davanti allo slogan coniato da Slow Food. In concreto, il movimento della chiocciola fondato da Petrini non sarà più guidato da un presidente e un segretario, ma da un comitato esecutivo di sette membri, con responsabilità condivise e un modello orizzontale. Per il gastronomo, sociologo e scrittore da qui si vince la sfida di rendere il pianeta più sostenibile e dare cibo buono e pulito a tutti. «Abbiamo superato un modello europeo sul quale si basano associazioni, partiti, movimenti e sindacati per sposare un elemento più inclusivo. Quindi avremo comunità che operano a livello di sostenibilità ambientale e sociale. Ne abbiamo già che lavorano con disabili, con persone meno fortunate. Fatti salvi i principi distintivi della difesa della biodiversità, il lavorare su cibo buono, pulito e giusto difendendone il valore e non solo il prezzo, quando realtà comunitarie esprimono questa unità di intenti dobbiamo accoglierle e non far partire meccanismi come il tesseramento e la verticalità del governo. Dobbiamo realizzare quel che ci ha insegnato la rete di Terra Madre, quindi dare rappresentanza a realtà che stanno effettuando un cambiamento dal basso straordinario verso una realtà più sostenibile. Ma lei si immagina le nostre comunità africane o quelle degli indios Yanomani dell’Amazzonia nei nostri schemi? Invece occorre aprirci alla diversità non solo vegetale e animale, ma anche delle forme di socialità».

Quante persone coinvolge Slow Food?

Se resto all’elemento contabile in Italia siamo 40 mila, se penso ai mille orti realizzati nelle scuole italiane che coinvolgono bambini e insegnanti, genitori e nonni, siamo molti di più. In Africa abbiamo quasi 4mila orti che danno lavoro a 80 mila persone. Come facciamo a tesserarli? Sono tornato da un viaggio in Kenya, ho visto cose incredibili, si sentono Slow food, membri di Terra madre. Non possiamo escludere questa moltitudine.

Accessibilità di tutti al cibo buono, pulito e giusto. È ancora possibile?

È il nostro elemento distintivo, La lotta di buona parte del mondo con la malnutrizione e la fame grida ancora vendetta. Il nostro movimento non si occupa solo del piacere e della qualità del cibo disinteressandosi di chi non può sfamarsi. È una battaglia sancita nell’ultimo congresso a Chengdu, in Cina. Finché ci sarà un essere umano che non ha accesso al cibo noi ci batteremo.

Ma in un mercato globale dominato da poche multinazionali sembra quasi un miracolo che comunità e movimenti riescano a spingere verso la sostenibilità. Come fanno?

Guardiamo all’Italia. Oggi i presidi Slow food, forme di tutela e difesa di prodotti a rischio estinzione perché l’omologazione produttiva stava uccidendo la biodiversità, sono più rilevanti che non tante denominazioni di origine. La nostra attività ha valorizzato l’economia locale, della comunità e del territorio rispetto a un’impostazione del sistema alimentare che sta mettendo il potere nelle mani di pochi. La reazione è lavorare per un’economia locale che difenda le specificità e diventa una forma politica di intervento portatrice di un concetto diverso.

Ovvero?

Non siamo nati consumatori, ma per stare bene con le nostre famiglie, per crescere in armonia con la natura. Siamo esseri viventi, quindi abbiamo bisogno di un’economia diversa, collegata alla socialità e che esalti la diversità.

Ma spesso dietro la qualità del cibo in Italia si nasconde lo sfruttamento dei braccianti…

Su questo come sul problema dei migranti non riusciamo a sviluppare una narrazione per spiegare ai cittadini che il disastro in Africa che mette in moto i flussi non è causato solo da guerre, ingiustizie e violenza ma anche dai cambiamenti climatici. Dei quali siamo i principali responsabili, anche se il dazio lo pagano gli africani. Questo è iniquo. Se queste cose non si denunciano, se restiamo a guardare il fenomeno delle migrazioni intensive, non si capisce che è tutto legato e che i flussi sono il risultato di una politica di ladrocinio e discriminazione perpetrata su questi territori con la complicità di molti governanti africani.

Che senso ha allora la comunità?

Viviamo in un tempo dove la politica brucia i leader con velocità impressionante. È una dinamica che non lascia tracce, le comunità sono invece costruttive e potenti. Possono accettare grandi sfide perché hanno la sicurezza affettiva che + un antidoto alla politica dello scarto e della prevaricazione.

Il Vangelo XIV Domenica – Tempo ordinario Anno B. Lo scandalo di vedere Dio come uno di noi. 8 Luglio 2018

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Gesù andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono.
Missione che sembra un fallimento e invece si trasforma in una felice disseminazione: «percorreva i villaggi insegnando».
A Nazaret non è creduto e, annota il Vangelo, «non vi poté operare nessun prodigio»; ma subito si corregge: «solo impose le mani a pochi malati e li guarì». Il rifiutato non si arrende, si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. L’amante respinto non si deprime, continua ad amare, anche pochi, anche uno solo. L’amore non è stanco: è solo stupito («e si meravigliava della loro incredulità»). Così è il nostro Dio: non nutre mai rancori, lui profuma di vita.
Dapprima la gente rimaneva ad ascoltare Gesù stupita. Come mai lo stupore si muta così rapidamente in scandalo? Probabilmente perché l’insegnamento di Gesù è totalmente nuovo. Gesù è l’inedito di Dio, l’inedito dell’uomo; è venuto a portare un «insegnamento nuovo» (Mc 1,27), a mettere la persona prima della legge, a capovolgere la logica del sacrificio, sacrificando se stesso. E chi è omologato alla vecchia religione non si riconosce nel profeta perché non si riconosce in quel Dio che viene annunciato, un Dio che fa grazia ad ogni figlio, sparge misericordia senza condizioni, fa nuove tutte le cose. La gente di casa, del villaggio, della patria (v.4) fanno proprio come noi, che amiamo andare in cerca di conferme a ciò che già pensiamo, ci nutriamo di ripetizioni e ridondanze, incapaci di pensare in altra luce.
E poi Gesù non parla come uno dei maestri d’Israele, con il loro linguaggio alto, “religioso”, ma adopera parole di casa, di terra, di orto, di lago, quelle di tutti i giorni. Racconta parabole laiche, che tutti possono capire, dove un germoglio, un grano di senape, un fico a primavera diventano personaggi di una rivelazione.
E allora dove è il sublime? Dove la grandezza e la gloria dell’Altissimo? Scandalizza l’umanità di Dio, la sua prossimità. Eppure è proprio questa la buona notizia del Vangelo: che Dio si incarna, entra dentro l’ordinarietà di ogni vita, abbraccia l’imperfezione del mondo, che per noi non è sempre comprensibile, ma per Dio sempre abbracciabile.
Nessun profeta è bene accolto nella sua casa. Perché non è facile accettare che un falegname qualunque, un operaio senza studi e senza cultura, pretenda di parlare da profeta, con una profezia laica, quotidiana, che si muove per botteghe e villaggi, fuori dal magistero ufficiale, che circola attraverso canali nuovi e impropri. Ma è proprio questa l’incarnazione perenne di uno Spirito che, come un vento carico di pollini di primavera, non sai da dove viene e dove va, ma riempie le vecchie forme e passa oltre.
(Letture: Ezechiele 2,2-5; Salmo 122; 2 Corinzi 12,7-10; Marco 6,1-6)

di Ermes Ronchi in Avvenire